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PUBLIO CORNELIO TACITO - P. CORNELIUS TACITUS


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CORNELIO TACITO

" Sono in dubbio se credere che le vicende umane siano mosse dal destino e da una necessità immutabile o dal caso "
(Tacito. Annales VI 22)

Nome: Publius Cornelius Tacitus
Nascita: Gallia Narborense 55 d. c.
Morte: tra il 117 e il 120
Padre: Cornelio Tacito, procuratore della Gallia Belgica e della Germania.
Moglie: Giulia Agricola
Gens: Cornelia
Professione: storico, oratore, avvocato, pretore nell'88, senatore, console suffetto nel 97, proconsolato 112 - 113 in Asia


«La rivoluzione a Roma si realizzò in due tempi: nel primo fu repentina, nell’altro lenta. Il primo atto distrusse la repubblica nel corso della guerra civile, il secondo la libertà e l’aristocrazia negli anni di pace. Sallustio è il prodotto della prima epoca, Tacito dell’altra.»
(Ronald Syme, Tacito, vol. II, Brescia, Paideia, 1971, p. 718)

Publio Cornelio Tacito fu il più grande esponente storiografico della letteratura latina, talvolta indicato come Gaio Cornelio Tacito. Nacque attorno al 55 d.c. o fra il 46 e il 58, secondo altre fonti) nella Gallia Narbonense (oppure, ma meno attendibile, nella Gallia Cisalpina).

Il prenome di Tacito è tuttora incerto: in alcune lettere di Sidonio Apollinare e in alcuni vecchi scritti di poca rilevanza letteraria lo storico è nominato con Gaius, ma nel manoscritto principale della tradizione, con Publius. Questi finora sono riconosciuti come i due praenomina più avvalorati. L'ipotesi di un prenome Sextus non risulta avvalorata.

Le poche informazioni sulla vita ci derivano:
- dalle sue opere, 
- dalle lettere del suo amico e sincero ammiratore Plinio il Giovane, 
- da un’iscrizione trovata a Mylasa, in Caria (nell’attuale area costiera egea della Turchia), 
- da altre deduzioni di storici del passato. 
Molti particolari della sua vita restano sconosciuti.

TACITO

LA NASCITA

L'insufficienza di informazioni impedisce di individuare esattamente l'anno e il luogo di nascita dello scrittore. Sembra sia nato attorno al 55 nella Gallia Narbonense. Il luogo d'origine è deducibile anche dalla simpatia occasionale per i barbari che fecero resistenza contro la lex romana (Annales II, 9), nonostante la possibile origine spagnola del Fabius Iustus al quale Tacito dedica il Dialogus suggerisca un legame con la Spagna e la sua amicizia con Plinio indichi l'Italia del Nord come terra natale.
 
Ma sul luogo di nascita c'è anche una tradizione tarda che, rifacendosi a un passo dell'Historia Augusta relativo alla vita dell'imperatore romano, Marco Claudio Tacito (275 - 276), attribuisce i natali dello storico alla città di Terni.



LA FAMIGLIA

Sembra fosse un aristocratico della gens romana patrizia Cornelia, ma non ve ne sono prove. Non v'è infatti alcun documento storico che attesti l'esistenza di un Cornelius chiamato Tacito. Il forte legame d’amicizia tra Plinio il Giovane e Tacito ha fatto supporre agli storici un’equivalente estrazione sociale: ceto equestre, ricchezza e provenienza provinciale.

L'ipotesi, largamente accettata, per la quale lo scrittore latino sarebbe nato da una famiglia di rango equestre oppure senatorio può essere comprovata anche dal disprezzo per gli arrampicatori sociali su cui insiste Tacito.

Ma la sua posizione sociale di rilievo fu dovuta soprattutto alla benevolenza degli imperatori Flavii. Suo padre si ritiene possa essere stato il Cornelio Tacito procuratore della Gallia Belgica e della Germania. Tacito stesso affermò che molti senatori e cavalieri discendevano da liberti, ma l'ipotesi che ne discendesse anche lui non ha trovato nessun supporto.

Sappiamo dalle fonti che Tacito studiò retorica a Roma, come preparazione alla carriera nella magistratura e nella politica e, come Plinio, potrebbe avere studiato sotto Quintiliano e sappiamo che amasse molto cacciare. Nel 77 d.c. contrasse matrimonio con Giulia Agricola, la figlia tredicenne (sic!) del potente generale Gneo Giulio Agricola, il quale era allora al comando di una legione operante in Bitinia. Tacito partecipò con l'incarico di tribuno militare, concessogli da Vespasiano attorno al 77.



CURSUN HONORUM

- Nel 77 d.c. partecipò alla legione di Agricola come tribuno militare, concessogli dall’Imperatore Vespasiano, come riferisce nelle Historiae. Ricoprì funzioni pubbliche nelle province all'incirca dall'89 al 93, forse a capo di una legione, forse in ambito civile, come si può intuire dal fatto che non fu presente alla morte del suocero,- Sotto Tito entrò nella vita politica, nell’81 o 82 d.c., con la carica di Questore.

- Divenne Pretore nell’88 ed entrò a far parte dei Quindecemviri Sacris Faciundis, un collegio sacerdotale che custodiva i Libri Sibillini e i Giochi Secolari.

- Divenne avvocato e oratore, sempre legato al suocero Agricola. Sopravvisse al regime di terrore instaurato da Domiziano (93-96), lasciando in lui una cupa amarezza, forse anche per la vergogna della propria complicità, 

Scrisse di Agricola: "La sua morte prematura gli regalò il grande conforto di sfuggire a quel tempo estremo in cui Domiziano distrusse la Repubblica, non più con qualche intervallo e pausa, ma senza soluzione di continuità e quasi con un unico colpo.… Poi successe che con le nostre mani cacciassimo in carcere Elvidio, e successe anche che dovessimo provare vergogna alla vista di Maurico e di Rustico e davanti al sangue innocente di Senecione. Nerone aveva almeno distolto gli occhi ai delitti li aveva comandati, senza poi godere dello spettacolo: sotto Domiziano, invece, la maggior sofferenza consisteva nel vedere e nell’essere veduti." 

Nel 97, durante il principato di Nerva, rivestì la carica di Console suffetto, il primo della sua famiglia a ricoprire tale carica e raggiunse i vertici della sua fama di oratore nel pronunciare il discorso funebre per il famoso soldato Virginio Rufo. 

Nel 98 scrisse e pubblicò l’Agricola (De Vita Iulii Agricolae), dedicata alla vita del suocero Gneo Giulio Agricola e alle sue imprese militari in Britannia, e in Germania. 

GLIULIO AGRICOLA

RITIRO A VITA PRIVATA 

Dopo la pubblicazione dell’Agricola e della Germania Tacito sparì per un certo periodo dalla scena pubblica, facendovi ritorno durante il regno di Traiano. Nell’anno 100, con il suo amico Plinio il giovane, perseguì per corruzione il governatore dell’Africa Mario Prisco, che, riconosciuto colpevole, subì l’esilio. Plinio scrisse alcuni giorni dopo che Tacito aveva parlato «con tutta la maestosità che caratterizza il suo usuale stile oratorio».

Seguì una nuova e più lunga assenza dalla politica e dalla magistratura, durante la quale Tacito scrisse le sue due opere più importanti: le Storie e gli Annali. "Le Storie" (Historiae), prima grande opera storiografica che tratta la storia di Roma dall’anno dei quattro Imperatori (69) fino all’assassinio di Domiziano (96), e gli "Annali" (Ab excessu Divi Augusti libri), seconda grande opera storiografica che tratta la storia di Roma dalla morte di Augusto (14) alla morte di Nerone (68). 

A Tacito è anche attribuito, seppur con qualche dubbio, anche il "Dialogo sugli oratori" (Dialogus de oratoribus), opera di datazione incerta (probabilmente scritto attorno al 100-101) sulle cause della decadenza dell’arte oratoria, individuate nel diverso tipo di educazione rispetto al passato, nel mutato insegnamento retorico e principalmente nelle condizioni politiche del sistema imperiale, che impediva ormai la libertà di parola. 



GOVERNATORE

In seguito, divenne governatore della provincia romana dell’Asia, nell’Anatolia occidentale, fra il 112 e il 113, come provato da un’iscrizione rinvenuta dagli archeologi a Milasa. Non vi sono notizie certe sull’esatta data e sulle circostanze della sua morte, che alcune fonti collocano tra il 117 e il 120, o attorno al 125. 

Un frammento della sua lapide sepolcrale, oggi conservato presso il Museo Epigrafico di Roma, non reca alcuna datazione. Non sappiamo neanche se abbia avuto dei figli, anche se l’Imperatore Marco Claudio Tacito, al potere dal Novembre del 275 al Giugno del 276, si dichiarò suo discendente.

"Germanico si rese conto che la battaglia da vicino era impari e quindi distanziò un poco le legioni, e dette ordine ai frombolieri e ai lanciatori di pietre di scagliare i proiettili e gettare lo scompiglio nelle schiere nemiche. Dalle macchine di guerra furono lanciati giavellotti e i difensori dell’argine quanto più erano in vista da tante più ferite erano sbalzati giù. 

Occupato il terrapieno, Cesare per il primo con le coorti pretorie si lanciò verso le foreste; qui lo scontro fu corpo a corpo. Il nemico era chiuso alle spalle dalla palude, i Romani dal fiume e dai monti: sia gli uni sia gli altri dovevano combattere sul luogo, senza altra speranza che il valore, altro scampo che vincere. 

Non era inferiore l’animo dei Germani, ma si trovavano in condizione d’inferiorità per il genere del combattimento e delle armi: stretti in così gran numero in luoghi angusti, non riuscivano né a protendere né a ritirare le loro lunghissime aste, né a valersi della propria agilità e rapidità, ma erano costretti a combattere sul posto; i nostri, al contrario, con lo scudo aderente al petto e la mano stretta all’impugnatura della spada, trafiggevano le membra imponenti dei barbari e i loro volti scoperti e si aprivano il passo massacrando i nemici, mentre Arminio ormai dopo tante prove senza sosta non aveva più lo stesso ardore o forse lo indeboliva la recente ferita.
 

Mentre a Inguiomero, che sembrava volasse lungo tutta la schiera, mancava la fortuna più che il valore. E Germanico per farsi riconoscere meglio s’era tolto l’elmo dal capo e pregava i suoi di insistere nel massacro: non c’era bisogno di prigionieri, solo lo sterminio di quel popolo avrebbe messo fine alla guerra. Solo al calar della sera ritirò dal combattimento una legione affinché allestisse l’accampamento; tutte le altre fino a notte si saziarono del sangue nemico. I cavalieri combatterono con esito incerto. 

Nell’allocuzione, Cesare espresse i suoi elogi ai vincitori; poi, eresse un trofeo d’armi con una iscrizione superba: «Debellati i popoli tra il Reno e l’Elba, l’esercito di Tiberio Cesare ha consacrato questo monumento a Giove, a Marte e ad Augusto». 

(TACITO, ANNALI, II, 20-22) 


LA MORTE 

 Un passaggio negli annali indica il 116 come il terminus post quem della sua morte, che può essere posto più tardi nel 125 e non sono pochi gli storici che pongono la data della morte durante il regno di Adriano 


LE OPERE

DE ORIGINE ET SITU GERMANORUM

La Germania (De origine et situ Germanorum), è una monografia del 98 d.c. sull'origine, i costumi, le istituzioni, le pratiche religiose e il territorio delle popolazioni germaniche poste fra il Reno e il Danubio.  Sembra che Tacito abbia attinto dai perduti Bella Germaniae di Plinio il Vecchio, il De Bello Gallico di Giulio Cesare, la Geografia di Strabone, e le opere di autori come Diodoro Siculo, Posidonio e Aufidio Basso.

Il libro inizia con la descrizione delle terre, delle leggi e dei costumi delle tribù dei popoli barbari, a partire dai confinanti con il limes imperiale fino a quelle ai più estremi confini settentrionali, sul mar Baltico, con una descrizione dei primitivi e selvaggi Fenni e di sconosciute tribù al di là di essi.

L’opera è divisa in due parti:
- dal capitolo I al XXVII Tacito descrive la Germania transrenana, su clima, paesaggio, struttura sociale e origini,
- dal capitolo XXVIII al XLVI elenca le singole popolazioni iniziando da Ovest, poi a Nord, a Sud e infine ad Est.

Ai tempi di Tacito, ben si ricordava la sconfitta militare e il tradimento nella Foresta di Teutoburgo, quando, fra il 9 e l’11 Settembre del 9 d.c., tre intere legioni e numerose coorti ausiliarie dell’esercito romano comandate dal generale Publio Quintilio Varo vennero completamente annientate in un’imboscata tesa loro dal capo germanico Arminio che li aveva traditi. 

Per i sopravvissuti di Teutoburgo la fine fu terribile: molti, catturati, vennero torturati ed esibiti come trofei. Specialmente centurioni e comandanti furono inchiodati ad alberi e seviziati a lungo, per compiere riti propiziatori barbarici. Qualche anno dopo Germanico tornò sul campo di battaglia e trovò i resti dei sopravvissuti, che fece seppellire. 

La vendetta romana sarebbe giunta a Idistaviso dove Germanico sconfisse nettamente l'esercito di Arminio, che però riuscì a fuggire ma morì alcuni anni dopo ucciso da altri capi barbarici come in genere avveniva tra le tribù che si combattevano tra loro.

Ma Tacito intendeva anche istituire e rappresentare una sorta di parallelo tra quello che erano i Germani allora (un popolo rude ma valoroso in guerra) con quello che i Romani erano stati e ora non erano più, a causa della loro decadenza morale.

Così Tacito chiude il capitolo comparando i 'buoni' costumi dei Germani (ibi) alle 'buone leggi' vigenti a Roma (alibi), per le tre leges Iuliae promulgate da Augusto nel 18 a.c. e alla lex Papia Poppaea del 9 a.c., che avevano cercando invano di regolare una materia colpita dalla scomparsa dei valori del mos maiorum.


HISTORIAE

Le Storie (Historiae), fu la prima grande opera storiografica sulla storia di Roma dall'anno dei quattro imperatori (69) all'assassinio di Domiziano (96); nel III capitolo dell'Agricola, Tacito aveva dichiarato di voler comporre una "memoria della precedente servitù" (ossia il regno di Domiziano) e una "testimonianza dei beni presenti" (i regni di Nerva e Traiano); ma nelle Historiae, Tacito rimanda la sua opera su Nerva e Traiano e decide di occuparsi prima del periodo compreso tra le guerre civili del 68-69 d.c. e il regno dei Flavii.

Del testo originale sono rimasti soltanto i primi 4 libri, con 26 capitoli del V libro, sugli anni 69 (inizio del regno di Galba) e la prima parte del 70 (rivolta giudaica). Il lavoro avrebbe dovuto proseguire fino alla morte di Domiziano, del 18 settembre 96. Il V libro contiene, come preludio alla narrazione della repressione della rivolta ebrea sotto Tito, un excursus sugli Ebrei, importante testimonianza dell'atteggiamento dei Romani verso quel popolo.

Tacito coglie nell'anno 69 la successione alla dinastia giulio-claudia, con il seguito di guerre civili e intrighi politici, il succedersi rapido dei tre imperatori Galba, Otone, Vitellio, e, infine, l'insediamento della dinastia Flavia con Vespasiano

Galba prende atto, nel suo celebre discorso per la scelta del successore, dell'impossibilità di fare ritorno alla repubblica, afferma la necessità del principato e presenta il principio dell'adozione come scelta del migliore: argomenti attuali nel 97, quando Nerva, con l'adozione di Traiano, aveva trovato un rimedio per scongiurare una nuova guerra civile.

Nella designazione di Pisone come successore di Galba, così come quella di Traiano successore di Nerva, solo apparentemente la scelta del principe dipendeva dal senato: il potere supremo apparteneva agli eserciti. Tacito prova simpatia per questo vecchio senatore "capax imperii nisi imperasset" (capace di governare, se non avesse governato) travolto da milizie strapotenti e da una plebe che assisteva alla guerra civile come a uno spettacolo, di fronte a una violenza generalizzata.

Le due opere principali, all'inizio pubblicate separatamente, erano in realtà parti integranti di una singola opera in trenta libri (le "Historiae" composte entro il 110 e gli "Annales" composti successivamente, nonostante raccontino un tratto della storia cronologicamente più antica delle Historiae). Esse offrono una narrazione della storia di Roma dalla morte di Augusto (14 d.c.) alla morte di Domiziano (96). Benché alcune parti siano andate perdute, essa è una delle maggiori opere storiche dell'antichità.



AB EXCESSU DIVI AUGUSTI LIBRI

Gli Annali (Ab excessu Divi Augusti libri), sono la seconda grande opera storiografica che tratta la storia di Roma dalla morte di Augusto (14) alla morte di Nerone (68). Gli Annales furono l'ultima opera storiografica di Tacito e per sua ammissione seguono la composizione delle Historiae e risalgono agli anni seguenti il suo proconsolato d'Asia (112-113). L'opera copre il periodo che va dalla morte di Augusto (il funerale dell'imperatore è il brano di apertura degli Annales e chiarisce subito il ruolo dell'autore nell'opera) avvenuta nel 14, fino a quella dell'imperatore Nerone, nel 68.

L'opera era composta di almeno 16 libri o 18, ma ci sono pervenuti soltanto i primi 4, l'inizio del V e il VI privo dei capitoli iniziali (con gli avvenimenti dalla morte di Augusto a quella di Tiberio nel 37 d.c.), oltre ai libri XI-XVI con alcune lacune nella prima parte dell'XI e nella seconda parte del XVI libro (regni di Claudio e Nerone), che avrebbe dovuto terminare col resoconto degli eventi del 66, mentre si interrompe al suicidio di Clodio Trasea Peto.
 

Si presume che i libri dal VII al XII parlassero dei regni di Caligola e Claudio. I restanti libri dovrebbero trattare del regno di Nerone, forse fino alla sua morte nel 68. Non è noto se Tacito abbia completato l'opera, egli è morto prima che potesse finire le biografie di Nerva e Traiano e non esistono prove che il lavoro su Augusto e sui primi anni dell'Impero, con cui Tacito intendeva concludere il suo lavoro da storiografo, sia stato compiuto.

In confronto alle Historiae, che favorivano il movimento di eserciti e masse, gli Annales si focalizzano sui meccanismi dell'Impero e sulla sua corruzione: i protagonisti sono dunque i singoli imperatori, opposti al senato: Tiberio è descritto come un esempio di falsità e dissimulazione del potere; Claudio è un inetto privo di volontà, manovrato dai liberti e dalle donne di corte, mentre Nerone è il tiranno privo di scrupoli, la cui follia sanguinaria non risparmia né la madre Agrippina minore né il suo antico istruttore Seneca.

Nonostante ciò Tacito rimane convinto della necessità del principato, ma ne coglie i rischi, avendo Augusto svuotato le magistrature repubblicane da ogni potere, ha lasciato terreno fertile per corruzione, intrigo e decadenza morale; complice anche il senato, diviso fra succube servilismo e blande opposizioni. Con l'incupirsi della visione storica di Tacito lo stile degli Annales è sempre più pessimistico.


DE VITA ET MORIBUS IULII AGRICOLAE 

L'Agricola. scritto nel 98. è dedicata alla vita di Gneo Giulio Agricola, suocero di Tacito, uomo politico e grande generale che conquistò la Britannia. L'opera comprende il racconto della gioventù e degli ultimi anni del protagonista. È la prima opera scritta da Tacito dopo la morte di Domiziano

Si tratta di una biografia elogiativa, encomio, "laudatio funebris" e "consolatio" scritta in ritardo (a causa dell'assenza di Tacito da Roma nel 93, all'epoca della morte del suocero), composta per la lettura pubblica. Era appena finito il quindicennio di silenzio coatto di Domiziano (81-96 d.c.), e Tacito avvertiva l'esigenza di lasciare una memoria storica di suo suocero, ma pure della tirannide domiziana.

Notevoli sono sono l'introduzione con una dura invettiva contro l'abbandono delle virtù nella Roma imperiale, e il discorso pronunciato da Calgaco (capo dei Caledoni), mentre incita i soldati prima della battaglia del monte Graupio (cap. XXX) con una pesante accusa verso l'avidità e l'imperialismo romano:
«Predatori del mondo intero: quando alle loro ruberie vennero meno le terre, si misero a frugare il mare. Se il nemico è ricco, eccoli avidi; se è povero, diventano arroganti. Né Oriente né Occidente potranno mai saziarli: soli fra tutti gli uomini riescono a essere ugualmente avidi della ricchezza e della povertà. Depredare, trucidare, rubare essi chiamano con il nome bugiardo di impero. Dove passano, creano deserto e lo chiamano pace

(Publio Cornelio Tacito, La vita di Agricola, Newton Compton editori, trad. G. D. Mazzocato)

Tacito non era contro l'espansione dei confini dell'impero ma contro l'esagerato sfruttamento delle popolazioni conquistate.


DIALOGUS DE ORATORIBUS

A Tacito è anche attribuito, con qualche dubbio, il Dialogo sugli oratori (Dialogus de oratoribus), opera di datazione incerta, sulle cause della decadenza dell'arte oratoria (ars oratoria), che sono individuate di volta in volta nel diverso tipo di educazione rispetto al passato, nel mutato insegnamento retorico e principalmente nelle condizioni politiche del regime monarchico, che impediva ormai la libertà di parola.

Fu probabilmente scritto dopo l'Agricola e la Germania, quindi dopo il 100 d.c., ma alcuni ne datano la composizione tra il 75 e l'80 e la pubblicazione dopo la morte di Domiziano. Molte caratteristiche lo distinguono dagli altri scritti di Tacito, tanto che l'autenticità fu messa in discussione, nonostante compaia sempre con l'Agricola e la Germania.

Lo stile è nella tradizione del dialogo ciceroniano, modello di riferimento per le opere di retorica, elaborato ma non prolisso, secondo il canone di Quintiliano. Potrebbe risalire alla giovinezza di Tacito; la dedica a Fabius Iustus potrebbe così indicare soltanto la data di pubblicazione dell'opera e non della sua stesura. Lo scritto riferisce una discussione, che si immagina avvenuta nel 75 o 77, e a cui dice di avere assistito, fra quattro oratori dell'epoca, Curiazio Materno, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo. 

Marco Apro rimprovera a Curiazio Materno di accantonare l'eloquenza per dedicarsi alla poesia drammatica: se ne ricava una discussione in cui Materno sostiene il primato della poesia e Apro dell'eloquenza; segue un dibattito sulla decadenza dell'oratoria, che viene attribuito da Messalla all'educazione moderna e da Curiazio Materno alla fine della repubblica e di quella anarchia che offriva libero campo ai conflitti, non solo verbali.

Tacito sembra identificarsi con le opinioni di Curiazio Materno, che indica nel regime liberticida e assolutista dell'età Flavia la causa principale della decadenza oratoria, contrariamente a quanto sosteneva Plinio il Giovane, il quale individua la causa della decadenza dell'arte oratoria nella cattiva istruzione della scuola, a quanto sosteneva Quintiliano, che attribuiva a tale causa il degrado della società o a quanto sosteneva Petronio nel Satyricon.



LO STILE LETTERARIO

Tacito ebbe uno stile elevato, solenne, poetico, tipico della tradizione romana che è conciso e diretto, rifuggendo dalla morbidezza artificiosa. Dalla storiografia romana, soprattutto da Gaio Sallustio Crispo, riprese la forma annalistica della narrazione.

L'opera di Tacito riscosse tutto sommato una forte simpatia presso l'aristocrazia per il pensiero politico dello storico, fu letta e copiata fino a quando, nel IV secolo, Ammiano Marcellino proseguì il lavoro, riprendendone lo stile. Ancor oggi gli studiosi considerano gli scritti di Tacito come una fonte piuttosto autorevole.


LE FONTI

Le piccole inesattezze che si riscontrano negli Annales, vista di solito l'accuratezza di Tacito, potrebbero derivare dal fatto che l'autore morì prima di terminare la sua opera e di farne una rilettura completa. In qualità di senatore, aveva infatti facile accesso ai documenti ufficiali degli Acta Diurna populi Romani (atti di governo e notizie su quanto avveniva nell'Urbe) e degli Acta senatus (i verbali delle sedute del senato) tra cui le raccolte dei discorsi di alcuni imperatori, come Tiberio e Claudio.

Utilizzò anche fonti storiche e letterarie di diversa provenienza, come Aufidio Basso e Servilio Noniano, per l'epoca di Tiberio, poi Cluvio Rufo, Fabio Rustico e Plinio il Vecchio, autore dei Bella Germaniae (Le guerre in Germania), per l'età neroniana. Insomma Tacito si servì di una molteplicità di fonti, talune anche di opposta tendenza e manipolate con una certa libertà ma pure con un certo giudizio.



I POSTERI

Tacito non fu molto letto nella tarda antichità e ancora meno nel Medioevo. Delle sue opere meno di un terzo è conosciuto e sopravvissuto: dipendiamo da un unico manoscritto per i libri I- VI degli Annales e da un altro per i libri XI-XVI oltre che per i cinque libri delle Historiae anche perché l'antipatia mostrata nei confronti di ebrei e cristiani dell'epoca, lo facevano escludere dai dotti medievali, quasi sempre ecclesiastici.

Nel risveglio del Rinascimento, venne rivalutato dai letterati e l'undicesima edizione dell'Encyclopædia Britannica lo ricordò come il più grande storico romano non solo per lo stile ma anche per l'insegnamento sia storico che morale nonchè per la narrativa.

Le opere di Tacito costituiscono ancora oggi la fonte più affidabile per gli studi sull'età del Principato, anche se con qualche imprecisione. Gli Annales si basano in parte, infatti, su fonti secondarie e non mancano alcuni errori, le Historiae, invece, trascritte come fonte primaria, sono considerate più accurate e precise.


BIBLIO

- Francesco Arnaldi - Tacito - Napoli - G. Macchiaroli - 1973 -
- P. C. Tacito - La vita di Agricola - Newton Compton ed. - trad. G. D. Mazzocato -
- Emanuele Ciaceri - Tacito - Torino - Unione tipografico-editrice torinese - 1941 -
- Pierre Grimal - Tacito. Lo scrittore e il moralista, lo storico e il politico tra la decadenza dei Cesari e il secolo d'oro degli Antonini - Milano - Garzanti -1991 -
- Concetto Marchesi - Tacito - Messina - G. Principato - 1955 -
- Alain Michel - Tacito e il destino dell'impero - Torino - G. Einaudi - 1973 -
- Ettore Paratore - Tacito, Milano, Istituto Editoriale Cisalpino - Roma - Edizioni dell'Ateneo - 1962 -
- Angelo Roncoroni - Tacito - Studia Humanitas - Milano - Mondadori Education - 2002 -
- Lidia Storoni Mazzolani - Tacito o della potestas - Firenze - Passigli - 1996 -
- Clarence Mendell - Tacitus: The Man and His Work - Yale University Press - 1957 -
- Ronald Syme - Tacitus - Oxford - Clarendon Press - 1958 -


MARCO FABIO QUINTILIANO - M. FABIUS QUINTILIANUS


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Nome: Marcus Fabius Quintilianus
Nascita: Calagurris Iulia Nasica nella Spagna Tarraconensis il 35 d.c.
Morte: Roma 96 d.c.
Professione: oratore e avvocato, e maestro di retorica per la prima volta stipendiato dallo stato.


« Quintiliano nelle Instituzioni dedicate a Marcello presentò lezioni, non solo di bene scrivere, ma di bene operare, istruì l'animo e l'intelletto, e pose per base de' suoi precetti che i costumi sono l'incremento delle lettere, che madre della vera eloquenza è la virtù.. »
(A. Ledru-Rollin in Guglielmo Audisio - Lezioni di sacra eloquenza - Stamperia Reale - TO - 1850)



LA VITA

Fabio si trasferì da piccolo con il padre retore a Roma dove seguì le lezioni di Remmio Palèmone e di Domizio Afro. Conobbe il filosofo Lucio Anneo Seneca ma lo ritenne un cattivo educatore e per come venne su Nerone forse non gli si possono dare tutti i torti. Ciò che si sa di Quintiliano è noto dalla sua opera e dal Chronicon di Girolamo, nonchè in Marziale II 90 e Giovenale VII 186 ss.
 
Al periodo tormentato di Nerone (54-68) di cui Seneca fu appunto tutore, seguì la «restaurazione» di Tito Flavio Vespasiano e dei figli (69-96): che sostituirono al filosofo e consigliere imperiale il retore e funzionario amministrativo, importante per la formazione oratoria della nuova classe politica romana. Come gusti letterari, Quintiliano si pose fra i classicisti, contando in una rinnovata serietà dell’insegnamento. Ebbe notevoli dispiaceri poichè perse la moglie giovanissima e di due figli in tenera età.



IN SPAGNA

"La maggior parte delle cose sono oneste o turpi non tanto per sé stesse, quanto per i motivi per cui si fanno" (Quintiliano XII, 1, 3)

Finiti gli studi tornò in Spagna dove restò fino al 68 insegnando la retorica; poi venne ricondotto a Roma da Sulpicio Galba, allora legatus Augusti della provincia, acclamato imperatore dalle legioni ispaniche, dove esercitò l'avvocatura e divenne maestro di retorica, con buona fama si che nel 78 Vespasiano gli affidò la prima cattedra statale di eloquenza.



A ROMA

L'imperatore gli accordò un onorario annuo di ben 100.000 sesterzi, per il suo contributo alla formazione della futura "classe dirigente". Dopo vent'anni abbandonò l'insegnamento, e scrisse sulla corruzione dell'arte dell'eloquenza (l'opera perduta De causis corruptae eloquentiae), e poi scrisse l'Institutio oratoria dove loda l'amico Giulio Secondo per il suo stile elegante. Per Quintiliano non era più la filosofia a ricoprire un ruolo primario, ma la retorica, che assumeva valenza educativa.

Quando, presumibilmente intorno al 90, Quintiliano pubblicò il "De causis corruptae eloquentiae", il Nuovo Stile di cui Seneca pochi decenni prima era stato l’esponente più illustre, contava ancora molti seguaci. Ma pochi anni dopo, ai tempi dell’Institutio, la situazione parve profondamente cambiata: il nuovo classicismo andava affermandosi e la battaglia culturale di Quintiliano aveva vinto.

Furono suoi allievi Plinio il Giovane (62 - 114) e Tacito (58 - 120); Domiziano lo incaricò nel 94 dell'educazione dei figli e dei nipoti, concedendogli la carica di console. Nell’Urbe rimase anche dopo l’assassinio del princeps, dedicandosi all’avvocatura e all’insegnamento dell’oratoria. Quintiliano scomparve presumibilmente fra il 96 e il 100 a Roma.


LE OPERE PERDUTE

"Est felicibus difficilis miseriarum vera aestimatio". (da Decl., p, 6)  "A chi è felice è difficile avere una vera comprensione della miseria."

(Quintiliano)


Di Quintiliano è andato perduto il trattato "De causis corruptae eloquentiae", le "Artes rethoricae", a dispense e due raccolte di "declamazioni" ("maiores" e "minores"). Le sue orazioni di avvocato andarono anch'esse perdute, nell'epurazione cristiana che tante opere distrusse in quanto pagane, furono però in parte recuperate presso altri autori e molto apprezzate dai contemporanei.

Nel saggio De causis corruptae eloquentiae (90 d.c.), egli affronta un problema già trattato da Seneca il Vecchio e da Petronio e che verrà riproposto, qualche anno dopo, da Tacito. "Prima est eloquentiae virtus perspicuitas" Prima virtù dell'eloquenza è la chiarezza. (II, 3, 8)

Quintiliano non attribuiva la crisi dell'oratoria alla decadenza della società romana come fecero Seneca il Vecchio e Tacito ma l'attribuì alla carenza di buoni insegnanti, poi al nuovo stile delle scuole di retorica, con cattivi insegnanti tipo Seneca, al deterioramento del gusto e dello stile, e infine alla moda delle declamazioni impostasi nei decenni precedenti, eccessivamente declamatorie.

INSTITUTIO ORATORIA

OPERE PERVENUTE

INSTITUTIO ORATORIA

Fu autore di un importante libro di testo di retorica, l' "Institutio oratoria". in dodici libri, scritta probabilmente fra il 93 e il 95, dedicato all'amico Marco Vitorio Marcello, un oratore ammirato anche da Stazio e amico di Valerio Probo, ed è preceduta da una lettera a Trifone, l’editore che dovette curarne la pubblicazione.

Vitorio Marcello era funzionario della corte di Domiziano, a cui Quintiliano dedica il libro per l'educazione del figlio Geta, e cioè l'Institutio oratoria (90-96 d.c.), cioè "la formazione dell'oratore" e del futuro uomo politico, compendio di 10 anni di insegnamento, come manuale dell'ars oratoria misto a insegnamenti pedagogici e suggerimenti didattici.

Quintiliano è contrario alle punizioni corporali, controproducenti al processo educativo ed è molto attento alle inclinazioni del bambino. La pedagogia è un metodo graduale, che va dal più semplice al più complesso, e dovrebbe durare tutta la vita. L'obiettivo finale della pedagogia proposta da Quintiliano è di formare il perfetto oratore.

In questo lavoro interagiscono, l'educatore, l'alunno, la scuola e la famiglia, in cui riconosce nella figura materna un ruolo fondamentale nella formazione linguistica del bambino. Quintiliano pensa e crede che ogni bambino possa diventare come Alessandro il Macedone, cioè la perfezione. Una figura da ammirare, per le sue gesta e soprattutto perché fu allievo di Aristotele (uno dei punti di riferimento di Quintiliano). Seneca invece riteneva l'immagine di Alessandro Magno immorale, spregiudicata e diseducativa.



IL MAESTRO COME UN SECONDO PADRE

Prenda dinanzi ai suoi discepoli l’aspetto di un genitore, non abbia né tolleri i vizi. Non sia arcigna la sua severità né dissoluta la sua compagnia affinchè da lì non derivi odio, da qui il disprezzo. Frequentissimo sia il discorso sull’onestà e sul bene, quanto più spesso avrà ammonito, più raramente castigherà. Non incline all’ira, né dissimulatore delle cose da punire, semplice nell’insegnare, resistente alle fatiche, assiduo più che esagerato.



SU MARCO CATONE

Sia, dunque, l’oratore che andiamo formando e di cui dà la definizione Marco Catone, uomo onesto, esperto nell’eloquenza, ma soprattutto, come egli stesso ha messo al primo posto, assolutamente onesto: non solo perché, se l’eloquenza fosse servita a dare armi alla malvagità, non ci sarebbe nulla di più dannoso, per la vita pubblica e privata, dell’eloquenza, e noi stessi, che abbiamo tentato di portare un contributo allo sviluppo dell’eloquenza, avremmo fatto il peggiore servizio all’umanità, se forgiassimo queste armi per un predone e non per un soldato. "
(Inst. XII 1)

Per Quintiliano l'oratore ideale è il "vir bonus dicendi peritus" cioè l'uomo onesto abile nel parlare, ma opponendosi agli eccessi del "Nuovo Stile" di tipo senecano a base di declamazioni che mirano a suscitare forti sentimenti, più che a insegnare. 

QUINTILIANO

SU CICERONE

Propone il modello di Cicerone come esempio di sanità di espressione e saldezza di costumi, senza ampollosità e figure retoriche, perchè l’oratore doveva raggiungere una formazione morale e culturale completa per cui il maestro doveva seguire l'alunno fin dall’infanzia, fornendo le competenze tecniche e l'esempio morale.

Spesso ho detto e dirò che Cicerone è oratore perfetto, così come chiamiamo generalmente gli amici e galantuomini e prudentissimi, mentre nessuna di queste qualità viene concessa, se non ai sapienti in assoluto. Ma, quando bisognerà esprimersi secondo la legge stessa della verità, cercherò quell’oratore che anche lui cercava. Sebbene io confessi che egli è pervenuto al più alto fastigio dell’eloquenza e non mi riesca quasi di trovare che cosa ancora gli si sarebbe potuto aggiungere, effettivamente il giudizio degli studiosi, in generale, è che siano in lui moltissime virtù e qualche difetto, tuttavia, se almeno avesse avuto vita più lunga e maggiore tranquillità per comporre, potrei onestamente credere che gli sia mancata quella suprema perfezione, alla quale nessuno più di lui si avvicinò mai. "
(Inst. XII 19-20)

Quintiliano è attento ai problemi didattici e pedagogici, con indicazioni didattiche legate in modo organico e coerente. Si poteva migliorare l’oratoria futura grazie al contributo di docenti validi e di seria moralità. Da criticare era invece la pratica delle declamationes, che, nate come esercitazioni per gli allievi delle scuole di retorica, divennero discorsi fittizi che si tenevano in pubblico, con uno stile ricercato e artificioso, mirante a sorprendere l'uditorio e strappare applausi.

Inoltre, sono state tramandate con il suo nome due raccolte di Declamationes (diciannove maiores, ampie e compiute, e centoquarantacinque minores in forma di schema o di abbozzo di orazione), ma la loro paternità è, in parte o completamente, respinta da molti studiosi.



DETTI DI QUINTILIANO

"Mendacem memorem esse oportet" - Il bugiardo deve avere buona memoria. (Quintiliano IV, 2, 91).

"Ubi amici ibi opes" Dove sono amici, lì sono denari. (V, 11, 41)

"Qui stultis videri eruditi volunt, stulti eruditis videntur "
Quelli che appaiono saggi in mezzo agli stupidi, in mezzo ai saggi appaiono stupidi. (X, 7, 21)

"Maledicus a malefico non distat nisi occasione" - Il maldicente non differisce dal malvagio che per l'occasione. (XII, 9, 9)

"Propositum potius amicum quam dictum perdendi" -  Preferii rinunciare ad un amico anziché ad un motto. (De causis corruptae eloquentiae VI, 3, 28)

Su Seneca: « Di molti suoi brani è consigliabile la lettura a scopo morale, ma per il riguardo stilistico sono generalmente corrotti e tanto più pericolosi, in quanto abbondano di allettanti vizi ».


BIBLIO

- J. Adamietz - Quintilian’s Institutio Oratoria - ANRW II - 1986 -
- Fabio Lanfranchi - Il Diritto nei retori romani: contributo alla storia dello sviluppo del diritto romano - Dott. A. Giuffré - 1938 -
- Marco Fabio Quintiliano, L'istituzione oratoria - trad. Rino Faranda - UTET - Torino - 1979 -
- P. Bizzell, B. Herzberg - The Rhetorical Tradition - Boston - 1990 -
- W. Dominik, J. Hall (eds.) - A Companion to Roman Rhetoric - Malden - 2010 -
- A. Ledru-Rollin in Guglielmo Audisio - Lezioni di sacra eloquenza - Stamperia Reale - Torino - 1850 -- Domenico Corvino - Nuove proposte letterarie latine - Guida Editori - Napoli - 2004 -


SILIO ITALICO - SILIUS ITALICUS


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SILIO ITALICO


Nome: Tiberius Catius Asconius Silius Italicus
Nascita: tra il 25 e il 29
Morte: 101 in Campania
Professione: avvocato, politico e poeta, console nel 68


La fonte principale della biografia di S. è Plinio il Giovane (Epist., III, 7), il quale annunzia a un amico che Silio a settantacinque anni compiuti si era lasciato morire di fame. La lettera (scritta tra il 101 e il 106) di Plinio il Giovane a Caninio Rufo (l'autore del Bellum Dacicum), parla della morte di Silio a settantacinque anni, avvenuta fra il 101 e il 104. Di conseguenza Silio nacque fra il 25 e il 29 d.c.

Secondo alcuni studiosi l nome Asconio (Asconius) fa pensare che fosse legato alla gens patavina (di Padova) ma non se ne ha certezza. Fu patrono di Marziale, il che ce lo designa come patrizio e facoltoso, e sia Marziale che Tacito ci informano che operò nel Foro come avvocato difensore, probabilmente già all'epoca dell'Imperatore Claudio. Poiché Marziale non lo ricorda mai come suo compatriota, il cognome Italicus non indica che era nato a Italica nella Spagna.

Plinio narra inoltre che nel periodo neroniano Silio fece anche il pubblico accusatore, ma non sempre in modo limpido, perchè non disdegnò la delazione sia su fatti veri sia come calunnia, secondo i desideri dell'imperatore. Nerone lo ricompensò con il consolato nel 68, ultimo console del suo regno e della sua vita.

Morto Nerone, Silio non venne estromesso come ci si sarebbe potuto aspettare, perchè comunque era amico di Vitellio, per cui partecipò alle trattative di questi con il fratello di Vespasiano, Tito Flavio Sabino, che era a Roma con il figlio di Vespasiano, Domiziano.

Silio Italico, che faceva di tutto per farsi benvolere, riuscì ad entrare nelle grazie anche di Vespasiano che nel 77 lo nominò proconsole in Asia Minore agli ordini dello stesso Imperatore, come testimonia un'epigrafe, rinvenuta nel 1934 ad Afrodisia (nella Caria), che riporta il suo nome completo: Tib. Catius Asconius Silius Italicus. 

Allo scadere del mandato proconsolare Silio Italico si ritirò dalla vita politica dedicandosi a ciò che gli piaceva di più, cioè agli studi e alla stesura del suo poema, i Punica, nel cui III libro vi è un elogio a Domiziano per il titolo di "Germanico" da lui ottenuto dal senato nell'83. Nel IV libro degli Epigrammi, composto attorno all'88-89, Silio rivolge un saluto a Marziale.

A causa del suo cagionevole stato di salute trascorse gli ultimi anni in Campania, terra di sole e mare, dove aveva acquistato una villa che era appartenuta a Cicerone, il suo oratore preferito. Era la terra che amava sia per i bellissimi panorami sia perchè accoglieva la tomba di Virgilio che molto amava e di cui parecchio aveva seguito lo stile nei suoi Punica.

Inoltre la sua bellissima villa era corredata una quantità grandissima di libri, di statue, di quadri, e di opere d'arte. Durante il principato di Domiziano, nel 94, fu felice di vedere nominato console il figlio Lucio Silio Deciano, ma presto la felicità venne meno, come informano Marziale e Plinio, in quanto gli venne a mancare il suo figlio minore.

Forse anche per questo dolore egli si ammalò di un male incurabile ed evidentemente doloroso, (probabilmente un tumore) nella Campania tanto amata, si che nel 101, a seguito dei suoi studi e dei suoi principi stoici, testimoniati da Epitteto (diss., 3, 8, 7), e da alcuni luoghi del suo poema (XIII, 663; XV, 18), ma anche per evitare i lancinanti dolori, si lasciò morire di fame.

GUERRA PUNICA


I PUNICA

« Canto la guerra che ha innalzato al cielo la gloria degli Eneadi e sottomesso la feroce Cartagine alle leggi dell'Enotria »

Silio Italico scrisse "i Punica" (Punicorum libri XVII), il più lungo poema epico latino fino ad oggi pervenutoci (12.202 versi), che racconta la II Guerra Punica dalla spedizione di Annibale in Spagna al trionfo di Scipione dopo Zama.

I Punica è poema storico in diciassette libri. Secondo una parte della critica il testo è rimasto incompiuto, in quanto si ipotizza un progetto originario in diciotto libri, parallelo alle dimensioni degli Annales di Ennio.

La sua disposizione annalistica volle indubbiamente ricollegarsi alla terza decade di Tito Livio, di cui copia il modello adattandolo ai suoi tempi e ai suoi personaggi: Tito Livio, tra augusteismo e antiaugusteismo; Silio, tra Apologia di Roma e decadentismo

Dato il ripetuto ricorso in tutta la letteratura augustea di immagini, personaggi e motivi topici della II guerra punica, divenuta quasi paradigma delle antiche virtutes, Silio colloca dopo il proemio il ritratto di Annibale e chiude, come Livio, con l'immagine del trionfo di Scipione.

L'opera fu concepita quale continuazione ed esplicazione dell'Eneide virgilianaː infatti la guerra di Annibale è vista come la continuazione di Virgilio, originata dalla maledizione di Didone contro Enea.
Plinio non è entusiasta di Silio, apprezzandolo per il suo gusto per le ricostruzioni minuziose, ma molto meno per lo stile. 

Lo stile dipende dal gusto del tempo, estremamente e artificiosamente elaborato, scene macabre unite al modello epico mitologico, e alcune riflessioni etiche. L'opera è comunque un po' confusa e frammentaria, poiché dà più importanza ai particolari piuttosto che non all'unità dell'opera, importante soprattutto per le molte informazioni storiche e mitologiche piuttosto che per la sua capacità poetica.



SCIPIONE E ANNIBALE

Il personaggio che domina la scena per ben dodici libri è Annibale che possiede tutte le caratteristiche anti-romane: avido di potere, sanguinario, ingannatore, ma ha una sua virtus: è un ottimo generale, sa riconoscere gli uomini e apprezza il valore. Mira alla gloria ma come nome che rifulga per la sua gente e i suoi posteri.

Solo all’inizio del tredicesimo libro entra in scena Scipione; nonostante egli come i più grandi eroi compia la discesa agli inferi (da Odisseo ad Enea ecc.), rimane relegato ad uno spazio esiguo. Silio dedica infatti molto più spazio ad Annibale: tutta la risolutiva campagna d’Africa è liquidata in un libro, il diciassettesimo, mentre alla battaglia di Canne vinta da Annibale il poeta aveva riservato quasi due interi libri.



LA SECONDA GUERRA PUNICA (1 - 20) (I PUNICA)

Libro I
La causa della guerra fu l'odio di Giunone contro Roma, per cui sceglie Annibale per abbatterla. - Annibale e il giuramento che prestò durante l'infanzia. -i Asdrubale succede ad Amilcare come comandante in Spagna: le sue conquiste e la morte. - Annibale succede ad Asdrubale nell'esercito cartaginese e spagnolo. - Personaggio di Annibale. - Annibale attacca Sagunto: storia della città e assedio. - I Saguntini mandano un'ambasciata a Roma: il discorso di Sicoris. - Al Senato Cneo Cornelio Lentulo e Q. Fabio Massimo esprimono opinioni diverse e vengono inviati ad Annibale.

Libro II 
Gli inviati romani, respinti da Annibale, vanno a Cartagine. Vengono ricevuti nel senato cartaginese: discorsi di Annone e Gestar: Fabio dichiara guerra. Annibale si occupa di alcune tribù ribelli e torna all'assedio: riceve un dono di armatura dai popoli spagnoli. Le sofferenze di Sagunto. La Dea Lealtà viene inviata in città da Ercole, il suo fondatore, e li incoraggia a resistere. Ma Giunone manda una Furia che fa impazzire il popolo. Costruiscono una grande pira e la accendono. Annibale prende la città. Epilogo del poeta.

Libro III
Presa Sagunto, Bostar viene inviato in Africa per consultare Giove Ammone. Annibale si reca a Gades, dove c'è il famoso tempio di Ercole e le meraviglie delle maree dell'Atlantico. Annibale manda sua moglie Himilce e suo figlio a Cartagine. Sogna la prossima campagna: il suo esercito. Attraversa i Pirenei, il Rodano e la Dura. Descrizione delle Alpi. Dopo terribili difficoltà stabilisce un campo sulla cima delle montagne. Venere e Giove conversano sul destino di Roma. Annibale si accampa nel paese dei Taurini. Bostar riporta dall'Africa la risposta di Giove Ammone.

Libro IV
Roma sa che Annibale ha raggiunto l'Italia: ma il Senato non perde d'animo. Annibale corteggia i Galli del Nord Italia. Scipione torna da Marsiglia. Entrambi i generali si rivolgono ai loro soldati e si preparano alla battaglia. Un presagio precede la battaglia. La battaglia di Ticino. Scipione si ritira nella Trebia ed è affiancato da un esercito sotto Tiberio Sempronio Longo. Annibale costringe i romani a combattere. Battaglia di Trebia. Il console C. Flaminio guida un nuovo esercito in Etruria. Istigato da Giunone, Annibale traversa l'Appennino e si accampa sul Lago Trasimeno. Gli inviati di Cartagine chiedono se acconsente all'immolazione del figlio neonato: rifiuta.

Libro V
Annibale pone una trappola al nemico. Il nome del lago Trasimeno. Flaminio fa luce sui presagi avversi e sull'avvertimento di Corvino, l'indovino, e incoraggia i suoi uomini a combattere. La battaglia del Lago Trasimeno.

Libro VI
Scene sul campo della battaglia persa. Fuga precipitosa dei romani. Serrano, figlio del famoso Regolo, è uno dei fuggitivi: raggiunge l'abitazione di Marus, già scudiero di suo padre in Africa, che gli cura le ferite e racconta la storia di Regolo come conquistatore e come prigioniero. Lutto e costernazione a Roma dopo la sconfitta. Serrano torna da sua madre, Marcia. Il Senato discute i piani di campagna. Giove impedisce ad Annibale di marciare su Roma. Q. Fabio è scelto come dictator. La sua saggezza. Annibale marcia attraverso l'Umbria e il Piceno in Campania: a Liternum vede sulle pareti del tempio immagini di scene della I guerra punica e ordina di bruciarle.

Libro VII
Fabius decide di non correre rischi sul campo. Cilnio, uno dei suoi prigionieri, informa Annibale sulla storia familiare e il carattere di Fabio. Osservanze religiose a Roma. Fabio ripristina la disciplina nell'esercito. Annibale non può tentarlo a combattere e si trasferisce in Puglia cercando di provocarlo con vari dispositivi. Ritorna in Campania e devasta il territorio Falerniano. La visita di Bacco al contadino anziano, Falerno. Fabio spiega la sua inazione ai soldati scontenti. Un trucco di Annibale, per rendere il Dittatore impopolare. Annibale, in situazione pericolosa, con uno stratagemma si accampa su un terreno aperto. Il dittatore, obbligato a visitare Roma, mette in guardia Minucio contro i combattimenti. Una flotta cartaginese sosta a Caieta: le Ninfe sono terrorizzate; ma la profezia di Proteo li conforta. A Minucio vengono dati uguali poteri con il Dittatore che gli cede metà dell'esercito, Minucio impegna avventatamente il nemico ma viene salvato dal dittatore, salutato come "padre" da Minucio e dai soldati.

Libro VIII
Ansia di Annibale. Giunone manda Anna, sorella di Didone, a consolarlo: Anna è ora una ninfa del fiume Numicio: racconta la sua storia e incoraggia Annibale predicendo la battaglia di Canne. C. Terenzio Varrone è eletto console a Roma: i suoi discorsi vanagloriosi. Il suo collega, L. Emilio Paolo, ha paura di contrastarlo. Gli viene consigliato da Fabio di opporsi a Varrone. I consoli iniziano per la Puglia: le loro truppe. I cattivi presagi prima della battaglia allarmano i soldati.



Libro IX
Varrone è ansioso di combattere specie dopo una scaramuccia di successo. Paolo tenta di trattenerlo. Un orribile crimine commesso nell'ignoranza durante la notte fa presagire un disastro per i romani. Annibale incoraggia i suoi e li disegna in linea di battaglia. Varrone fa lo stesso. La battaglia di Canne.

Libro X
La battaglia: valore e morte di Paolo. Incitato dalla vittoria, Annibale vuole marciare su Roma, ma Giunone manda il dio del sonno per fermarlo. Cede, nonostante le forti proteste di Mago. Il resto dell'esercito romano si raduna a Canusium: la loro misera situazione. Metello propone che i romani lascino l'Italia; ma Scipione minaccia la morte di lui e dei suoi simpatizzanti. Annibale esamina il campo di battaglia: il fedele cavallo di Clelio: la storia della sua antenata Clelia: il corpo di Paolo viene trovato e sepolto. Paura a Roma. Fabio incoraggia i suoi connazionali e calma la furia della popolazione contro Varrone tornato a Roma.

Libro XI
Molti italici si ribellano da Roma e si uniscono ad Annibale. Anche Capua: la ricchezza e le lussuose abitudini dei cittadini. Su moto di Pacuvio, inviano Virrio e altri inviati a Roma, chiedendo che uno dei due consoli sia un campano: richiesta rifiutata da Torquato, Fabio e Marcello. Capua passa ad Annibale: Decio protesta ma invano. Annibale va a Capua: ordina l'arresto di Decio, che sfida le sue minacce. Annibale visita la città e si diverte a un banchetto dove Teuthras di Cuma, musicista, suona e canta. Il figlio di Pacuvio vuole pugnalare Annibale, ma suo padre lo dissuade. Mago è inviato a Cartagine per annunciare la vittoria. Gli inverni di Annibale a Capua: Venere indebolisce lo spirito del suo esercito. Mago riferisce a Cartagine i successi di Annibale e attacca Hanno che esorta a fare la pace. Ma i rinforzi vengono inviati sia in Spagna che in Italia.

Libro XII
Annibale lascia Capua: le sue truppe indebolite perdono a Neapolis, Cuma e Puteoli. Visita Baiae e altri luoghi. A Nola viene sconfitto da Marcello. I romani sperano anche per un oracolo di Delfi. In Sardegna Torquato sconfigge Ampsagora: un omaggio al poeta Ennio. Annibale brucia diverse città e prende la città di Tarentum ma non la cittadella. Torna per difendere Capua battendo due eserciti romani: seppellisce il corpo di Tiberio Sempronio Gracco. Incapace di farsi strada verso Capua, marcia contro Roma che è atterrita. Esamina le mura e i dintorni della città, ma deve tornare all'accampamento perchè Fulvio Flacco è tornato dalla Campania. Due tentativi di combattimento sono frustrati da una terribile tempesta inviata da Giove. Al terzo tentativo è fermato da Giunone, che agisce per ordine di Giove. Gioia dei romani.

Libro XIII
Annibale si ritira sul fiume Tutia e gli viene impedito di attaccare Roma da Dasio, un disertore, che spiega che la città è inespugnabile fintanto che contiene il Palladio. Ritorna nella terra dei Bruttii. I romani prendono Capua. Il padre e lo zio di Scipione vengono sconfitti e uccisi in Spagna. Ciò induce Scipione a scendere nell'Ade per gli spiriti dei suoi parenti. Vede fantasmi di persone famosi e la Sibilla prevede la morte di Annibale. Ritorna quindi nel mondo superiore.

Libro XIV
La campagna di Marcello in Sicilia: descrizione dell'isola. Cause della guerra Morte di Ierone, re di Siracusa: successione di Ieronimo, che viene ucciso, confusione generale. Marcello prende d'assalto Leontini. Blocca Siracusa via terra e via mare. Alleati di Siracusa. Alleati di Roma. Alleati siciliani di Cartagine. Fiducia dei siracusani. Il genio di Archimede sventa i tentativi romani. Una lotta in mare. La peste. Alla fine la città è presa.

Libro XV
Il Senato non sa chi inviare in Spagna. P. Cornelio Scipione vuole andare, ma i parenti lo dissuadono. Virtù e Piacere si contendono la sua fedeltà. Incoraggiato dagli argomenti di Virtù, chiede il comando e lo riceve: un presagio di successo. La sua flotta atterra a Tarraco. Il fantasma di suo padre lo esorta a prendere Cartagine: lo fa. Sacrifica agli dei, premia i soldati e distribuisce il bottino: restituisce una fanciulla spagnola al suo amante ed è elogiato da Lelio per questo. Guerra contro Filippo di Macedonia. Fabio prende Tarentum con un trucco. I consoli Marcello e Crispino sono battuti da Annibale e Marcello viene ucciso. In Spagna Asdrubale viene messo in fuga da Scipione: elogio di Lelio. Asdrubale attraversa le Alpi, per unirsi a suo fratello. Allarme a Roma. Il console, C. Claudio Nerone, viene ammonito in sogno dall'Italia a marciare a nord contro Asdrubale. Nerone si unisce all'altro console, M. Livio. La battaglia del Metauro. Nerone ritorna in Lucania e mostra ad Annibale la testa di suo fratello fissata su un palo.

Libro XVI
Annibale si muove nel paese dei Brutti. I Cartaginesi vengono cacciati dalla Spagna: Magone viene sconfitto e paga a Cartagine. Annone viene fatto prigioniero da Scipione. L'esercito di Asdrubale, figlio di Gisgone, viene distrutto. Masinissa, un principe numidico, si unisce a Scipione. Scipione e Asdrubale alla corte di Siface che stipula un trattato con i romani; ma seguono presagi funesti. Scipione torna in Spagna e tiene giochi in onore di suo padre e suo zio. Ritorna a Roma ed è eletto console: nonostante l'opposizione di Fabio, ottiene il permesso di attraversare l'Africa.

Libro XVII
L'immagine di Cibele viene portata da Frigia a Roma e ricevuta a Ostia da P. Scipione Nasica: la castità di Claudia è confermata. Scipione attraversa l'Africa e avverte Siface di non rompere il patto con Roma: il campo di Siface viene bruciato e lui viene fatto prigioniero. Asdrubale si ritira a Cartagine: Annibale viene richiamato dall'Italia. Il sogno di Annibale prima dell'arrivo della convocazione. Lascia l'Italia in obbedienza alle convocazioni. Decide di tornare in Italia, ma viene impedito da una tempesta. Dopo l'atterraggio in Africa, incoraggia i suoi soldati. Giove e Giunone parlano del destino di Annibale. Battaglia di Zama. Scipione ritorna in trionfo a Roma.


BIBLIO

- M. A. Vinchesi - Introduzione - in Le guerre puniche - BUR - Milano - 2001 -
- Giovanni Pollidori - Postilla a Silio Italico - 2017 -
- O. Occioni - Cajo Silio Italico e il suo poema - Firenze - Le Monnier - 1871 -
- Silio Italico - su Sapere.it - De Agostini -


MARCO CELIO RUFO - M. CAELIUS RUFUS


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L'ARRINGATORE

Nome: Marcus Caelius Rufus
Nascita: 82 a.C., Interamnia Praetuttiorum
Morte: 48 a.C., Thurii
Professione: Politico, avvocato ed oratore



L'AVVOCATO

Marco Celio Rufo (Interamnia Praetuttiorum, 82 a.c. – Thurii, 48 a.c.) è stato un politico e oratore romano. Nacque probabilmente a Interamnia Praetuttiorum, (oggi Teramo) nell'82 a.c. da una famiglia di ceto equestre; apprese l'arte retorica da Marco Licinio Crasso ( 115 a.c. – 53 a.c.), politico e generale romano ma soprattutto da Marco Tullio Cicerone, con il quale instaurò una profonda amicizia. Grazie alle sue doti di oratore, tentò di intraprendere come homo novus la carriera politica.

Allievo e amico di Marco Tullio Cicerone, che gli fu maestro nell'arte oratoria, viene ricordato per il suo coraggio e le sue abilità, per aver intentato, ancorchè giovane, alcuni processi contro importanti esponenti dell'aristocrazia senatoria.

CATILINA

FORSE CONGIURATO

Vi sono seri dubbi sul suo comportamento rispetto alla congiura di Catilina del 63 a.c., a cui probabilmente aveva preso parte; tuttavia egli abbandonò i congiurati prima che avvenisse il misfatto, partendo per l'Africa con la spedizione di Q. Pompeo Rufo.



CAUSA CONTRO IBRIDA

Nel 59 a.c., quando, ancora molto giovane, su indicazione di Gaio Giulio Cesare e di Gneo Pompeo Magno, Celio accusò di concussione e di lesa maestà Gaio Antonio Ibrida, che era appena rientrato a Roma dalla provincia di Macedonia, che aveva governato come proconsole dal 62 al 61 a.c.

Probabilmente l'accusa secondaria di partecipazione alla congiura di Catilina fu determinante per la vittoria della causa da parte di Celio, anche se i catilinarii esultarono per la condanna poiché Antonio li avrebbe traditi, assumendo, nel 62 a.c., il comando dell'esercito nella battaglia di Pistoia.

Antonio Ibrida, fratello minore di Marco Antonio Cretico, proconsole, governatore della Macedonia (62/61 a.c.) e console con Cicerone nel 63 a.c., venne accusato nel 59 a.c. di lesa maestà e concussione da Celio Rufo che vinse la causa. Da questo processo ottenne una grande fama, in quanto il difensore dell'accusato era il grande Cicerone.

LESBIA

CLODIA - LESBIA

In quegli anni Celio Rufo abitò presso il Palatino nella casa di Publio Clodio Pulcro e intraprese una breve relazione amorosa con Clodia, sorella di Clodio Pulcro. La donna, più grande di Celio di circa dieci anni, fu la famosa Lesbia cantata da Catullo nel suo Liber Catullianus.

Al principio del 56 a.c. Celio accusò Lucio Calpurnio Bestia (console nel 111 a.c.) "de ambitu", ovvero per i brogli elettorali che questi avrebbe compiuto nella campagna elettorale per l'edilità del 57 a.c., ma stavolta fu la difesa di Cicerone a vincere.



DE VI

Nello stesso anno Celio venne accusato, da Clodia, ora ex amante, di aver partecipato ad atti di violenza compiuti ai danni degli ambasciatori di Tolomeo XII Aulete, (un faraone egizio del periodo tolemaico, regnante dall'80 al 58 a.c. e dal 55 a.c. alla sua morte), ma venne difeso da Cicerone, che pronunciò la brillante orazione Pro Caelio, e che lo fece assolvere.

Celio accusò di nuovo, nel 56 a.c., Calpurnio Bestia, di brogli elettorali nella campagna elettorale dello stesso 56 a.c., ma il processo non si fece perchè il figlio di Calpurnio, Lucio Sempronio Atrantino, insieme a L. Erennio Balbo e Publio Clodio, accusò Celio di aver partecipato agli atti di violenza contro gli ambasciatori alessandrini giunti a Roma per impedire che il re di Alessandria, Tolomeo XII Aulete, appena destituito, fosse ricondotto al potere grazie a Pompeo.

L'accusa "de vi" (di violenza su persone inviolabili) era molto grave si che ebbe la precedenza e si tenne durante i ludi Megalenses. Al processo partecipò anche Clodia che accusò Celio di averle sottratto denaro e gioielli, e che avesse tentato di avvelenarla. Celio venne difeso da se stesso, poi da Crasso e infine da Cicerone, che lo fece assolvere con la famosa orazione Pro Caelio, in cui diffamò pesantemente Clodia.

CICERONE

IL TRIBUNO DELLA PLEBE

Finalmente libero, Celio nel 52 a.c. divenne tribuno della plebe ma presto venne coinvolto nell'uccisione di Clodio per mano di Tito Annio Milone, difese Milone di fronte al popolo facendo apparire Clodio come provocatore dello scontro in cui rimase ucciso dagli uomini di Milone. Per l'occasione sostenne i senatori contro Pompeo.

Nel 51 a.c., partendo per il proconsolato in Cilicia, Cicerone chiese a Celio di tenerlo informato sugli avvenimenti dell'Urbe; le diciassette lettere che Celio inviò a Cicerone vennero raccolte nell'VIII libro delle "Epistulae ad familiares", narrando la vita di Celio fino al febbraio del 48 a.c.



L'EDILE CURULE

Nel 51 a.c. fu inoltre eletto edile curule per l'anno successivo per cui organizzò pubblici giochi, per i quali richiese a Cicerone l'invio dalla provincia di alcune pantere, e si impegnò a risolvere gli abusi relativi all'erogazione delle acque pubbliche. Fu inoltre coinvolto in un reciproco scambio di accuse con il censore Appio Claudio Pulcro (97 a.c. -  49 a.c.) che aveva in un primo momento appoggiato.

GIULIO CESARE

PRO CESARE

Sebbene nelle lettere inviate a Cicerone avesse manifestato simpatia per l'aristocrazia senatoria e avversione per Cesare, Celio mutò con grande franchezza e cinismo i suoi orientamenti alla vigilia dello scoppio della guerra civile: il 1º gennaio del 49 a.c. in senato si propose di deliberare che Cesare dovesse lasciare il comando del suo esercito per non essere dichiarato nemico della patria, ma Celio si oppose al decreto, e in seguito al "senatusconsultum ultimum" del 7 gennaio lasciò Roma per raggiungere Cesare a Ravenna.

Celio confessò a Cicerone di essere passato dalla parte dei Cesariani per via del risentimento verso l'aristocratico Appio Claudio Pulcro e per l'amicizia che invece lo univa al cesariano Gaio Scribonio Curione (90 a.c. - 49 a.c.). Ma dopo un anno già manifestò un profondo disprezzo per i nuovi compagni.



PRETORE PEREGRINO

Tornato a Roma nel 48 a.c., venne nominato pretore peregrino, ma ne restò deluso e con la morte di Curione e Appio Claudio Pulcro, abdicò al partito cesariano e si oppose al pretore urbano Gaio Trebonio che tentava di applicare i provvedimenti economici a favore della plebe emanati da Cesare l'anno precedente.

Alora Celio propose una legge per il condono di un anno di pigione per i locatari, fino ad arrivare a chiedere la totale cancellazione dei debiti; come risultato Trebonio fu scacciato dal suo tribunale, ma il console Publio Servilio Vatia Isaurico radunò delle truppe a Roma e fece pressioni sul senato, circondando la curia, perché approvasse un senatusconsultum ultimum che gli affidasse la difesa della città.

Celio fu dunque deposto dalla carica ed espulso dal senato. Le leggi che egli aveva fatto approvare furono abrogate, e, mentre tentava di difendersi nel Foro, fu scaraventato giù dai rostri mentre la sua sella curule veniva distrutta.

Celio lasciò Roma e andò nel Sud Italia, dove aveva chiesto a Milone, in esilio a Marsiglia  per l'uccisione di Clodio, di raggiungerlo. Milone aveva organizzato ludi gladiatori nella zona, e vi possedeva ancora un certo numero di combattenti; Celio lo inviò a Thurii (presso Sibari in Sicilia) per sollevare le popolazioni afflitte da recessione economica contro Cesare.

Egli cercò intanto di rientrare a Roma, ma i suoi uomini, che stavano tentando di prendere Napoli, furono scoperti e Celio fu dichiarato nemico di Roma e dovette fuggire. Milone inviò lettere ai municipi vicini a Thurii invitando chi era oppresso dai debiti a sollevarsi, e liberò gli schiavi dagli ergastula e attaccò la città di Compsa.

L'ANTICA COMPSA
Venne però attaccato dal pretore Quinto Pedio, nipote di Giulio Cesare, sotto cui servì durante le campagne militari di conquista della Gallia (58 51/50 a.c.). con la sua legione e Milone fu colpito da un sasso scagliato dalle mura della città e ucciso; segno che la gente non fosse proprio a suo favore. 

Non appena gli giunse la notizia della morte di Milone, Celio, senza far tesoro degli accadimenti, si recò presso i Bruzi per convincerli a rivoltarsi, ma, giunto a Thurii, fu trucidato dalla popolazione oltre che dai militari.
Della capacità oratoria di Celio ci restano solo alcuni frammenti, e il suo personaggio venne apprezzato da alcuni e criticato da altri.



CLODIA - LESBIA

Si ritiene che Clodia sia stata la Lesbia catulliana e qualcuno ipotizza che Celio Rufo, suo amante dal 59 al 56 a.c., sia il Rufo di cui parlano i carmina 69 e 77 del Liber di Catullo; ma il solo cognomen non prova si tratti del Rufo catulliano, e si ha certezza che il Celio dei carmina 58 e 100 non fosse Celio Rufo. Questi potrebbe invece essere il personaggio amico di Catullo, definito «flos Veronensum iuvenum» («fiore dei giovani veronesi»)..

Che vi sia stato un legame amoroso tra Celio e Clodia è notificato solo da Cicerone nella Pro Caelio, ma potrebbe trattarsi di un'invenzione di Cicerone per screditarla nel processo contro Celio.



CELIO ORATORE

L'abilità oratoria di Celio è testimoniata da Cicerone, Quintiliano e Tacito. Cicerone lo definì «lectissimus adulescens», ovvero «giovane eccellente», perfettamente padrone dell'ars rethorica. Marco Fabio Quintiliano (il primo maestro di retorica stipendiato dal fiscus imperiale) informa che Celio nei suoi discorsi era spesso sarcastico e pure umoristico ridicolizzando gli avversari, rinforzando le sue orazioni con aneddoti divertenti, di modo che il pubblico lo ascoltasse con piacere e simpatia.
Secondo Lucio Anneo Seneca invece fu un tipo molto iracondo, che attaccava briga con chiunque, mentre per Ambrogio Teodosio Macrobio fu uno che tendeva a fomentare disordini tra la folla. Sicuramente c'era del vero, vista la perseveranza con cui si scagliò contro Cesare quando ormai si trattava di una battaglia persa.


BIBLIO

- Luca Canali - Una giovinezza piena di speranze. Autobiografia di Marco Celio Rufo - Milano -Bompiani - 2001 -
- Cicerone - Pro Caelio -
- Quintiliano - Institutio oratoria - VI -
- D. Bowder - Dizionario dei personaggi dell'antica Roma - Newton Compton editori - 2001 -
- Alberto Cavarzere - Introduzione al libro VIII - in Cicerone, Lettere ai familiari - BUR - 2009 -
- Catullo - Carmina -
- Cesare - De bello civili -


M. TULLIO CICERONE - M. TULLIUS CICERO


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Nome originale: Marcus Tullius Cicero
Nascita: 3 gennaio 106 a.c., Arpino
Morte: 7 dicembre 43 a.c., Formia
Coniuge: Terenzia (79-46 a.c.), Publilia (46-45 a.c.)
Figli: Tullia e Marco
Padre: Marco Tullio Cicerone il Vecchio
Madre: Elvia
Consolato: 63 a.c.
Professione: Avvocato, giurista e politico


Marco Tullio Cicerone - Prima Catilinaria:
" Quousque tandum abutere, Catilina, patientia nostra?" Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?
Marco Tullio Cicerone, o Marcus Tullius Cicero, nacque ad Arpinum, 3 gennaio 106 a.c. e morì a Formiae, nel 7 dicembre 43 a.c. Famoso filosofo, politico, avvocato e scrittore della tarda Repubblica Romana.

"Marco Tullio, il padre della romana eloquenza, abitualmente, preso da poco dignitoso tremore, esordiva balbettando, come un ragazzino. Quintiliano vede in questo la prova dell'oratore di valore
(Erasmo da Rotterdam - Elogio della follia)



LE ORIGINI

Discendente di una ricca famiglia dell'ordine equestre di Arpinum, oggi località Ponte Olmo, nel territorio di Sora, ebbe come padre Marco Tullio Cicerone il Vecchio, uomo molto colto ma di origini sconosciute, come madre Elvia, una patrizia romana, e come fratello Quinto Tullio Cicerone, già milite sotto Cesare nella guerra delle Gallie, poi seguace di Pompeo contro Cesare, poi perdonato da Cesare e poi tra i congiurati contro di lui.

Era anche lontano parente di Gaio Mario, il leader dei Populares durante la guerra civile contro gli optimates di Lucio Cornelio Silla, ma ciononostante si sentì sempre dalla parte degli optimates.

Il cognomen Cicero era il soprannome di un suo oscuro antenato con una verruca sul naso, ma quando gli fu sconsigliato di utilizzare un cognomen tanto buffo, Cicerone rispose che "avrebbe fatto sì che esso diventasse più noto di quello degli Scauri e dei Catuli.", il che la dice lunga sulla consapevolezza delle proprie capacità.

Infatti emerse immediatamente negli studi di greco e dei classici, per cui il padre condusse a Roma sia lui che il fratello, introducendoli nei salotti intellettuali del tempo, soprattutto nel circolo degli oratori Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio. Licinio rimase sempre per Cicerone un modello di oratore e di statista.



GLI INCONTRI

A Roma Cicerone poté anche formarsi come magistrato sotto il giurista Quinto Mucio Scevola. Tra i suoi compagni: Gaio Mario il giovane, Servio Sulpicio Rufo, che Cicerone molto stimò considerandolo più bravo di lui, e Tito Pomponio Attico che diventò suo grande amico. Ben presto si avvicinò alla poesia traducendo dal greco al latino Omero e i Fenomeni di Arato.

Nel 91 a.c. incontrò il filosofo epicureo Fedro in visita a Roma, ne rimase colpito ma non divenne seguace della dottrina epicurea. Nell'87 conobbe poi il maestro di retorica Apollonio Molone, lo stesso insegnante di Gaio Giulio Cesare, e Filone di Larissa, capo dell'Accademia platonica che invece Cicerone apprezzò molto pur rifiutandone il Mondo delle idee, cioè un mondo a parte dove l'idea sorge e si suddivide con una specie di gerarchia, in cui più scende più si allontana dal bene corrompendosi.

Cicerone incontrò anche Diodoto, esponente dello stoicismo, che adottò solo in parte. Lo stoicismo era un movimento filosofico che propugnava l'autocontrollo e il distacco dalle passioni, cosa bella in sè ma pericolosa, come poi dimostrerà la psicoanalisi, se non si conosce la radice delle proprie passioni.



CURSUS HONORUM

Cicerone, consapevole del suo valore, desiderava come Cesare emergere sugli altri, con dignitas ed auctoritas, simboleggiati dalla toga pretesta e dalla verga dei littori. Per questo tra il 90 e l'88 a.c., servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della Guerra Sociale, pur non apprezzando la vita militare. Infatti scrisse poi al suo amico Attico: "Perché mi spedisci una statua di Marte? Sai che io sono un pacifista."

La carriera che Cicerone desiderava era di natura intellettuale ed ebbe inizio nell'81 a.c. con la prima orazione pubblica, la "Pro Quinctio", contro l'eloquenza del più celebre oratore del tempo, Quinto Ortensio Ortalo, di cui divenne poi grande amico. Ma divenne famoso con la "Pro Roscio Amerino".

E' sotto la dominazione di Silla che il giovane avvocato comincia la sua carriera. In quegli anni l'aristocrazia abusava del proprio potere; le sue rappresaglie, dopo la fine di Mario, furono molto cruente (duemila teste di cavalieri e senatori erano appena state tagliate), potendo sfruttare l'espediente delle proscrizioni, inventato da Silla, che permetteva di legalizzare l'assassinio.

Roscio non era che uno sventurato ridotto sul lastrico dalle spoliazioni dei partigiani di Silla, e siccome era stato accusato d'aver ucciso il padre, nessuno voleva difenderlo. Cicerone dimostrò facilmente l'assenza di prove e che dietro l'accusa si nascondeva uno dei più potenti liberti di Silla, il ricco e dissoluto Crisogono, che difendeva i veri colpevoli.
Cicerone lo accusò e indirettamente accusò il regime di Silla. Il successo della requisitoria fu tale che Cicerone entrò subito nelle grazie del partito democratico.

" La sua eloquenza era stata tanto degna di ammirazione quanto mai era accaduto a voce umana! " Quanta nulla umquam umana vox, cum admiratione eloquentiae auditus fuerat". (Seneca il Vecchio)



CURSUS FILOSOFICO

Roscio fu assolto, ma Cicerone, per sfuggire alla vendetta di Silla, fuggì in Grecia e in Asia minore. Ad Atene contattò l'accademia di Platone di cui era capo Antioco di Ascalona, di cui divenne discepolo, che però poco convinse Marco Tullio, più vicino a Filone di Larissa, poco incline all'autosufficienza della virtù.
A Rodi, Cicerone conobbe lo stoico Posidonio, attento alla conoscenza dei popoli sul campo e contrario allo sfruttamento della schiavitù. Secondo Cicerone, Posidonio aveva costruito un interessante planetario che riproduceva il moto degli astri. Ma più che amico di Cicerone Posidonio divenne amico di Pompeo Magno.

Cicerone in Grecia fu iniziato ai Misteri Eleusini, che lo toccarono molto, si recò all'Oracolo di Delfi, dove chiese alla Pizia come avrebbe potuto raggiungere la gloria. La sacerdotessa gli rispose che avrebbe dovuto seguire il suo istinto, e non le opinioni degli altri.



LA POLITICA

Morto Silla nel 78 a.c, Cicerone potè rientrare a Roma, e nel 77 sposò Terenzia, che oltre alla nobiltà, gli portava una cospicua dote: ben 100.000 sesterzi, alcuni poderi e degli immobili a Roma. Nel 76 si presentò come candidato alla questura, la prima magistratura del cursus honorum. I questori, eletti in numero di venti, si occupavano della gestione finanziaria, o assistevano propretori e proconsoli nel governo delle province. Riuscì a farsi eleggere per la città di Lilibeo, nella Sicilia Occidentale, dove emerse per capacità ed onestà. A Siracusa scoprì la tomba di Archimede scrivendo su di lui e sul suo planetario.

Al termine del mandato, i Siciliani gli affidarono la causa contro il propretore Verre, reo di aver dissanguato l'isola nel triennio 73-71 a.c. Cicerone pronunciò due orazioni preliminari, Divinatio in Quintum Caecilium e Actio prima in Verrem, per cui Verre, prevedendo il peggio, se ne andò volontariamente in esilio. Le cinque orazioni successive furono contro il malgoverno dei senatori permesso dalle riforme sillane. L'avvocato avversario nella causa contro Verre Quinto Ortensio Ortalo, sconfitto da Cicerone, gli cedette la sua carica ma gli restò comunque buon amico.

Le orazioni Verrine ebbero un gran successo, e nel 69 Cicerone venne eletto edile curule alla giovane età di 37 anni, nel 66 divenne pretore a 40 anni. Nello stesso anno pronunciò il suo primo discorso politico, "Pro lege Manilia de imperio Cn. Pompei", in favore dei pieni poteri a Pompeo anzichè a Lucullo per la guerra mitridatica, in opposizione al Senato, che non voleva combattere Mitridate per gli interessi commerciali col suo regno.

Sembra che il suo successo dipendesse anche dalla scelta dei clienti, non troppo odiati dalla classe dominante e in grado di pagare favolose parcelle, a volte addirittura lasciti testamentari: è stato calcolato che alla sua morte, in 30 anni di carriera, Cicerone abbia speso almeno 150 milioni di sesterzi, cioè circa 300 milioni di euro, un capitale da capogiro.


" Il suo ingegno gli propiziò abbondanza di opere e di riconoscimenti ".
 "Ingenium et operibus et praemiis operum felix". (Seneca il Vecchio Suasorie)



IL CONSOLE

Nel 64 a.c. Cicerone presentò la candidatura al consolato per l'anno successivo, appoggiato dal fratello Quinto, redattore del Commentariolum petitionis, scritta per consigliarlo nella campagna elettorale. Per chissà quali sotterfugi, Cicerone risultò eletto con il voto di tutte le centurie, insieme al patrizio Gaio Antonio Ibrida, alleato, durante la campagna elettorale, di Lucio Sergio Catilina. Poco dopo Cicerone pronunciò quattro orazioni De lege agraria contro la proposta di legge del tribuno Servilio Rullo.



CONTRO CATILINA

Durante il suo consolato Cicerone dovette ostacolare Catilina, nobile impoverito che ordì una congiura per rovesciare la repubblica. Questi contava soprattutto sulla plebe, a cui prometteva riforme e migliorie, e su altri nobili decaduti, cui prospettava uno stato più ricco. Non si sa se Catilina anelasse a un potere dittatoriale o fosse avverso ai potenti in modo incontrollato.

Dobbiamo a Cicerone la maggior parte delle informazioni su Catilina. La posizione di Cicerone si riassume nell’incipit della prima delle orazioni Catilinarie, pronunciata al Senato neel 63 a.c.:Quousque tandem, Catilina, abutere patientia nostra? (fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?)

La nota congiura di Catilina, che ha come fonte principale l'impianto accusatorio di Cicerone, è uno degli eventi più famosi degli ultimi decenni della Repubblica Romana. Secondo Cicerone, i rivoltosi avevano come progetto un incendio doloso e altri danni materiali, oltre che l'assassinio di personaggi politici, tra cui Cicerone. Due congiurati, Cornelio e Vargunteio, si sarebbero presentati a casa di Cicerone e, con il pretesto di salutarlo, avrebbero tentato di ucciderlo. Ma lui avvisato da Fulvia sarebbe scampato a quest'attentato.

Cicerone non risparmiò mezzi ed effetti speciali per mettere in cattiva luce Catilina. In attesa dell'esito della denuncia per brogli contro Murena, cosa che avrebbe assegnato la carica di console a Catilina, Cicerone si presentò al Campo Marzio circondato da una scorta "vestendo quella mia ampia e vistosa corazza, non perché essa mi proteggesse dai colpi, che io sapevo essere suo costume sferrare non al fianco o al ventre ma al capo o al collo, bensì per richiamare l'attenzione di tutti gli onesti."

Venuto a conoscenza del pericolo che lo stato correva grazie alla soffiata di Fulvia, amante del congiurato Quinto Curio, Cicerone fece promulgare dal senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano, in situazioni di emergenza, poteri speciali ai consoli. Sfuggito poi egli stesso ad un attentato da parte dei congiurati, Cicerone convocò il senato nel tempio di Giove Statore, dove pronunciò una violenta accusa a Catilina, con il discorso noto come Prima Catilinaria. Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare Roma per l'Etruria, presso l'amico Gaio Manlio, lasciando la guida della congiura a Lentulo Sura e Cetego.

Con la collaborazione degli ambasciatori Galli Allobrogi inviati a Roma, Cicerone trascinò anche Lentulo e Cetego in senato: gli ambasciatori, incontratisi con i congiurati, che avevano dato loro documenti scritti in cui promettevano grandi benefici se avessero appoggiato Catilina, furono arrestati in modo fittizio, e i documenti caddero nelle mani di Cicerone.

Questi portò Cetego, Lentulo e gli altri davanti al senato, ma nel decidere la pena si scatenò un acceso dibattito: dopo che molti avevano sostenuto la pena capitale, Gaio Giulio Cesare propose di punire i congiurati con il confino e la confisca dei beni. Il discorso di Cesare provocò scalpore, ed avrebbe convinto i senatori se Marco Porcio Catone Uticense non avesse pronunciato un altrettanto acceso discorso in favore della pena di morte.
I congiurati furono quindi giustiziati, e Cicerone annunziò la loro morte al popolo con la formula:"vixerunt"

Catilina fu poi sconfitto in battaglia assieme al suo esercito e tutti i congiurati vennero portati nel carcere Mamertino estrangolati uno a uno. Come cittadini romani sarebbe stato loro diritto appellarsi al popolo, provocatio ad populum, la richiesta di grazia sulla quale erano chiamati a pronunciarsi i comizi delle tribù romane e in ogni caso avrebbero avuto diritto a poter scegliere l'esilio al posto della morte, anche se questo avrebbe comportato la confisca di tutti i loro beni.

Cicerone, che vantò il proprio ruolo per la salvezza dello stato, grazie alle Catilinarie, ottenne un prestigio incredibile, che gli valse l'appellativo di pater patriae. Nonostante ciò, la condanna a morte dei congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum, cioè l'appello al popolo, che poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena detentiva, gli sarebbe costata cara pochi anni dopo.



LE MOGLI

Cicerone probabilmente sposò Terenzia all'età di 29 anni, nel 77 a.c. Il matrimonio, per quanto di convenienza, andò bene per 30 anni. Terenzia, di famiglia patrizia, era una ricca ereditiera, che forniva prestigio e soldi all'ambizioso Cicerone.
Inoltre una delle sue sorelle, o una cugina, era stata scelta come vergine Vestale, il che costituiva un grandissimo onore. Terenzia era una donna intelligente e dal carattere forte, e prese parte alla carriera politica di suo marito che lamentò in una lettera scritta durante il suo esilio in Grecia che "Né gli Dei che lei ha adorato adorato con tanta devozione né gli uomini che io ho servito hanno mostrato il più piccolo segno di gratitudine nei nostri confronti".

Alla fine del 47 a.c. o all'inizio del 46 Cicerone ripudiò Terenzia accusandola di averlo trascurato durante la guerra, di non averlo accolto nel giusto modo al suo ritorno e di avergli restituito la casa gravata di forti debiti.
Forse la vera ragione fu Publilia, più giovane di sua figlia, che sposò pochi mesi dopo, una ricca fanciulla orfana di padre, che viveva sola con la madre. Secondo Terenzia il nuovo matrimonio avveniva per l'amore di Cicerone per la giovinezza della fanciulla, mentre secondo Tirone, suo liberto, Cicerone era attratto solo dalle ricchezze della giovane.

Sembra probabile, perchè Cicerone fu nominato tutore di Publilia, e ne amministrò le ricchezze. Secondo altri fu Terenzia a chiedere il divorzio perchè Cicerone stava dilapidando i suoi beni.

Poco dopo il matrimonio, Tullia, figlia di Cicerone, morì di parto. Ne fu addoloratissimo e nel luglio del 45, mentre gli amici gli recavano conforto, ripudiò Publilia dopo soli sette mesi di matrimonio perchè si era rallegrata della morte di Tullia. Essendo più o meno coetanee Publilia evidentemente era gelosa di lei.



LA FIGLIA

I due divorzi furono ferocemente criticate a Roma, e questo, ma soprattutto la morte di parto della amatissima figlia Tullia a soli 31 anni, lo gettarono nella disperazione. Tullia era l'unica persona che Cicerone non criticò mai. La descrive così in una lettera al fratello Quinto: "Com'è affettuosa, com'è modesta, com'è intelligente!"

Quando lei si ammalò improvvisamente nel febbraio del 45 a.c. e morì, dopo che era sembrato che stesse guarendo, dando alla luce un figlio, Cicerone scrisse ad Attico: "Ho perso l'unica cosa che mi legava alla vita".
Attico invitò Cicerone ad andarlo a trovare nelle prime settimane dopo la morte di Tullia per dargli conforto. Nella grande biblioteca di Attico, Cicerone lesse tutto quello che i filosofi greci avevano scritto circa il superamento del dolore, "ma il mio dolore ogni consolazione sconfigge."

Cesare e Marco Giunio Bruto gli spedirono lettere di condoglianze, e così l'avvocato Servio Sulpicio Rufo, che gli spedì una lettera che in seguito fu molto apprezzata, piena di riflessioni sulla fugacità di tutte le cose. Dopo un po', Cicerone decise di abbandonare ogni compagnia per ritirarsi in solitudine nella sua villa di Astura, appena acquistata. Si trovava in un bosco solitario, ma non lontano da Napoli, e per molti mesi non fece altro che camminare per il bosco, piangendo. Scrisse ad Attico: "Io mi immergo là nel bosco selvatico e fitto la mattina presto, e vi soggiorno fino a sera".

Più tardi decise di scrivere un libro per insegnare a se stesso come superare il dolore. Questo libro, intitolato Consolatio, era estremamente apprezzato in antichità (in particolare da Sant'Agostino), ma sfortunatamente è andato perduto, e ne restano solo pochi frammenti. In seguito Cicerone progettò anche di far erigere un piccolo tempio alla memoria di Tullia, la "sua incomparabile" figlia, ma poi non portò a termine il progetto, per ragioni ignote.




CESARE

A seguito del riemergere dei contrasti tra senatori e pubblicani, e dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni dell'oligarchia senatoria, Cicerone si fece da parte. L'ultima possibilità di rientrare nel gioco politico gli fu offerta nel 60 a.c., dai tre più potenti uomini del momento, ovvero Pompeo, Gaio Giulio Cesare e Marco Licinio Crasso, al primo triumvirato, di appoggiare la legge agraria a favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente.

Cicerone, tuttavia, rifiutò per non apparire un traditore dell'aristocrazia, ma anche per l'attaccamento all'ordine legale e sociale di cui gli ottimati si proclamavano difensori. Dopo questo rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, Cicerone si tenne fuori dalla politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio del 58 a.c. il Tribuno della plebe Clodio Pulcro, nemico di Cicerone per un precedente processo per sacrilegio, fece approvare una legge con valore retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum.

Si trattava, in realtà, di un'abilissima mossa politica di Cesare, che prima di partire per la Gallia aveva aspettato che Cicerone fosse fuggito da Roma, e che, attraverso il suo alleato Clodio, eliminava così dalla scena politica uno dei suoi avversari più temibili.
Cicerone fu processato e costretto all'esilio, ma non si diede pace,implorando le sue conoscenze perché favorissero il suo ritorno. Clodio, però, fece approvare anche una serie di altre leggi che prevedevano che Cicerone non si potesse neppure avvicinare al confine dell'Italia, e che le sue proprietà venissero confiscate.

In realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta, e così quelle di Formia. Nel 57 a.c. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro, permettendo a Cicerone di tornare e ricominciare la sua lotta contro il tribuno della plebe.
Cicerone pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui allargava il suo precedente ideale politico: l'alleanza tra cavalieri e senatori a suo avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione politica. Occorreva, quindi, un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai populares.

Un anno dopo, per decreto dei comizi, Cicerone potè rientrare in patria, pronunciando quattro discorsi contro i clodiani. Poi, con l'aiuto di Catone Minore, fece in modo che il tribuno Milone, in una rissa sulla via Appia, uccidesse Clodio e altri suoi parenti. Nel 52 Cicerone assunsee la difesa di Milone, ma inutilmente, perché la folla lo costringe a fuggire.
Al processo per omicidio, Cicerone non era riuscito a pronunciare il suo discorso per il clamore della folla e per il timore che gli incutevano i partigiani di Clodio nel foro.



LA GUERRA CIVILE

Dopo essere stato nominato nel 53 a.c. al posto di Crasso, nel 51 a.c. come proconsole si recò in Cilicia, proprio mentre i rapporti tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il soggiorno lontano da Roma, i pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia della guerra civile.
Tornato in patria, non cessò di invitare le parti alla moderazione ed alla conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a causa del fanatismo che spingeva Pompeo all'intransigenza nei confronti delle richieste di Cesare.

Quando Cesare varcò il Rubicone, Cicerone cercò di accattivarsene il favore, ma poi decise ugualmente di lasciare l'Italia per unirsi a Pompeo. Sbarcò, dunque, a Dyrrachium, ma, raggiunti i Pompeiani, si accorse che i salvatori della repubblica non lottavano per gli ideali, ma solo per arricchirsi cin la guerra. Dopo la grande vittoria di Cesare nella Battaglia di Farsalo nel 48 a.c., Cicerone decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47 a.c.

Cicerone rivelava nelle sue opere ed in lettere ad amici come Cornelio Nepote, riguardo la personalità di Cesare:
"Non vedo a chi Cesare debba cedere il passo. Ha un modo di esporre elegante, brillante ed anche, in un certo modo si pronuncia in modo elegante e splendido... Chi gli vorresti anteporre, anche tra gli oratori di professione? Chi è più acuto o ricco nei concetti? Chi più ornato o elegante nell'esposizione?"
(Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 55.)

La speranza di Cicerone di collaborare al governo di Cesare venne troncata dalla dittatura, e anche perchè Cesare l'aveva perdonato ma non avrebbe sopportato una sua avversione. allora si ritirò, iniziando le opere di carattere filosofico. A questo si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia e la morte della figlia Tullia, seguita dalla separazione dalla seconda moglie Publilia, una giovinetta.



LA MORTE DI CESARE

Quando Cesare fu ucciso, il 15 marzo del 44 a.c., dai congiurati Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, Cicerone era sicuramente al corrente della congiura, ma decise di tenersene fuori, pur manifestando una grande ammirazione per Bruto, che da parte sua aveva additato alla folla Cicerone come l'uomo che avrebbe ristabilito l'ordine nella repubblica.

Cicerone, infatti, tornò ad essere uno dei maggiori leader degli Optimates, mentre Marco Antonio, luogotenente e Magister equitum di Cesare, si pose a capo dei "Populares" .
Antonio spinse il senato a una spedizione contro i Liberatores, ma Cicerone fu promotore di un accordo che, pur riconoscendo di tutti i provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua dittatura, garantiva l'impunità a Bruto e Cassio. Da un lato Cicerone difendeva la nobilitas senatoriale e la repubblica, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di Cesare ed assumerne il potere.



LE FILIPPICHE

Intanto Ottaviano, pronipote di Cesare e suo erede designato, adottò una politica filosenatoriale, il che spinse Cicerone ad opporsi più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di Cesare, e come uomo mandato dagli Dei per ristabilire l'ordine. Cicerone sperava che Ottaviano, divenendo un princeps salvasse la repubblica, riconoscesse il potere del senato e dello stesso Cicerone, riportando la pace.

Iniziò così tra il 44 e il 43 a.c., a pronunciare contro Antonio una serie di orazioni, le Filippiche, in ricordo di quelle pronunciate da Demostene a Filippo II di Macedonia.
Intanto, Antonio decise di marciare contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore della Gallia Cisalpina, e lo assediò nella città di Modena. Qui Antonio fu però raggiunto dagli eserciti consolari guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso Ottaviano, che lo sconfissero.

Tornato a Roma, Ottaviano costituì, assieme ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il "Secondo triumvirato", un accordo politico secondo il quale i tre uomini avrebbero dovuto compiere una profonda riforma della repubblica.

Comunque Cicerone non ritirò le accuse rivolte ad Antonio nelle Filippiche, che allora, nonostante l'opposizione di Ottaviano, iscrisse Cicerone nelle liste di proscrizione, decretando la sua condanna a morte.



LA MORTE

TOMBA DI CICERONE A FORMIA
Cicerone lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A Formia, però, fu raggiunto dai sicari di Antonio, che, aiutati da un liberto di nome Filologo, lo rintracciarno e uccisero.

Si narra che egli stesso, sporgendosi dalla carrozza, desse il capo ai sicari che gli tagliarono la testa. Sembra che le sue ultime parole furono (come riferisce Seneca il Vecchio):
" Che io muoia nella patria che tante volte ho salvato! " 
" Moriar in patria saepe servata ".
Il capo reciso fu posto da Antonio proprio in quel luogo [i Rostri] dove aveva parlato in quello stesso anno contro di lui ".           " Ita relatum caput ad Antonium ubi ille, ubi eo ipso anno adversus Antonium ".
(Seneca il Vecchio)
 
Poi, sempre per ordine di Antonio, gli furono tagliate le mani, o soltanto la mano destra con cui aveva scritto le Filippiche, che furono esposte in senato insieme alla testa, appese ai rostri, come monito per gli oppositori del triumvirato.

Plutarco:
"Sporgendosi dalla lettiga ed offrendo il collo senza tremare, gli fu recisa la testa. E ciò non bastò alla sciocca crudeltà dei soldati: essi gli tagliarono anche le mani, rimproverandole di aver scritto qualcosa contro Antonio."

Sconfitto Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di Cicerone, come collega per il consolato, e proprio Marco comminò le pene di Antonio, facendone abbattere le statue e decretando che nessun membro della gens Antonia avrebbe più potuto essere chiamato Marco.

Plutarco racconta che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano trovò un nipote che leggeva le opere di Cicerone, gli prese il libro, e lo sfogliò. Una volta che glielo ebbe restituito, disse:
"Era un saggio, ragazzo mio, un saggio, e amava la patria".



PLUTARCO  (Vita di Cicerone, 48-49):

- Cicerone, con suo fratello Quinto e il figlio di questi, si trovava a Tuscolo mentre i triumviri discutevano e preparavano le liste di proscrizione. Quando i tre ne furono informati, decisero di trasferirsi ad Astura, un paese non lontano da Anzio, dove Cicerone possedeva un podere sulla riva del mare; da lì era possibile imbarcarsi per la Macedonia e raggiungere Bruto, il cesaricida che in quella regione si era accampato con un esercito. 
Erano già in viaggio per Astura, quando Quinto e suo figlio decisero di tornare indietro; i due però, pochi giorni dopo, furono raggiunti dai sicari e uccisi. Cicerone invece riuscì a prendere il mare; presso la costa del Circeo, mentre i marinai proponevano di continuare in direzione della Grecia, Cicerone volle sbarcare. Dopo molte esitazioni, l’oratore si diresse a Gaeta, dove aveva una villa; quando vi arrivò, si sdraiò su un letto, per riposare. -

A questo punto Plutarco, cedendo al piacere degli aneddoti, racconta che alcuni corvi si ammassarono alla finestra; uno di loro s’avvicinò al letto e con il becco sollevò un po’ il mantello dal volto di Cicerone. I servi dell’oratore, avviliti per questi segni del destino che non venivano colti, convinsero il loro padrone a fuggire e lo portarono su una lettiga verso il mare. A questo punto giunsero i sicari, il centurione Erennio e il tribuno Popillio, che una volta fu difeso da Cicerone dall’accusa di parricidio; con i due vi erano alcuni soldati. Poichè:

” trovarono chiuse le porte le abbatterono; ma Cicerone non c’era e quelli che erano dentro dicevano di non sapere dove si trovasse. Si dice che un giovanetto di nome Filologo, educato da Cicerone nelle lettere e nelle discipline liberali, liberto di Quinto, fratello dell’oratore, indicò al tribuno la lettiga che si dirigeva verso il mare attraverso sentieri pieni di alberi e ombreggiati. Allora il tribuno, dopo aver preso con sè pochi soldati, fece il giro e si diresse verso l’uscita del bosco, mentre Erennio avanzava di corsa lungo quei sentieri; Cicerone se ne accorse e ordinò ai servi di deporre lì la lettiga. 
Poi, toccandosi il mento con la mano sinistra, com’era solito fare, guardò fissamente i sicari, con i capelli scompigliati e il volto logorato dai pensieri, tanto che i più si coprirono gli occhi mentre Erennio lo uccideva. 
Fu colpito al collo dopo che l’ebbe proteso fuori della lettiga, all’età di sessantaquattro anni. Su ordine di Antonio, gli tagliarono la testa e le mani con le quali aveva scritto le Filippiche. Cicerone stesso, infatti, intitolò Filippiche le orazioni contro Antonio, e ancora si usa questo nome. Quando quelle parti del corpo furono portate a Roma, Antonio stava presiedendo i comizi per le elezioni; dopo che ebbe udito ed ebbe visto, disse ad alta voce che ormai le proscrizioni erano finite. Diede l’ordine che la testa e le mani di Cicerone fossero poste sui rostri, sopra la tribuna, spettacolo tremendo per i Romani, che credevano di vedere non il volto di Cicerone, ma l’immagine dell’anima di Antonio. 
Così morì Cicerone, il più grande oratore di tutti i tempi, che un giorno, nelle gloriose giornate della lotta contro Catilina, era stato chiamato parens patriae. Cicerone pagò con la vita gli attacchi furiosi contro Antonio; ma certamente morì con l’orgogliosa consapevolezza di essere rimasto fedele, fino in fondo, agli ideali nei quali aveva sempre creduto. -





SOMNIUM SCIPIONIS (di Cicerone)

(Scipione):
Quando giunsi in Africa in qualità di tribuno militare, come sapete, presentandomi agli ordini del console Manio Manilio alla quarta legione, non chiedevo altro che di incontrare Massinissa, un re molto amico della nostra famiglia, per fondati motivi. Non appena mi trovai al suo cospetto, il vecchio, abbracciandomi, scoppiò in lacrime; poi, dopo qualche attimo, levò gli occhi al cielo e disse: 
«Sono grato a te, Sole eccelso, come pure a voi, altri dèi celesti, perché, prima di migrare da questa vita, vedo nel mio regno e sotto il mio tetto Publio Cornelio Scipione, al cui nome mi sento rinascere; a tal punto non è mai svanito dal mio cuore il ricordo di quell'uomo eccezionale e davvero invitto». 

Quindi io gli chiesi notizie del suo regno, egli mi domandò della nostra repubblica: così, tra le tante parole spese da parte mia e sua, trascorse quella nostra giornata. Poi, dopo essere stati accolti con un banchetto regale, prolungammo la nostra conversazione fino a tarda notte, mentre il vecchio non parlava di altro che dell'Africano e ricordava non solo tutte le sue imprese, ma anche i suoi detti. In séguito, quando ci congedammo per andare a dormire, un sonno più profondo del solito s'impadronì di me, stanco sia per il viaggio sia per la veglia fino a notte fonda.

Quand'ecco che (credo, a dire il vero, che dipendesse dall'argomento della nostra discussione: accade infatti generalmente che i nostri pensieri e le conversazioni producano durante il sonno un qualcosa di simile a ciò che Ennio dice a proposito di Omero, al quale, è evidente, di solito pensava da sveglio e del quale discuteva) m'apparve l'Africano, nell'aspetto che mi era noto più dal suo ritratto che dalle sue fattezze reali; non appena lo riconobbi, un brivido davvero mi percorse; ma quello disse: «Sta’sereno, deponi il tuo timore, Scipione, e tramanda alla memoria le parole che ti dirò».

«Vedi, laggiù, la città che, costretta per mio tramite a ubbidire al popolo romano, rinnova le guerre d'un tempo e non riesce a rimanere in pace?». 
(Mi indicava Cartagine dall'alto di un luogo elevatissimo e pieno di stelle, luminoso e nitido.) 
«Tu adesso vieni ad assediarla quasi come soldato semplice, ma entro i prossimi due anni la abbatterai come console e ne otterrai, per tuo personale merito, quel soprannome che fino a oggi hai ereditato da noi. Quando poi avrai distrutto Cartagine, celebrato il trionfo, rivestito la carica di censore e percorso, in qualità di legato, l'Egitto, la Siria, l'Asia, la Grecia, verrai scelto, benché assente, come console per la seconda volta e porterai a termine una guerra importantissima: raderai al suolo Numanzia. Ma, dopo che su un carro trionfale sarai giunto al Campidoglio, troverai la repubblica sconvolta dai piani di mio nipote».

«Allora occorrerà che tu, Africano, mostri alla patria la luce del tuo coraggio, della tua indole, del tuo senno. Ma per quel frangente vedo un bivio, per così dire, sulla strada del tuo destino. Quando la tua età avrà infatti compiuto per otto volte sette giri di andata e ritorno del sole e questi due numeri - ciascuno dei quali, per ragioni diverse, è considerato perfetto - avranno segnato, nel volgere naturale del tempo, la somma d'anni per te fatale, tutta la città a te solo e al tuo nome si rivolgerà, su di te il senato, su di te tutti gli uomini perbene, su di te gli alleati, su di te i Latini poseranno lo sguardo, tu sarai il solo nel quale possa trovare sostegno la salvezza della città; insomma, tu dovrai, nelle vesti di dittatore, rendere stabile lo Stato, a patto che tu riesca a sottrarti alle empie mani dei tuoi parenti». 
A questo punto, poiché Lelio aveva levato un grido e tutti gli altri avevano cominciato a gemere più vivamente, Scipione, sorridendo: «Sst! Vi prego,» disse, «non risvegliatemi dal mio sonno e ascoltate ancora per un momento il resto».

«Ma perché tu, Africano, sia più sollecito nel difendere lo Stato, tieni ben presente quanto segue: per tutti gli uomini che abbiano conservato gli ordinamenti della patria, si siano adoperati per essa, l'abbiano resa potente, è assicurato in cielo un luogo ben definito, dove da beati fruiscono di una vita sempiterna. A quel sommo dio che regge tutto l'universo, nulla di ciò che accade in terra è infatti più caro delle unioni e aggregazioni di uomini, associate sulla base del diritto, che vanno sotto il nome di città: coloro che le reggono e ne custodiscono gli ordinamenti partono da questa zona del cielo e poi vi ritornano».

A questo punto io, anche se ero rimasto atterrito non tanto dal timore della morte, quanto dall'idea del tradimento dei miei, gli chiesi tuttavia se fosse ancora in vita egli stesso e mio padre Paolo e gli altri che noi riteniamo estinti. «Al contrario», disse, «sono costoro i vivi, costoro che sono volati via dalle catene del corpo come da una prigione, mentre la vostra, che ha nome vita, è in realtà una morte. Non scorgi tuo padre Paolo, che ti viene incontro?». Non appena lo vidi, versai davvero un fiume di lacrime, mentre egli, abbracciandomi e baciandomi, cercava di frenare il mio pianto.

E io, non appena riuscii a trattenere le lacrime e potei riprendere a parlare: «Ti prego», dissi, «padre mio santissimo e ottimo: se questa è la vera vita, a quanto sento dire dall'Africano, come mai indugio sulla terra? Perché non mi affretto a raggiungervi qui?».
«No», rispose. «Se non ti avrà liberato dal carcere del corpo quel dio cui appartiene tutto lo spazio celeste che vedi, non può accadere che per te sia praticabile l'accesso a questo luogo. Gli uomini sono stati infatti generati col seguente impegno, di custodire quella sfera là, chiamata terra, che tu scorgi al centro di questo spazio celeste; a loro viene fornita l'anima dai fuochi sempiterni cui voi date nome di costellazioni e stelle, quei globi sferici che, animati da menti divine, compiono le loro circonvoluzioni e orbite con velocità sorprendente. Anche tu, dunque, Publio, come tutti gli uomini pii, devi tenere l'anima sotto la sorveglianza del corpo, né sei tenuto a migrare dalla vita degli uomini senza il consenso del dio da cui l'avete ricevuta, perché non sembri che intendiate esimervi dal compito umano assegnato dalla divinità.

Ma allo stesso modo, Scipione, sull'esempio di questo tuo avo e come me che ti ho generato, coltiva la giustizia e il rispetto, valori che, già grandi se nutriti verso i genitori e i parenti, giungono al vertice quando riguardano la patria; una vita simile è la via che conduce al cielo e a questa adunanza di uomini che hanno già terminato la propria esistenza terrena e che, liberatisi del corpo, abitano il luogo che vedi» - si trattava, appunto, di una fascia risplendente tra le fiamme, dal candore abbagliante -, «che voi, come avete appreso dai Greci, denominate Via Lattea». 

Mentre contemplavo l'universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C'erano anche stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo creduto; tra di essi, il più piccolo era l'astro che, essendo il più lontano dalla volta celeste e il più vicino alla terra, brillava di luce riflessa. I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo.

Poiché guardavo la terra con più attenzione, l'Africano mi disse: «Posso sapere fino a quando la tua mente rimarrà fissa a terra? Non ti rendi conto a quali spazi celesti sei giunto? Eccoti sotto gli occhi tutto l'universo compaginato in nove orbite, anzi, in nove sfere. Una sola di esse è celeste, la più esterna, che abbraccia tutte le altre: è il dio sommo che racchiude e contiene in sé le restanti. In essa sono confitte le sempiterne orbite circolari delle stelle, cui sottostanno sette sfere che ruotano in direzione opposta, con moto contrario all'orbita del cielo. Di tali sfere una è occupata dal pianeta chiamato, sulla terra, Saturno. Quindi si trova quel fulgido astro - propizio e apportatore di salute per il genere umano - che è detto Giove. Poi, in quei bagliori rossastri che tanto fanno tremare la terra, c'è il pianeta che chiamate Marte. Sotto, quindi, il Sole occupa la regione all'incirca centrale: è guida, sovrano e regolatore degli altri astri, mente e misura dell'universo, di tale grandezza, che illumina e avvolge con la sua luce tutti gli altri corpi celesti. Lo seguono, come compagni di viaggio, ciascuno secondo il proprio corso, Venere e Mercurio, mentre nell'orbita più bassa ruota la Luna, infiammata dai raggi del Sole. Al di sotto, poi, non c'è ormai più nulla, se non mortale e caduco, eccetto le anime, assegnate per dono degli dèi al genere umano; al di sopra della Luna tutto è eterno. La sfera che è centrale e nona, ossia la Terra, non è infatti soggetta a movimento, rappresenta la zona più bassa e verso di essa sono attratti tutti i pesi, per una forza che è loro propria».

Dopo aver osservato questo spettacolo, non appena mi riebbi, esclamai: «Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che riempie le mie orecchie?». 
«È il suono», rispose, «che sull'accordo di intervalli regolari, eppure distinti da una razionale proporzione, risulta dalla spinta e dal movimento delle orbite stesse e, equilibrando i toni acuti con i gravi, crea accordi uniformemente variati; del resto, movimenti così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio e la natura richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l'una, acuti l'altra. Ecco perché l'orbita stellare suprema, la cui rotazione è la più rapida, si muove con suono più acuto e concitato, mentre questa sfera lunare, la più bassa, emette un suono estremamente grave; la Terra infatti, nona, poiché resta immobile, rimane sempre fissa in un'unica sede, racchiudendo in sé il centro dell'universo. Le otto orbite, poi, all'interno delle quali due hanno la stessa velocità, producono sette suoni distinti da intervalli, il cui numero è, possiamo dire, il nodo di tutte le cose; imitandolo, gli uomini esperti di strumenti a corde e di canto si sono aperti la via per ritornare qui, come gli altri che, grazie all'eccellenza dei loro ingegni, durante la loro esistenza terrena hanno coltivato gli studi divini.

Le orecchie degli uomini, riempite da tale suono, sono diventate sorde. Nessun organo di senso, in voi mortali, è più debole: allo stesso modo, là dove il Nilo, da monti altissimi, si getta a precipizio nella regione chiamata Catadupa, abita un popolo che, per l'intensità del rumore, manca dell'udito. Il suono, per la rotazione vorticosa di tutto l'universo, è talmente forte, che le orecchie umane non hanno la capacità di coglierlo, allo stesso modo in cui non potete fissare il sole, perché la vostra percezione visiva è vinta dai suoi raggi».

Io, pur osservando stupito tali meraviglie, volgevo tuttavia a più riprese gli occhi verso la terra. Allora l'Africano disse: «Mi accorgo che contempli ancora la sede e la dimora degli uomini; ma se davvero ti sembra così piccola, quale in effetti è, non smettere mai di tenere il tuo sguardo fisso sul mondo celeste e non dar conto alle vicende umane. Tu infatti quale celebrità puoi mai raggiungere nei discorsi della gente, quale gloria che valga la pena di essere ricercata? Vedi che sulla terra si abita in zone sparse e ristrette e che questa sorta di macchie in cui si risiede è inframmezzata da enormi deserti; inoltre, gli abitanti della terra non solo sono separati al punto che, tra di loro, nulla può diffondersi dagli uni agli altri, ma alcuni sono disposti, rispetto a voi, in senso obliquo, altri trasversalmente, altri ancora si trovano addirittura agli antipodi. Da essi, gloria non potete di certo attendervene.

Nota, inoltre, che la terra è in un certo senso incoronata e avvolta da fasce: due di esse, diametralmente opposte e appoggiate, sui rispettivi lati, ai vertici stessi del cielo, s'irrigidiscono per la brina, mentre la fascia centrale, laggiù, la più estesa, è arsa dalla vampa del sole. Al suo interno, due sono le zone abitabili: la regione australe, là, nella quale gli abitanti lasciano impronte opposte alle vostre, non ha nulla a che fare con la vostra razza; quanto a quest'altra, invece, che abitate voi, esposta ad aquilone, guarda come vi tocchi solo in misura minima. Nel suo complesso infatti la terra che è da voi abitata, stretta ai vertici, più larga ai lati, è, come dire, una piccola isola circondata da quel mare che sulla terra chiamate Atlantico, Mare Magno, Oceano, ma che, a dispetto del nome altisonante, vedi bene quanto sia minuscolo.

Forse che da queste stesse terre abitate e conosciute il nome tuo o di qualcun altro di noi ha potuto valicare il Caucaso, che scorgi qui, oppure oltrepassare il Gange, laggiù? Chi udirà il tuo nome nelle restanti, remote regioni dell'oriente e dell'occidente oppure a settentrione o a meridione? Se le escludi, ti accorgi senz'altro di quanto sia angusto lo spazio in cui la vostra gloria vuole espandersi. E la gente che parla di noi, fino a quando ne parlerà?

E anche nel caso che quella progenie di uomini futuri desideri tramandare, di generazione in generazione, gli elogi di ciascuno di noi dopo averli appresi dai padri, tuttavia, a causa delle inondazioni e degli incendi che devono inevitabilmente prodursi sulla terra in un tempo determinato, non siamo in grado di conseguire una gloria non dico eterna, ma neppure duratura. Cosa importa, dunque, che discuta sul tuo conto chi nascerà dopo di te, se riguardo a te non parlava la gente nata prima? E questi uomini furono non meno numerosi e, senza dubbio, migliori.

A maggior ragione accade ciò, se è vero che perfino tra la gente in grado di udire il nostro nome, nessuno può lasciare di sé un ricordo che duri più di un anno. Gli uomini, a dire il vero, misurano ordinariamente l'anno solo con il volgere ciclico del sole, cioè con il ritorno di un'unica stella; quando, invece, tutti quanti gli astri saranno ritornati nell'identico punto da cui sono partiti e avranno nuovamente tracciato, dopo lunghi intervalli di tempo, il disegno di tutta la volta celeste, solo allora lo si potrà definire, a ragione, il volgere di un anno; a fatica oserei dire quante generazioni di uomini siano in esso contenute. Come un tempo il sole sembrò agli uomini venir meno e spegnersi, allorché l'anima di Romolo entrò in questi stessi spazi celesti, così, quando per la seconda volta, dalla stessa parte del cielo e nel medesimo istante, il sole verrà meno, in quell'istante, una volta che saranno ricondotte al punto di partenza tutte le costellazioni e le stelle, considera compiuto l'anno; sappi, comunque, che non ne è ancora trascorsa la ventesima parte.

Di conseguenza, se perderai la speranza di tornare in questo luogo, verso cui tendono le aspirazioni degli uomini grandi e illustri, quale valore ha mai la vostra gloria umana, che a mala pena può riguardare una minima parte di un solo anno? Se intendi, pertanto, mirare in alto e fissare il tuo sguardo su questa sede e dimora eterna, non concederti alla mentalità comune e non riporre le speranze della tua vita nelle ricompense umane: la virtù stessa, con le sue attrattive, deve condurti verso il vero onore. Quali parole gli altri pronunceranno su di te non ti riguarda, eppure parleranno; ogni discorso, comunque, è delimitato dallo spazio ristretto delle regioni che vedi e non è stato mai, sul conto di nessuno, durevole negli anni: è sepolto con la morte degli uomini e si spegne con l'oblio dei posteri
».

Dopo che ebbe così parlato, gli dissi: «Allora, o Africano, se davvero per chi vanta dei meriti verso la patria si apre una sorta di sentiero per l'accesso al cielo, io, sebbene fin dall'infanzia, calcando le orme di mio padre e le tue, non sia mai venuto meno al vostro decoro, adesso tuttavia, di fronte a una ricompensa così grande, mi impegnerò con attenzione molto maggiore». 
Ed egli: «Sì, impegnati e tieni sempre per certo che non tu sei mortale, ma lo è questo tuo corpo: non rappresenti infatti ciò che la tua figura esterna manifesta, ma l'essere di ciascuno di noi è la mente, non certo l'aspetto esteriore che si può indicare col dito. Sappi, dunque, che tu sei un dio, se davvero è un dio colui che vive, percepisce, ricorda, prevede, regge e regola e muove il corpo cui è preposto, negli stessi termini in cui quel dio sommo governa questo universo; e come quel dio eterno dà movimento all'universo, mortale sotto un certo aspetto, così l'anima sempiterna muove il fragile corpo.

Ciò che muove se stesso incessantemente, è eterno; ciò che, invece, trasmette il moto ad altro e a sua volta trae impulso da una forza esterna, poiché ha un termine del movimento, deve avere necessariamente un termine della vita. Pertanto, solo ciò che muove se stesso, in quanto da se stesso non viene mai abbandonato, non cessa mai neppure di muoversi; anzi, per tutte le altre cose che si muovono è la fonte, è il principio del moto. Non vi è origine per tale principio; dal principio si genera ogni cosa, ma esso non può nascere da null'altro; se fosse generato dall'esterno non potrebbe infatti essere il principio; e come non è mai nato, così non muore mai. Il principio infatti, una volta estinto, non rinascerà da altro né creerà altro da sé, se è vero che da un principio deve nascere ogni cosa. Ne consegue che il principio del moto deriva da ciò che si muove da sé; non può, quindi, né nascere né morire, altrimenti è inevitabile che tutto il cielo crolli e che tutta la natura, da un lato, si fermi e, dall'altro, non trovi alcuna forza da cui ricevere l'impulso iniziale per il movimento.

Siccome, quindi, risulta evidente che è eterno ciò che si muove da sé, chi potrebbe sostenere che questa natura non è stata attribuita all'anima? È inanimato infatti tutto ciò che trae impulso da un urto esterno; ciò che è animato, invece, viene sospinto da un moto interiore e proprio; tale è infatti la natura peculiare dell'anima, la sua essenza; se, dunque, tra tutte le cose l'anima è l'unica a muoversi da sé, significa certamente che non è nata ed è eterna.

Tu esercitala nelle attività più nobili. Ora, le occupazioni più nobili riguardano il bene della patria: se la tua anima trarrà stimolo ed esercizio da esse, volerà più rapidamente verso questa sede e dimora a lei propria; e lo farà con velocità ancor maggiore, se, già da quando si troverà chiusa nel corpo, si eleverà al di fuori e, mediante la contemplazione della realtà esterna, si distaccherà il più possibile dal corpo.

Quanto agli uomini che si sono dati ai piaceri del corpo, che si sono offerti, per così dire, come loro mezzani e che hanno violato le leggi divine e umane sotto la spinta delle passioni schiave dei piaceri, la loro anima, abbandonato il corpo, si aggira in volo attorno alla terra, e non ritorna in questo luogo, se non dopo aver vagato tra i travagli per molte generazioni
».
Se ne andò; io mi riscossi dal sonno.



IL FIGLIO DI CICERONE

Cicerone sperava che il figlio Marco scegliesse la sua professione, ma Marco, che voleva fare la carriera militare, nel 49 si unì a Pompeo ed al suo esercito, e partì con loro per la Grecia. Quando nel 48, dopo la sconfitta dei pompeiani a Farsalo, Marco si presentò a Cesare, questi lo perdonò. Cicerone allora lo spedì ad Atene alla scuola del filosofo Cratippo, ma Marco ne profittò per darsi ai bagordi.

Dopo l'assassinio del padre, Marco si unì all'esercito dei Liberatores, guidati da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, ma dopo la battaglia di Filippi, nel 42, fu perdonato da Augusto. Questi, infatti, sentendosi in colpa per aver permesso che Cicerone fosse inserito nelle liste di proscrizione del "Secondo triumvirato" decise di favorire la carriera del giovane Marco. Quest'ultimo divenne, dunque, augure, e fu poi nominato prima Console nel 30 assieme allo stesso Augusto, e poi proconsole in Siria, provincia d'Asia.



LA POLITICA DI CICERONE

Il potere è del popolo, l'autorità del senato
Marco Tullio Cicerone, De Legibus

Come politico, Cicerone è sempre stato bersaglio della critica di antichi e moderni. Le accuse mossegli vanno dall'incoerenza alla vanità, alla poca lungimiranza.
Cicerone era attaccato al governo repubblicano per tradizione e per ricordo, e pure ai privilegi senatoriali e con lui molti altri che volevano salvare la repubblica combattendo per Pompeo, sicuri e probabilmente illusi che Pompeo, eliminato il suo rivale, non ne avesse gli stessi sogni di potere.

Lucano fa dire a Catone:
"Come un padre, che ha or ora perduto il figlio, prova una sorta di piacere a dirigere i riti funebri, accende con le sue mani il rogo, non lo lascia che a malincuore e il più tardi possibile, così, Roma, io non t'abbandonerò prima di averti tenuta morta tra le mie braccia. Io seguirò fino alla fine il tuo solo nome, o libertà, anche quando non sarai più che un'ombra vana".

Preoccupazione costante di Cicerone fu la difesa dello status quo e dei diritti della grande proprietà latifondista, desideroso soprattutto di acquisire presso i notabili romani il credito necessario per far parte della classe dirigente. Egli si adoperò quindi per la conservazione del potere e dei privilegi di cui godeva la classe degli optimates, per cui il potere rimanesse nelle mani dei patrizi.

Ma fu anche sostenitore dell'ideale della concordia ordinum tra il ceto equestre e senatorio divenuta poi concordia omnium bonorum, concordia di tutti i cittadini onesti, esaltandola nella quarta orazione contro Catilina: allora, per la prima volta nella storia repubblicana, i senatori, i cavalieri ed il popolo si trovarono d'accordo sulle decisioni da prendere, decisioni dalle quali dipendeva la salvezza dello stato. Cicerone si illuse che la concordia potesse durare per sempre, pur capendo che era nata su un'onda emotiva.



LA FILOSOFIA

Cicerone fu il primo degli autori romani a comporre opere filosofiche in latino. Ne era fiero, ma alcuni ritenevano disdicevole per un romano dedicarsi alla filosofia. Altri invece, erano convinti sostenitori della totale superiorità della filosofia greca, considerando solo le opere greche degne di essere lette.

Cicerone era convinto che se i Romani si fossero dedicati seriamente alla filosofia, avrebbero allora raggiunto le stesse vette dei Greci, che già avevano eguagliato nella retorica. Ma le speculazioni filosofiche erano estranee ai romani, che erano soprattutto uomini d'azione. I Romani conobbero la filosofia grazie al contatto con i Greci, ma consideravano inutile, se non addirittura deleteria, una vita spesa alla continua ricerca di un sapere che non portava nessuna gloria alla patria né alcuna ricchezza.

Il Senato arrivò, infatti, addirittura ad espellere dall'Urbe i filosofi ateniesi che vi erano giunti in visita nel 161 a.c.
La stessa nobilitas senatoriale non voleva, poi, che il popolo ed i giovani si interessassero alla filosofia, anche se sempre più persone se ne interessavano. I senatori decisero di richiamare a Roma i filosofi che avevano scacciato per prendere da loro lezioni di filosofia, vietandogli però di insegnare la filosofia pubblicamente.

A riscuotere un istantaneo successo a Roma fu lo Stoicismo, ma presto ad esso si unirono le altre dottrine, i cui esponenti arrivarono "in massa" a Roma nel corso del I sec. a.c. In poco tempo, dunque, la situazione aveva subito un totale ribaltamento, e non esisteva più uomo estraneo alla filosofia. Cicerone considerava la filosofia un valido supporto per la retorica, iniziando però a comporre opere filosofiche soltanto in tarda età, nel tempo libero.



LE OPERE FILOSOFICHE

  • Academica priora - sulla dottrina platonica.
  • Catulus (Dialogo), la prima parte dell'Academica priora, perduto.
  • Lucullus (Dialogo), la seconda parte dell'Academica priora, conservato.
  • Academici libri oppure Academica posteriora - sulla dottrina della conoscenza dell'accademia platonica.
  • Cato Maior de senectute - Catone il censore, sull'anzianità.
  • De divinatione - Sulle profezie, la critica dell'arte aruspicina. Egli stesso augure nega con dati di fatto la sua efficacia. Da quest'opera e dal terzo libro del "De natura deorum" i primi cristiani attinsero argomenti per combattere il politeismo, senza accorgersi che le stesse critiche potevano essere fatte al cristianesimo.
  • De finibus bonorum et malorum - Sui confini del bene e del male. Un dialogo in cinque libri sul sommo bene, tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed epicurea che, rispettivamente, lo classificavano come virtù e piacere.
  • De Fato - Sul Caso, giunta solo in parte, in cui viene argomentata la dottrina provvidenzialistica degli stoici.
  • De natura Deorum - Sulla natura degli Dei, scritto nel 44 a.c., subito prima della morte di Cesare, ed inviato a Bruto. Cicerone immagina una conversazione tra un epicureo, Velleio, uno stoico, Balbo, ed un accademico, Cotta, che discutono sugli Dei e sulla Provvidenza. L'ateismo dissimulato di Epicuro viene confutato da Cotta, che sembra rappresentare lo stesso Cicerone, e che confuta anche il pensiero stoico sulla Provvidenza. Cicerone è persuaso che il culto degli Dei e la loro azione sul mondo debba esercitare una profonda influenza sulla vita, fondamentale pertanto per il governo di uno stato. Cotta crede che gli Dei esistano e governino il mondo, ma lo crede, perché è un'opinione comune a tutti i popoli, e quindi è una legge della natura. In quanto alla pluralità dei Dei, li considera emanazioni del Dio unico, uno spirito libero e privo di qualsiasi elemento mortale, all'origine di tutto. Ridicolizza invece i miti, ma considerava necessaria l'esistenza degli Dei: tutti i popoli credevano, e di conseguenza credeva anche lui. sull'immortalità dell'anima, ha le stesse opinioni di Platone.
  • De officiis - Sui doveri, scritto dopo la morte di Cesare, nel 44 a.c., l'ultima opera filosofica di Cicerone, dedicata al figlio Marco. Ispirato ad un lavoro dello stoico Panezio, è divisa in tre libri: il primo tratta di ciò che è onesto, il secondo di ciò che utile, ed il terzo compara l'utile all'onesto, traendone i principi della virtus romana.
  • Laelius de amicitia - Lelio sull'amicizia.
  • Paradoxa Stoicorum - disquisizioni sui paradossi etici della scuola degli stoici, esercitazioni di casistica oratoria, spesso malgiudicate dalla critica.
  • Tusculanae disputationes - Conversazioni a Tusculum, composte nel 45, sotto la dittatura di Cesare, quando Catone Uticense era già stato costretto al suicidio e la repubblica stava morendo. Il dittatore si era dimostrato clemente, ma aveva fatto capire agli intellettuali che non avrebbe accettato opposizioni. A Cicerone, che aveva scritto un libro in memoria di Catone, Cesare aveva risposto con l'Anticato, Anticatone,, in cui criticava l'illustre morto, mostrando quale sarebbe stato il suo atteggiamento verso gli oppositori. Per Cicerone la situazione era dolorosa, sua figlia Tullia era appena morta, e la vita politica aveva perso ogni senso. Si ritirò nella villa di Tusculum filosofando sulla morte, sul dolore, sulle passioni, sulla virtù e sul suicidio, inteso come mezzo per eludere la morte.
  • De re publica - Sulla repubblica, sul modello di "La Repubblica" di Platone.
  • De legibus - Sulle leggi: composto nel 52, dopo essere stato nominato Augure. Scritto complementare al De re publica, in parte filosofico, in parte giuridico. Nel primo libro, ispirato all'opera di Platone e al trattato Sulle leggi di Crisippo, Cicerone indica l'esistenza di una legge universale, eterna, immutabile, conforme alla ragione divina, che costituisce il diritto naturale, precedente tutti gli ordinamenti. Poi passa all'analisi delle leggi in rapporto alle varie forme di governo e alle leggi romane che sono perfette. Nel secondo libro enuncia le poche imperfette, soprattutto sul culto. Forse unamanovra di propaganda, per dimostrare di essere degno della carica sacerdotale assegnatagli. Nel terzo libro analizza la natura e l'organizzazione del potere, le diverse funzioni dello stato e l'antagonismo che deve esistere tra le forze che lo costituiscono. Si chiede quale debba essere la parte dell'aristocrazia o del senato, e quale quella del popolo nel governo della repubblica. Nell'opera, il fratello di Cicerone, Quinto, è contrario al tribunato della plebe perchè pericoloso. Cicerone, pur non condividendolo, vi riconosce un pericolo per la calma e la pace. Possediamo solamente i primi tre libri dei sei del De legibus. Il quarto era dedicato all'esame del diritto politico, il quinto al diritto criminale, il sesto al diritto civile.
Cicerone è certamente il più celebre oratore dell'antica Roma. Nel Brutus egli ritiene completato con se stesso lo sviluppo dell'arte oratoria latina. Cicerone ha pubblicato da sé la maggior parte dei suoi discorsi; 58 orazioni nella versione originale, circa 100 sono conosciute per il titolo o per alcuni frammenti. I testi si possono dividere tra orazioni pronunciate di fronte al Senato o al popolo e tra le arringhe pronunciate come avvocato difensore o pubblica accusa, nonostante anche quest'ultimi abbiano spesso un forte substrato politico, come nel celeberrimo caso contro Gaio Verre, unica volta in cui Cicerone compare come accusatore in un processo penale.
Grande e raffinato oratore, eclettico e vario a seconda del pubblico di cui sa toccare emotività, timori ed interessi, cambiando continuamente tattica, per convincere il pubblico contrario e raggiungere lo scopo.

Per memorizzare i suoi discorsi Cicerone utilizzava una tecnica associativa che venne chiamata tecnica dei loci o tecnica delle stanze, associando parole o argomenti, alle stanze di una casa o di un palazzo che conosceva bene.



LE ORAZIONI
  • De domo sua ad pontifices - Sulla propria casa, al collegio pontificale, arringa in cui Cicerone contesta la consacrazione di parte della sua proprietà palatina alla Dea Libertas, decisa dal suo avversario Clodio, chiedendone la restituzione. Da questo nasce la locuzione "Cicero pro domo sua"
  • De haruspicum responso - Sul responso degli aruspici, del 56 a.c.: Clodio redige un passo sulla profanazione di alcune reliquie durante una perizia degli aruspici sul terreno di Cicerone sul Palatino e chiede la demolizione di una casa di Cicerone ivi in costruzione. Contro questa ed altre accuse Cicerone si rivolge con un appello al Senato, nel quale spiega, che la maggior parte delle accuse di Clodio si basano su indagini inadeguate.
  • De imperio Cn. Pompei - Sul comando di Gneo Pompeo, sulla legge Manilia, del 66 a.c., pronunciata di fronte al popolo in occasione dell'attribuzione, su proposta del tribuno della plebe Gaio Manilio a Gneo Pompeo di poteri speciali per la conduzione di una campagna militare contro il re del Ponto Mitridate VI.
  • De lege agraria - Sulla legge agraria (contro Rullo), 63 a.c. orazione durante il consolato, tenuta in Senato e davanti al popolo; un quarto dell'orazione è stato perduto.
  • De provinciis consularibus - Sulle province consolari, 56 a.c., pronunciata in senato sulle province consolari romane.
  • De Sullae bonis - Sui beni di Silla", 66 a.c.
  • Divinatio in Caecilium - Dibattito contro Cecilio,70 a.c.), per l'assunzione del ruolo di accusatore nel processo contro Verre. Quinto Cecilio Nigro fu sotto Verre questore in Sicilia e presentò la propria candidatura nel ruolo di accusatore. Per Cicerone egli era invischiato nelle macchinazioni di Verre.
  • In L. Calpurnium Pisonem - Contro Lucio Calpurnio Pisone, 55 a.c., accusa politica contro Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, console nel 58.
  • Catilinarie In Catilinam I–IV - Contro Catilina I-IV ovvero "Le Catilinarie", 63 a.c., orazioni contro Lucio Sergio Catilina: i discorsi del 7 e dell'8 novembre 63 di fronte al Senato (I) e al popolo (II); i discorsi della scoperta e della condanna dei seguaci di Catilina, del 3 dicembre di fronte al popolo (III) e del 5 dicembre di fronte al Senato (IV).
  • In P. Vatinium - Contro Publio Vatinio, 56, orazione accusatoria contro P.Vatinio riguardo l'interrogatorio nel processo contro P.Sestio.
  • In Verrem actio prima - Prima accusa contro Verre, 70 a.c., orazione accusatoria nel processo contro Verre, accusato di concussione
  • In Verrem actio secunda I–V - Seconda accusa contro Verre I–V, discorsi mai pronunciati a causa dell'esilio volontario di Verre, ma vennero comunque pubblicati.
  • Oratio cum populo gratias egit - Ringraziamento al popolo, 57 a.c., ringraziamento a tutti coloro che hanno appoggiato il ritorno di Cicerone dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita politica.
  • Oratio cum senatui gratias egit - Ringraziamento al senato", 57, ringraziamento a tutti coloro che in Senato hanno appoggiato il ritorno di Cicerone dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita politica.
  • Filippiche - 43 a.c., orazioni contro Marco Antonio.
  • Pro Aemilio Scauro - In difesa di Emilio Scauro, del 54 a.c., nel ruolo di difensore.
  • Pro T. Annio Milone - In difesa di Tito Annio Milone, del 52, orazione difensiva, diversa dalla versione pubblicata, che non ebbe effetto perchè la curia era assediata dalla fazione clodiana. Dopo l'esilio di Milone viene modificata e pubblicata, con la celebre citazione "Inter arma enim silent leges", quando ci sono le armi le leggi tacciono.
  • Pro Archia poeta - In difesa di Archia, del 62 a.c., come difensore del poeta antiochiano.
  • Pro A. Caecina - In difesa di Aulo Cecina, del 69 - 71 a.c., orazione tenuta per il querelante per un'azione di rivendicazione. Il fondamento giuridico è l'interdetto de vi armata (rimedio del possessore contro lo spossessamento violento). Sostenitore della parte avversa è Gaio Calpurnio Pisone; entrambi fanno ricorso al "Giurista romano" Gaio Aquilio Gallo.
  • Pro M. Caelio - In difesa di M. Celio", 56, nel ruolo di difensore.
  • Pro A. Cluentio Habito - In difesa di Aulo Cluenzio Abito, 66, nel ruolo di difensore.
  • Pro G. Cornelio - In difesa di Gaio Cornelio, 65, come difensore.
  • Pro L. Cornelio Balbo - In difesa di Lucio Cornelio Balbo, 56, nel ruolo di difensore.
  • Pro P. Cornelio Sulla - In difesa di Publio Cornelio Silla, 62, nel ruolo di difensore.
  • Pro M. Fonteio - In difesa di Marco Fonteio, 69, nel ruolo di difensore.
  • Pro Q. Ligario - In difesa di Quinto Ligario, 46, orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Quinto Ligario, indirizzata a Gaio Giulio Cesare in quanto dittatore.
  • Pro M. Marcello - In difesa di Marco Marcello, 46, orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Marco Marcello, indirizzata a Gaio Giulio Cesare in quanto dittatore.
  • Pro muliere Arretina - In difesa di una donna di Arezzo, 80, nel ruolo di difensore.
  • Pro Murena - A favore di Murena, 63, nel ruolo di difensore.
  • Pro Cn. Plancio - In difesa di Gneo Plancio, 54, nel ruolo di difensore.
  • Pro P. Quinctio - In difesa di Publio Quinto, 81, il più antico discorso giuridico tradizionale di Cicerone a favore del querelante in un processo civile, sulla legittimità del sequestro preventivo eseguita dal convenuto Sesto Nevio contro il cliente di Cicerone Publio Quinto. Difensore della parte avversa è Quinto Ortensio Ortalo, giudice è Gaio Aquilio Gallo.
  • Pro C. Rabirio perduellionis reo - In difesa di Gaio Rabirio, colpevole di alto tradimento", 63, nel ruolo di difensore.
  • Pro Rabirio Postumo - In difesa di Rabirio Postumo, 54, orazione difensiva nella fase pregiudiziale del processo contro Aulo Gabinio a causa di concussione nelle province. Corruzione in connessione alla reintegrazione al trono d'Egitto di Tolomeo XII Aulete.
  • Pro rege Deiotaro - In difesa del re Deiotaro, 45, in difesa del Re Deiotaro, rivolta a Gaio Giulio Cesare.
  • Pro Sex. Roscio Amerino - In difesa di Sesto Roscio da Ameria, 80, orazione di difesa, è la prima arringa di Cicerone in un processo per omicidio. Sesto Roscio era accusato di parricidio. Durante la guerra civile un parente si era impossessato del patrimonio del padre di Roscio togliendolo ai legittimi eredi. Cicerone ottenne l'assoluzione.
  • Pro Q. Roscio Comoedo - In difesa dell'attore Quinto Roscio, 77, nel ruolo di difensore.
  • Pro P. Sestio - In difesa di Publio Sestio, 56, nel ruolo di difensore.
  • Pro Titinia - In difesa di Titinia, 79, nel ruolo di difensore.
  • Pro M. Tullio - In difesa di Marco Tullio, 72, nel ruolo di difensore.
  • Pro L. Valerio Flacco - In difesa di Lucio Valerio Flacco, 63, nel ruolo di difensore.
Cicerone nella sua prima opera conservata (De inventione I 1-5)asserisce che la sapienza, l'eloquenza e l'arte del governo hanno sviluppato un legame naturale, che ha contribuito allo sviluppo della cultura degli uomini e che dev'essere ristabilito. Quest'unità è il suo modello ideale. La separazione tra sapienza ed eloquenza sarebbe la "rottura tra linguaggio e intelletto" compiuta dalla filosofia socratica (De oratore III 61) e tenta attraverso i suoi scritti di "risanare" questa frattura.
Cicerone dichiara "io sono diventato un oratore non nelle scuole dei retori ma nei saloni dell'Accademia".



LA RETORICA
  • Brutus - libro dedicato a De oratore, l'importanza del giudizio del pubblico e una riflessione sull'oratore Ortensio, poi Cicerone rifiuta il modello dell'"Atticismo". L'opera culmina in confronto tra l'arte oratoria di Ortensio e di Cicerone stesso, presentandosi come il punto d'arrivo dell'arte oratoria. Punto principale è la critica allo stile neoattico, a cui anche il giovane Bruto appartiene, difendendo il suo stile, più ricco e magniloquente, dalla critica di essere un esempio dello stile asiano.
  • De inventione - Sul ritrovamento, 85 80 a.c., il primo di due libri di una descrizione globale della retorica, mai completata. Cicerone rinunciò a completarla, per dedicarsi al De oratore, e tuttavia fu usato come testo d'insegnamento fino al Medioevo. La parte completata tratta nel primo libro dei concetti principali della retorica, la dottrina dell'insegnamento della retorica in riferimento ad Ermagora di Temnos e il ruolo dell'oratore; il secondo libro tratta delle tecniche d'argomentazione, soprattutto nelle arringhe giuridiche, e sulle orazioni di fronte al popolo e in occasione di celebrazioni.
  • De optimo genere oratorum - Sulla miglior arte dell'oratoria, del 46 o 50 a.c., introduzione alla traduzione delle orazioni di Demostene ed Eschine, per e contro Ctesifonte.
  • De oratore - Sull'oratore, del 55 a.c. in forma di dialogo, i cui protagonisti sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi, secondo Cicerone, dei più grandi oratori della generazione precedente. Nel I libro è Crasso (portavoce di Cicerone) ad esporre la tesi principale dell'opera ossia che il buon oratore deve avere un'approfondita conoscenza dell'argomento da trattare,contrario ad alcuni retori greci che ritenevano sufficiente una formazione basta su regole, tecnicismi ed esercizi per affrontare qualsiasi discorso. Il II libro tratta invece delle "parti" in cui si suddivide la retorica, cioè l'inventio, la dispositio e la memoria; nel III libro si parla dello stile, cioè l' elocutio, e dell'actio, cioè del comportamento durante l'orazione.
  • Orator - L'oratore, del 46, dedicata a Marco Giunio Bruto, descrive un modello ideale del perfetto oratore. Mentre gli atticisti, come Bruto, seguono uno stile sobrio e preciso, e gli asiani prediligono uno stile magniloquente, Cicerone ritiene che il perfetto oratore, come Demostene, deve dominare tutti gli stili e saper passare da uno all'altro con naturalezza. Per questo motivo bisogna dedicarsi soprattutto alla formazione filosofica: solo così potrà svolgere i tre compiti dell'oratore: probare, delectare, flectere (dimostrare, divertire, convincere), ben ordinati e descritti.
  • Partitiones oratoriae - Partizione dell'arte oratoria, del 54, una sorta di manuale della retorica, nella forma di domanda e risposta tra padre e figlio.
  • Topica - del 44, scritti nel viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico Gaio Trebazio Testa, trattano della dottrina dell'inventatio divulgata da Aristotele, ovvero l'arte di saper trovare gli argomenti. In questa produzione retorica vengono considerati i luoghi (topoi) come spunto per ogni genere di argomento ed utilizzabili per qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia, ecc.)


OPERE PERDUTE

Tra le opere tardive di Cicerone ci sono scritti consolatori, storiografia, poesiee traduzioni, per la maggior parte perdute.

Delle poesie restano varie citazioni che dimostrano l'influenza di uno dei più importanti poeti latini, Gaio Valerio Catullo e di altri neoterici. Tra le traduzioni sono rimasti vasti frammenti del lavoro compiuto sul Timeo (dialogo) di Platone, che Cicerone forse mai pubblicato. Restano frammenti di una libera traduzione, Aratea, dei Fenomeni celesti del poeta ellenistico Arato di Soli.

Le epistole di Cicerone furono riscoperte tra il 1345 e il 1389 da Petrarca e dal cancelliere e umanista Coluccio Salutati, circa 864 lettere, che svelano vari aspetti del suo carattere.
Le epistole furono raccolte e archiviate dal segretario di Cicerone, Tirone, fra il 48 e il 43 a.c., divise in:
Epistole agli amici, tra cui:
Epistulae ad M. Brutum - Epistole a Marco Giunio Bruto
Epistulae ad Atticum - Epistole ad Attico
Epistulae ad familiares, tra cui:
Epistole al fratello Quinto Tullio Cicerone

Lo stato: è ciò che appartiene al popolo, ed un popolo non è qualsiasi insieme di persone, ma una società organizzata che ha per fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza d’interessi.
Il Popolo: unione di cittadini con leggi ed interessi comuni. La causa prima che spinge gli uomini ad unirsino n è come si potrebbe pensare solo il bisogno di reciproco aiuto, ma bensì una naturale inclinazione dell’uomo stesso a vivere insieme. Ogni stato per essere stabile deve essere retto da un’autorità giudicante.

Il governo quindi deve essere affidato:
Ad un uomo solo: Monarchia (degenera in Tirannide).
Ad uomini scelti: Aristocrazia (degenera in oligarchia).
Al popolo: Democrazia (degenera in oclocrazia).

Monarchia: Quando tutto il potere è nelle mani di un uomo solo, noi chiamiamo re colui che governa e regna tale forma di costituzione politica. Tuttavia, nei regimi monarchici, la massa dei cittadini è esclusa dall’esercizio dei diritti politici.
Diremo invece che uno stato è governato dai migliori, quando solo al potere gli uomini più autorevoli ed illustri. Ma, in tali governi, viene soppressa la libertà in quanto si priva il popolo di una partecipazione effettiva al potere pubblico.
E infine diremo che una costituzione è democratica quando il potere è esercitato da il popolo, condizione per nulla augurabile. Ma in esse l’eguaglianza dei diritti politici è sbagliata perché non ammette distinzioni secondo meriti individuali.

La crocefissione: Cicerone, ben calato nella cultura del suo tempo e testimone fedele della società e del suo sentire, in più passaggi definisce la crocifissione supplizio atroce ed incivile. Ricordiamo l’emozionante difesa di Rabirio accusato da Labieno di aver ucciso il tribuno della plebe L. Apuleio Saturnino. Cicerone insiste sul fatto che molte sono le cose disonorevoli: l’ignominia di una condanna pubblica, la confisca dei beni, l’esilio, ma in tutte queste, sottolinea, rimane la parvenza della libertà. «Se siamo minacciati di morte, moriamo almeno da uomini liberi: che il carnefice, che la velatura del capo, che il nome stesso della croce (capitis et nomen ipsum crucis) restino lontani non solo dal corpo dei cittadini romani, ma anche dai loro pensieri, dai loro occhi, dalle loro orecchie (non modo a corpore civium Romanorum sed etiam a cogitatione, oculis, auribus)».


L'UMORISMO

Vedendo un busto marmoreo che raffigurava suo fratello Quinto, uomo di bassa statura, Cicerone osservò "Che strano! Mio fratello è più grande quando è mezzo che quando è intero".

Anche il marito della figlia, non era alto, e vedendolo indossare l’armatura e le armi di legionario, Cicerone chiese ai presenti: "Chi ha legato mio genero alla spada?".

In un dibattimento in tribunale, l’oratore Pontidio chiede alla corte: "Che uomo è mai uno che si fa cogliere in flagrante adulterio?". "Lento" sentenziò Cicerone.

Un certo Vibio Curione aveva il vezzo di abbassarsi l'età e Cicerone: "Ma allora quando andavamo a scuola insieme non eri ancora nato?".

Saputo che Fabia Dolabella asseriva di avere trent’anni, Cicerone assentì: "E’ vero! Sono vent’anni che glielo sento dire."

Cicerone non aveva nobili natali per cui il patrizio Metello Nepote lo derideva, durante le udienze in tribunale, chiedendogli chi era suo padre. Ma Cicerone: "Per quanto ti riguarda, invece, tua madre ti ha reso difficile rispondere a questa domanda!"


BIBLIO

- Tiziano Colombi - Il segreto di Cicerone - Palermo - Sellerio - 1993 -
- Pierre Grimal - Cicerone - Edizioni Scientifiche Italiane - Napoli - 1986 - altre ediz. - Garzanti - Milano - 1987 -
- Luciano Perelli - Il De republica e il pensiero politico di Cicerone- Torino - Giappichelli - 1977
- E. Narducci - Introduzione a Cicerone - Bari - Laterza - 2005 -
- Luciano Perelli - Il pensiero politico di Cicerone: tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana - Scandicci - La Nuova Italia - 1990 -
- S. C. Utcenko - Cicerone e il suo tempo - Editori Riuniti - 1975 -
- Emanuele Narducci - Cicerone e l'eloquenza romana: retorica e progetto culturale - Roma-Bari - Laterza - 1997 -
- G. Boissier - Cicerone e i suoi amici (Cicéron et ses amis) - traduz. di Carlo Saggio - BUR - 1959 -
- A. Everitt - Cicero - A turbulent life - Londra - John Murray Publishers - 2001 -
- C. Fruttero, Franco Lucentini - La morte di Cicerone - Nuovo Melangolo - 1995 -



 

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