TITO LIVIO (Ab urbe Condita - Libro II)




È la storia di Roma che, partita da modestissimi inizi, è tanto cresciuta da essere ormai oppressa dalla sua stessa grandezza
. (Tito Livio)

I

Fatto questo, partì la spedizione armata contro Veio, dove si erano concentrati dei contingenti provenienti da tutta l'Etruria, non tanto per sostenere la causa dei Veienti, quanto piuttosto perché c'era la speranza che le discordie interne potessero accelerare il crollo della potenza romana. I capi di tutte le genti etrusche si scalmanavano nelle assemblee sostenendo che l'egemonia di Roma sarebbe durata in eterno, se essi non avessero smesso di sbranarsi tra di loro in tutte quelle lotte fratricide. 

Quello era l'unico veleno, la sola rovina delle società fiorenti, nata per far conoscere ai grandi potentati il senso della caducità. A lungo contenuto, vuoi per l'accorta gestione dei senatori, vuoi per la rassegnazione della plebe, il male stava ormai dilagando in maniera incontrollabile. Di uno stato se n'erano fatti due, con tanto di leggi e magistrati autonomi in ciascuno di essi. 

Nei primi tempi c'era un'opposizione accesa e sistematica alla leva e poi, quando si trattava di combattere, erano pronti a obbedire ai comandanti. Qualunque fosse la situazione interna, bastava reggesse la disciplina militare per tenere in piedi tutto. Ma adesso disobbedire ai magistrati era diventata una moda che aveva coinvolto anche il mondo militare romano. 

Che considerassero l'ultima guerra da loro combattuta: quando lo schieramento allineato era già nel pieno dello scontro, ecco che tutti i soldati avevano deciso di comune accordo di rimettere la vittoria nelle mani degli ormai vinti Equi, di liberarsi delle insegne, di abbandonare il comandante sul campo e di rientrare alla base contro ogni ordine ricevuto. 

Nessun dubbio che se gli Equi avessero fatto ancora uno sforzo Roma sarebbe crollata sotto i colpi dei suoi stessi soldati. Non ci voleva molto: una semplice dichiarazione di guerra e una dimostrazione di efficienza militare. Al resto avrebbero pensato il destino e il volere degli Dei. Queste speranze spinsero gli Etruschi a scendere in guerra, nonostante la lunga sequenza di alterne vittorie e sconfitte. 

I consoli romani, a loro volta, non temevano nulla quanto le proprie forze e le proprie truppe. Memori del deplorevole incidente occorso nell'ultima guerra, eran terrorizzati all'idea di scendere in campo per affrontare contemporaneamente la minaccia di due eserciti. Così stazionavano all'interno dell'accampamento, paralizzati dall'imminenza di quel doppio pericolo.


II

Non era escluso che il tempo e i casi della vita avrebbero ridotto la tensione degli uomini e riportato il buon senso. Ma proprio per questo i loro nemici, Etruschi e Veienti, stavano accelerando al massimo le operazioni: sulle prime li provocarono a scendere in campo cavalcando nei pressi dell'accampamento e sfidandoli a uscire; poi, visto il nulla di fatto, presero a insultare a turno i consoli e la truppa. 

Dicevano che la storia della lotta di classe era un pretesto per coprire la paura e che il dubbio più grande dei consoli non era rappresentato tanto dalla lealtà quanto dal valore dei loro uomini. Che razza di ammutinamento poteva essere una rivolta di soldati di leva tutti buoni e silenziosi? A queste frecciate ne aggiungevano altre, più o meno fondate, circa le recenti origini della loro razza. I consoli non reagivano a questi insulti provenienti proprio da sotto il fossato e le porte. 

La moltitudine, invece, meno portata a simulare, passava dall'indignazione all'umiliazione più profonda e si dimenticava degli attriti sociali: voleva farla pagare ai nemici e nel contempo non voleva che i consoli e il patriziato potessero vantare una vittoria. Il conflitto psicologico era tra l'odio per la classe avversaria e quello per il nemico. Alla fin fine ebbe la meglio il secondo, tanto insolente e arrogante era diventato lo scherno dei nemici.

Si accalcano davanti al pretorio, reclamano la battaglia, chiedono che si dia il segnale. I consoli confabulano, come se fossero in piena riunione di consiglio. La discussione dura a lungo. Il loro desiderio era combattere; nel contempo, però, frenavano e dissimulavano il desiderio stesso in odio, tale che crescesse l'impeto dei soldati ostacolati e trattenuti. Gli uomini si sentirono rispondere che attaccare sarebbe stato prematuro perché gli sviluppi della situazione non erano ancora arrivati al punto giusto. 

Quindi che rimanessero nell'accampamento. Seguì l'ordine di astenersi dal combattere: se qualcuno, violando la consegna, avesse combattuto sarebbe stato trattato come un nemico. Con queste parole li congedarono: ma il loro apparente rifiuto fece crescere negli uomini l'impazienza di buttarsi all'assalto. Quando i nemici vennero a sapere che il console aveva interdetto ai suoi di scendere in campo, si accanirono ulteriormente nella provocazione, infiammando così ancora di più i soldati romani. 

Era evidente che li potevano schernire senza correre rischi: godevano di così poca fiducia che venivano negate loro persino le armi. La conclusione sarebbe stato un ammutinamento generale con il conseguente crollo della potenza romana. Forti di queste convinzioni, vanno a lanciare grida di scherno davanti alle porte dell'accampamento e si trattengono a stento dall'assalirlo. 


III

A quel punto i Romani non poterono sopportare oltre gli insulti e da tutti i punti del campo si riversarono di corsa davanti ai consoli: le loro non erano più come prima richieste disciplinate e presentate per bocca dei primi centurioni, ma un coro di voci scomposte. La cosa era matura: tuttavia i consoli tergiversavano. 

Alla fine, Fabio, vedendo che il collega, di fronte a quel crescente tumulto, era sul punto di cedere per paura di una sommossa, chiamò un trombettiere per imporre il silenzio e poi disse: «Questi uomini, Gneo Manlio, possono vincere, te lo assicuro; che lo vogliano, ho qualche dubbio, e per colpa loro. Quindi sono deciso a non dare il segnale di battaglia se prima non giurano di ritornare vincitori. Le truppe, durante le fasi di uno scontro, han tradito una volta il console romano: gli Dei non li tradiranno mai». 

A quel punto, un centurione di nome Marco Flavoleio, tra i più accaniti nel reclamare la battaglia, disse: «Tornerò vincitore, o Marco Fabio!» Augurò che l'ira del padre Giove, di Marte Gradivo e degli altri Dei potesse abbattersi su di lui in caso di fallimento. A seguire giurarono tuti gli altri uomini, ripetendo ciascuno lo stesso augurio nei propri confronti. Finito il giuramento si sente il segnale e tutti corrono ad armarsi, pronti a scendere in campo con una carica di rabbioso ottimismo. 

Ora sfidano gli Etruschi a fare i gradassi, ora ognuno sfida quelle male lingue a farsi sotto, ad affrontare il nemico adesso che è armato di tutto punto! Quel giorno, patrizi e plebei senza differenze, brillarono tutti per il grande coraggio dimostrato. Al di sopra di ogni altro, però, il nome dei Fabi: con quella battaglia essi riguadagnarono il favore popolare perso nel corso della lunga sequenza di lotte politiche a Roma. 


IV

L'esercito viene schierato e né i Veienti né le legioni etrusche si tirano indietro. La loro certezza quasi assoluta era questa: i Romani non li avrebbero affrontati con maggiore determinazione di quanta ne avevano dimostrata con gli Equi; oltretutto, vista l'esasperazione degli animi e la totale incertezza dello scontro, non era escluso che commettessero qualche nuovo e imprevedibile errore. 

Ma le cose andarono in tutt'altra maniera: in nessuna delle guerre del passato i Romani si erano prodotti in un attacco così violento, tanto li avevano esasperati sia gli insulti del nemico sia gli indugi dei consoli. Gli Etruschi avevano appena avuto il tempo di spiegare il proprio schieramento che i Romani, nel pieno della concitazione iniziale, prima avevano lanciato a caso le aste più che prendendo la mira, e poi erano arrivati al corpo a corpo con la spada, cioè proprio il tipo più pericoloso di duello. 

Nelle prime file le prodezze straordinarie dei Fabi erano un esempio per i concittadini. Uno di essi, quel Quinto Fabio che era stato console due anni prima, stava guidando l'attacco contro un gruppo compatto di Veienti, quando un etrusco fortissimo e particolarmente esperto nel maneggiare le armi lo sorprese mentre incautamente si spingeva tra un nugolo di nemici e lo passò da parte a parte in pieno petto. E una volta estratta la spada, Fabio crollò a terra riverso sulla ferita. 


V

Anche se si trattava di un uomo solo, la notizia della sua morte fece scalpore in entrambi gli schieramenti e i Romani stavano già per cedere, quando il console Marco Fabio, scavalcandone il cadavere e proteggendosi con lo scudo, gridò: 

«È questo che avete giurato, soldati? Fuggire e ritornare al campo? Allora vuol dire che temete quei gran codardi dei nemici più di Giove o Marte, in nome dei quali avete giurato? Benissimo: io non ho giurato, eppure o tornerò indietro vincitore o cadrò battendomi qui accanto a te, Quinto Fabio!» 

Alle parole del console replicò allora Cesone Fabio, console l'anno precedente: «Credi, fratello, che diano retta alle tue parole e tornino a combattere? Daranno retta agli Dei, è su di loro che han giurato. Quanto a noi, per il rango sociale che occupiamo e per il nome che portiamo (siamo o non siamo dei Fabi?), è nostro dovere infiammare l'animo dei soldati più con l'esempio concreto che con tanti discorsi». 

Detto questo, i due Fabi volarono in prima linea con le lance in resta e si trascinarono dietro tutto l'esercito. Così furono risollevate le sorti della battaglia da quella parte. Dall'altra ala dello schieramento il console Gneo Manlio stava impegnandosi con non meno ardore a sostenere il combattimento, quando accadde un episodio quasi del tutto analogo. 

Infatti, come prima Quinto Fabio all'ala opposta, così adesso da questa parte Manlio, mentre stava guidando l'attacco impetuoso dei suoi soldati contro il nemico già quasi allo sbaraglio, fu ferito gravemente e dovette abbandonare la battaglia. 


VI

La truppa, credendolo morto, cominciò a vacillare e avrebbe ceduto la posizione se l'altro console, arrivato al galoppo da quella parte con alcuni squadroni di cavalieri, gridando che il suo collega era vivo e che egli stesso aveva piegato e messo in fuga i nemici dall'altro versante dello schieramento, non avesse raddrizzato la situazione. 

Anche Manlio, facendosi vedere in mezzo a loro, contribuisce a rimettere in sesto la linea di battaglia. E il morale degli uomini riprende sùbito quota appena riconoscono i lineamenti dei due consoli. Nello stesso istante si riduce anche la pressione del nemico perché essi, contando sulla superiorità numerica, avevano ritirato le riserve e le avevano mandate ad attaccare l'accampamento romano. 

Lì la resistenza è di breve durata, nonostante la violenza relativamente modesta dell'urto. Mentre però i nemici si davano da fare col bottino più che preoccuparsi degli sviluppi della battaglia, i triarii romani, che non erano stati capaci di sostenere l'impeto iniziale, mandarono dei messaggeri per riferire ai consoli come andavano le cose; quindi, riunitisi di nuovo nei pressi del pretorio, lanciarono un contrattacco senza aspettare i rinforzi e di loro spontanea volontà. 

Nel frattempo il console Manlio era rientrato nell'accampamento e, piazzando degli uomini in corrispondenza di tutte le porte, aveva tagliato al nemico ogni via d'uscita. Gli Etruschi allora, in quella situazione disperata, invece di dare una dimostrazione di coraggio, persero la testa. Infatti, dopo aver più volte tentato invano di sfondare dove speravano che fosse possibile una sortita, un gruppo compatto di giovani si lanciò dritto sul console, dopo averlo individuato per il tipo di armamento che aveva addosso. 


VII

I primi colpi furono parati dai soldati del suo séguito, ma l'urto era troppo violento per poterlo reggere più a lungo; e il console cadde, ferito a morte, mentre gli uomini del suo presidio personale fuggirono. Gli Etruschi ripresero allora coraggio e il panico si impadronì dei Romani che correvano all'impazzata per l'accampamento: la situazione sarebbe veramente precipitata, se alcuni ufficiali superiori, dopo essersi impadroniti del corpo del console, non avessero dato via libera ai nemici da una delle porte. 

Fu di lì che si lanciarono fuori, andando però a cozzare senza più nessun ordine nel console vincitore che li massacrò di nuovo e quindi li disperse. Fu una grande vittoria, anche se funestata dalla morte di due uomini di quella statura. Così il console, quando il senato autorizzò il trionfo, disse in risposta che se le truppe lo potevano celebrare senza il loro generale, egli avrebbe dato volentieri il proprio consenso per l'eccellente prestazione da esse offerta in quella guerra. 

Quanto a se stesso, con la famiglia in pieno lutto per la morte del fratello Quinto Fabio e lo Stato mutilato in una delle sue parti per la perdita dell'altro console, non avrebbe potuto accettare la corona d'alloro in quel momento di grande cordoglio pubblico e privato. 


VIII

Il rifiuto del trionfo fu un titolo di merito superiore a qualsiasi altro trionfo mai celebrato, com'è vero che rifiutare la gloria al momento giusto significa raddoppiarla col tempo. Poi celebrò uno dopo l'altro i funerali del collega e del fratello, e in entrambi i casi pronunciò l'orazione funebre: pur non togliendo ai due uomini alcun merito, riuscì a concentrare su se stesso buona parte delle lodi. 

E senza perdere di vista quella politica di riconciliazione con la plebe che era stata uno dei suoi obiettivi principali all'inizio del consolato, affidò ai patrizi il compito di curare i soldati feriti. La maggior parte toccò ai Fabi e le attenzioni che essi ricevettero in questa casa non ebbero uguali nel resto della città. Da quel momento i Fabi cominciarono a essere popolari presso la plebe e fu soltanto servendo lo Stato che essi raggiunsero un simile obiettivo. 


IX

Poi entrambe le parti, patrizi e plebei, mostrano un'uguale propensione nel voler nominare console Cesone Fabio accanto a Tito Verginio. Il primo, all'inizio del suo mandato, lasciando da parte guerra, leva militare e ogni altro problema governativo, si concentrò esclusivamente sulla realizzazione del suo progetto, fino a quel momento solo abbozzato, della riconciliazione tra plebe e patriziato. 

Così, nei primi mesi di quell'anno, per evitare che un qualche tribuno saltasse fuori con proposte di legge agraria, suggerì ai senatori di giocare d'anticipo e di agire autonomamente distribuendo alla plebe la terra conquistata e facendolo nella massima imparzialità possibile. Era giusto diventasse proprietà di quanti avevano dato sangue e sudore per conquistarla. 

I senatori bocciarono la proposta e, anzi, alcuni di loro arrivarono a dire che l'eccesso di gloria aveva insuperbito e offuscato la mente di Cesone una volta molto lucida. In séguito il conflitto tra le classi urbane conobbe un periodo di stallo. I Latini erano tormentati dalle incursioni degli Equi. Cesone si recò allora con un esercito nel territorio degli Equi per compiervi delle razzie. Gli Equi si arroccarono nella loro città, al riparo delle fortificazioni, e fu per questo che non ci fu nessuno scontro particolarmente memorabile. 

Coi Veienti, invece, si registrò una disfatta solo a causa della temerarietà dell'altro console: l'esercito sarebbe stato distrutto, se Cesone Fabio non fosse arrivato per tempo in aiuto. Dopo questo episodio, i rapporti coi Veienti non furono né pacifici né bellicosi, ma si limitarono a una sorta di reciproca scorrettezza. 

Di fronte alle legioni romane, si arroccavano nelle loro città; quando vedevano che le legioni si erano ritirate, allora uscivano e facevano delle scorrerie nelle campagne, eludendo alternativamente la guerra con una sorta di pace e la pace con la guerra. In modo tale che la cosa non poteva né essere abbandonata né esser portata a compimento. 


X

Quanto ai rapporti con gli altri popoli, si era di fronte o a guerre imminenti (per esempio con Equi e Volsci, la cui inattività non poteva durare più del tempo necessario per digerire il dolore, ancora bruciante, per l'ultima disfatta) o a guerre destinate a scoppiare di lì a poco (con i Sabini sempre ostili e con l'intera Etruria). 

Ma i Veienti, tipo di nemici più ostinati che insidiosi e portati maggiormente a provocare che a creare pericoli, faceva tenere il fiato in sospeso perché non lo si poteva mai perdere di vista e impediva di rivolgere altrove l'attenzione. 

Allora la gente Fabia si presentò di fronte al senato e il console parlò a nome della propria famiglia: «Nella guerra contro Veio, come voi sapete, o padri coscritti, la costanza dello sforzo militare conta più della quantità di uomini impiegati. Voi occupatevi delle altre guerre e lasciate che i Fabi se la vedano coi Veienti. Per quel che ci concerne, vi garantiamo di tutelare l'onore del popolo romano: è nostra ferma intenzione trattare questa guerra alla stregua di una questione di famiglia e di accollarcene tutte le spese: lo Stato non deve preoccuparsi né dei soldati né del denaro.» 

Seguì un coro unanime di ringraziamenti. Il console uscì dalla curia e se ne tornò a casa scortato da un nutrito drappello di Fabi, i quali avevano aspettato il verdetto del senato nel vestibolo della curia. Quindi, ricevuto l'ordine di trovarsi il giorno dopo, armati di tutto punto, di fronte alla porta del console, rientrarono tutti nelle proprie case. 


XI

La notizia fece il giro della città e i Fabi vennero portati alle stelle: una famiglia si era assunta da sola l'onere di sostenere lo Stato e la guerra contro i Veienti si era trasformata in una faccenda privata e combattuta con armi private. 

Se in città ci fossero state altre due famiglie così forti, una si sarebbe occupata dei Volsci e l'altra degli Equi e il popolo romano si sarebbe goduto beatamente la pace una volta sottomessi tutti i vicini. 

Il giorno successivo i Fabi si presentano all'appuntamento armati di tutto punto. Il console, uscito nel vestibolo in uniforme da guerra, vede schierati tutti i membri della sua famiglia e, postovisi a capo, dà ordine di mettersi in marcia. Per le vie di Roma non sfilò mai in passato nessun altro esercito meno numeroso ma nel contempo così acclamato e ammirato dalla gente. 

Trecentosei soldati, tutti patrizi, tutti della stessa famiglia, ciascuno dei quali più che degno di esserne al comando, e capaci insieme di formare, in qualsiasi momento, un'eccellente assemblea, avanzarono a passo di marcia minacciando l'esistenza del popolo di Veio con le forze di una sola famiglia. 

Li seguiva una folla in parte costituita da parenti e amici - gente straordinaria che volgeva l'animo non alla speranza o alla preoccupazione, ma solo a sentimenti sublimi - e in parte da gente qualunque spinta dall'ansia di partecipare e piena di entusiasmo e ammirazione. 


XII

Tutti auguravano loro di essere sostenuti dal coraggio e dalla fortuna e di riportare un successo degno dell'impresa. E una volta di nuovo in patria, avrebbero potuto contare su consolati e trionfi, e su ogni forma di premio e riconoscimento. 

passarono davanti al Campidoglio, alla cittadella e agli altri templi, supplicarono tutte le divinità che sfilavano davanti ai loro occhi, e quelle che venivano loro in mente, di accordare a quella schiera favore e fortuna e di restituirla intatta e in breve tempo alla patria e ai parenti. 

Ma vane furono le preghiere. Partiti lungo la Via Infelice e passati dall'arcata destra della porta Carmentale, arrivarono alla riva del torrente Cremera, posizione che sembrò indicata per la costruzione di un campo fortificato. Dopo questi episodi furono eletti consoli Lucio Emilio e Caio Servilio. 

Finché si trattò soltanto di razzie, i Fabi non solo garantirono una sicura protezione al loro campo fortificato, ma in tutta l'area di confine tra la campagna romana e quella etrusca resero sicura la propria zona e, con continui sconfinamenti, crearono un clima di pericolo costante nel territorio nemico. 


XIII

Quindi le razzie cessarono per un breve tempo, finché i Veienti, reclutato un esercito in Etruria, attaccarono il presidio di Cremera e le legioni romane agli ordini del console Lucio Emilio li affrontarono in uno scontro all'arma bianca. 

A dir la verità, i Veienti ebbero così poco tempo per schierarsi in ordine di battaglia che, quando nel disordine delle manovre iniziali era in corso l'allineamento dietro le insegne e la collocazione dei riservisti al loro posto, la cavalleria romana li caricò all'improvviso sul fianco, togliendo loro la possibilità non solo di attaccare per primi, ma anche di mantenere la posizione. 

Respinti in fuga fino al loro accampamento a Saxa Rubra, implorarono la pace. Ma per la debolezza tipica del loro carattere, si pentirono di averla ottenuta prima che la guarnigione romana avesse evacuato il campo di Cremera. 


XIV

Il popolo di Veio si trovò di nuovo nella necessità di vedersela coi Fabi, senza però essere meglio preparato alla guerra. E non si trattava più soltanto di razzie nelle campagne e di repentine rappresaglie contro i razziatori, ma si combatté non poche volte in campo aperto e a ranghi serrati, e una famiglia romana, pur misurandosi da sola, ebbe più volte la meglio su quella città etrusca allora potentissima. 

Sulle prime ai Veienti ciò parve umiliante e penoso. Poi però, studiando la situazione, decisero di giocare d'astuzia contro quel nemico irriducibile, anche perché vedevano con piacere che i reiterati successi avevano raddoppiato l'audacia dei Fabi. 

Così, parecchie volte, quando questi ultimi si avventuravano in razzie, facevano trovare loro, come per pura coincidenza, del bestiame sulla strada; vaste estensioni di terra venivano abbandonate dai proprietari e i distaccamenti inviati ad arginare le razzie fuggivano con un terrore più spesso simulato che reale. 

E ormai i Fabi si erano fatti un'idea tale del nemico da non ritenerlo in grado di sostenere le loro armi vittoriose, qualunque fossero stati l'occasione e il luogo dello scontro. Quest'illusione li portò ad uscire allo scoperto, nonostante la presenza in zona del nemico, per catturare una mandria avvistata a notevole distanza dal campo di Cremera. 


XV

Dopo aver superato, senza però rendersene conto vista la velocità con cui procedevano, un'imboscata proprio sulla loro strada, si dispersero nel tentativo di catturare il bestiame che, come sempre succede quando reagisce spaventato, correva all'impazzata in tutte le direzioni. 

Proprio in quel momento, si trovarono all'improvviso di fronte i nemici saltati fuori dovunque dai loro nascondigli. Prima fu il terrore per l'urlo di guerra levatosi intorno a loro, poi cominciarono a volare proiettili da ogni parte. 

E mentre gli Etruschi con una manovra centripeta li chiusero in una fila ininterrotta di uomini, in modo che a ogni loro passo avanti corrispondeva una riduzione dello spazio concentrico in cui i Romani si potevano muovere, questa mossa ne mise in chiara luce l'inconsistenza numerica esaltando invece la massa compatta degli Etruschi che sembravano il doppio in quella stretta fascia di terra. 

Allora, rinunciando alla resistenza che avevano sostenuto in tutti i settori, si concentrarono in un unico punto dove, grazie alla forza d'urto e alla loro perizia militare, riuscirono a fare breccia con una formazione a cuneo. In quella direzione arrivarono a un'altura appena accennata, dove in un primo tempo riuscirono a resistere. 


XVI

Poi, dato che la posizione sopraelevata permise loro di tirare il fiato e di riprendersi dal grande spavento, respinsero anche i nemici che pressavano da sotto. Quel pugno di uomini stava avendo la meglio grazie alla posizione vantaggiosa, quando i Veienti spediti ad aggirare l'altura emersero da dietro sulla cima e permisero ai compagni di riprendere in mano la situazione. 

I Fabi vennero massacrati dal primo all'ultimo e il loro campo venne espugnato. Nessun dubbio: morirono in trecentosei; se ne salvò soltanto uno, poco più di un ragazzo, destinato a mantenere in vita la stirpe dei Fabi e a diventare per Roma, nei momenti più cupi in pace e in guerra, un sostegno fondamentale. 

Al momento di questo disastro, Gaio Orazio e Tito Menenio erano già consoli. Menenio fu subito inviato a fronteggiare gli Etruschi esaltati dalla vittoria. Ancora una volta la spedizione ebbe un esito sfavorevole e i nemici occuparono il Gianicolo. 

E avrebbero addirittura assediato Roma, messa alle strette non solo dalla guerra ma da una carestia in atto (infatti gli Etruschi avevano attraversato il Tevere), se il console Orazio non fosse stato richiamato dal paese dei Volsci. 


XVIII

La guerra stava minacciando le mura così da vicino che avevano già avuto luogo una prima battaglia dall'esito incerto presso il tempio della Speranza e una seconda davanti alla porta Collina. Lì, i Romani ebbero la meglio, anche se di poco; tuttavia questa battaglia restituì ai soldati il coraggio dei giorni migliori in vista degli scontri a venire. 

Aulo Verginio e Spurio Servilio diventano consoli. Dopo la sconfitta subita di recente, i Veienti evitarono il confronto in campo aperto e optarono per la tecnica della scorribanda: utilizzando il Gianicolo come campo base, facevano incursioni qua e là nella campagna romana e tutti, bestiame e contadini, erano in pericolo. 

Ma dopo un po' di tempo furono vittime della stessa trappola nella quale erano caduti i Fabi: mentre stavano inseguendo i capi di bestiame utilizzati intenzionalmente come esca, caddero in un'imboscata; siccome però eran più numerosi dei Fabi, le proporzioni del massacro furono maggiori. Questo disastro, suscitando la loro rabbiosa reazione, rappresentò l'inizio e la causa di una ben più grave disfatta. 

Infatti, attraversato il Tevere in piena notte, si buttarono all'assalto del campo del console Servilio. Respinti però con ingenti perdite, riuscirono a riparare faticosamente sul Gianicolo. Senza indugiare un attimo, il console passò a sua volta il Tevere e piazzò un campo fortificato sotto il Gianicolo. 

All'alba del giorno successivo, esaltato in parte dal successo del giorno prima, ma soprattutto costretto dalla carestia a optare per soluzioni spericolate purché di rapido effetto, arrivò a una tale temerarietà da spingere le sue truppe su per le pendici del Gianicolo fino al campo nemico: la sconfitta fu peggiore di quella subita dai Veienti il giorno precedente e, soltanto grazie all'intervento del collega, lui e le sue truppe ne uscirono incolumi. 


XIX

Gli Etruschi, presi tra due eserciti, dovendo dare le spalle ora all'uno ora all'altro, subirono un vero massacro. Così, grazie a un'imprudenza dalle conseguenze fortunate, la guerra contro Veio venne soffocata. 

A Roma, col ritorno della pace, anche i prezzi degli alimentari tornarono a un livello ragionevole, sia per l'importazione di frumento dalla Campania sia perché, una volta cessato in tutti il terrore di una nuova carestia, vennero rimesse in circolazione le derrate nascoste durante i tempi bui. 

Però, con l'abbondanza e l'inattività tornò di nuovo negli animi un'atmosfera di malessere e, visto che all'estero non c'era più nulla che potesse impensierire, si presero a rispolverare in patria gli attriti di un tempo. I tribuni sobillavano i plebei con il veleno di sempre, cioè la legge agraria; li incitavano contro la resistenza del patriziato, e non solo contro l'intera classe, ma anche contro i singoli individui. 

Quinto Considio e Tito Genucio, promotori della legge agraria, citarono in giudizio Tito Menenio. Lo si accusava di aver abbandonato la roccaforte di Cremera, quando lui, in qualità di console, aveva un accampamento fisso non lontano da quel punto. 


XX

Questo episodio gli costò carissimo, pur essendosi i senatori fatti in quattro per lui non meno che per Coriolano e pur essendo ancora solidissima la popolarità di suo padre Agrippa. 

Nella richiesta della pena i tribuni non vollero esagerare: nonostante avessero chiesto la pena di morte, si limitarono tuttavia a condannarlo a un'ammenda di duemila assi. Questo gli costò comunque la vita: si dice che non riuscendo a sopportare un disonore così doloroso, si ammalò e ne morì. 

Durante il consolato di Caio Nauzio e Publio Valerio, proprio all'inizio dell'anno, ci fu un altro processo, questa volta ai danni di Spurio Servilio, appena uscito di carica. Citato in giudizio dai tribuni Lucio Cedicio e Tito Stazio, contrariamente a Menenio che aveva adottato come linea di difesa le suppliche sue e dei senatori, Servilio parò le accuse dei tribuni con la grande fiducia nella propria innocenza e nel favore che vantava presso il popolo. 

Anche lui era accusato per la battaglia con gli Etruschi lungo le pendici del Gianicolo. Ma, dimostrandosi uomo di grande temperamento non meno nel perorare la propria causa che nella difesa della patria, con un discorso coraggiosissimo confutò non solo le accuse dei tribuni ma anche la plebe. 

A essa rinfacciò di aver preteso la condanna a morte di Tito Menenio quando era proprio grazie a suo padre che i plebei tempo addietro erano stati ricondotti a Roma e avevano ottenuto quei magistrati e quelle stesse leggi di cui ora abusavano. 

E fu proprio la sua audacia a salvarlo. Un grande aiuto lo ebbe anche dal collega Verginio che, prodotto in qualità di teste, divise con lui i propri meriti. Ma l'orientamento dell'opinione pubblica era così cambiato che l'elemento decisivo a suo discapito fu la condanna di Menenio. 


XXI

Niente più lotte di classe a Roma e di nuovo guerra contro i Veienti, questa volta coalizzati coi Sabini. Il console Publio Valerio fu inviato a Veio a fronteggiarli con le sue truppe e con reparti ausiliari forniti da Ernici e Latini. 

Avendo sùbito assalito l'accampamento sabino situato di fronte alle mura nemiche, vi gettò un tale scompiglio che, mentre le compagnie uscivano alla rinfusa per respingere l'attacco nemico, egli si impadronì di quella stessa porta che era stata il primo obiettivo della sua azione di forza. 

Quel che seguì all'interno del campo non fu una battaglia quanto un vero massacro. Il grande trambusto arrivò di lì fino alla città e gli abitanti, in preda al panico come se Veio fosse stata catturata, corsero alle armi. Parte di essi andò in soccorso ai Sabini, parte si buttò a corpo morto sui Romani che, concentrati esclusivamente su quanto avveniva all'interno del campo, ebbero un momentaneo disorientamento. 


XXII

Poi, dopo che essi si furono stabilizzati in una posizione di doppio contenimento, sopraggiunse la cavalleria agli ordini del console e disperse gli Etruschi costringendoli alla ritirata. Nello stesso momento gli eserciti dei due vicini più potenti erano stati sconfitti. Mentre erano in corso queste operazioni contro Veio, i Volsci e gli Equi si erano accampati nel territorio latino e avevano razziato i dintorni. 

I Latini, soltanto con i propri mezzi e il sostegno degli Ernici, senza ricevere da Roma né un comandante né truppe di rinforzo, li scacciarono dall'accampamento e, oltre a recuperare quello che apparteneva loro, si impossessarono di un grande bottino. 

Da Roma, tuttavia, fu inviato contro i Volsci il console Gaio Nauzio. Non era gradito, credo, che gli alleati decidessero e conducessero le guerre da soli, senza un esercito e un generale romani. Nei confronti dei Volsci non si andò per il sottile con le distruzioni e le provocazioni: ciò nonostante, risultò impossibile costringerli a uno scontro aperto.  

I consoli successivi furono Lucio Furio e Gaio Manilio. A quest'ultimo toccarono i Veienti. Tuttavia non si arrivò a combattere in quanto, su loro espressa richiesta, venne concessa una tregua di quarant'anni in cambio di denaro e frumento. 


XXIII

Alla pace con l'estero successe immediatamente una ripresa dei disordini interni. I tribuni aizzavano la plebe con l'arma della legge agraria. I consoli, per nulla spaventati al ricordo della condanna di Menenio e del pericolo corso da Servilio, resistevano con grande forza. 

Al termine però del loro mandato, il tribuno della plebe Gneo Genucio li trascinò in giudizio. Lucio Emilio e Opitro Verginio entrano quindi in carica come consoli. In alcuni annali ho trovato Vopisco Giulio al posto di Verginio. In quell'anno - chiunque fossero i consoli - Furio e Manilio, accusati di fronte al popolo, andarono in giro vestiti a lutto visitando non meno i plebei che i giovani senatori. 

Li mettevano in guardia e li dissuadevano dall'assumere cariche onorifiche e dal lasciarsi invischiare nella gestione dello Stato; cercavano di far capire loro che le fasce consolari, la toga pretesta e la sella curule non erano nient'altro che accessori da pompe funebri: quegli splendidi ornamenti valevano le bende sulla fronte delle vittime, e portarli significava avviarsi alla morte. 

Se il consolato li affascinava tanto, almeno si rendessero conto che ormai esso era ostaggio e schiavo dello strapotere tribunizio e che il console, ridotto al rango di subalterno dei tribuni, era costretto a subordinare ogni suo movimento al cenno e agli ordini dei tribuni stessi; qualunque suo movimento, qualunque segno di reverenza nei confronti dei senatori, qualunque concezione che non contemplasse la plebe come unica presenza all'interno dello Stato, avrebbe dovuto fare i conti con l'esilio di Gneo Marzio e con la condanna a morte di Menenio. 


XXIV

Infiammati da queste parole, i senatori cominciarono a tenere riunioni che non avevano carattere pubblico ma si svolgevano in privato e all'insaputa della maggior parte dei cittadini. Durante questi incontri una sola era la parola d'ordine: gli imputati andavano sottratti al giudizio ricorrendo a procedure lecite o meno; di conseguenza, più una proposta era turbolenta, più incontrava il favore dei convenuti e non mancavano anche i fautori di gesti assolutamente temerari. 

Così, il giorno del giudizio, con la plebe in piedi nel foro (nessuno osava fiatare nell'attesa), sulle prime ci fu un'ondata di stupore per la mancata comparsa del tribuno e poi, quando la sorpresa si trasformò in sospetto, tutti cominciarono a pensare che il magistrato si fosse venduto ai patrizi e avesse proditoriamente abbandonato la causa dello Stato. 

Alla fine, quelli che erano andati ad aspettare il tribuno davanti alla porta tornarono dicendo che lo avevano trovato morto in casa. Appena la notizia si diffuse in tutta l'assemblea, come un esercito che si squaglia quando il comandante cade sul campo, così la folla si disperse in tutte le direzioni. I più terrorizzati erano però i tribuni, perché la morte del collega aveva chiaramente dimostrato la scarsa protezione che veniva loro garantita dalla legge sull'inviolabilità. 

Né i senatori riuscirono a mascherare la propria soddisfazione: il crimine commesso suscitò così pochi sensi di colpa che addirittura gli innocenti volevano far vedere di avervi preso parte e tutti ormai parlavano della violenza come unico antidoto al potere dei tribuni. 


XXV

Subito dopo questa vittoria, che costituiva un pericoloso avvertimento, viene bandita una leva militare che i consoli riescono a portare a termine senza la minima opposizione da parte degli spaventatissimi tribuni. 

In quell'occasione la plebe andò su tutte le furie più per il silenzio dei tribuni che per l'autorità dei consoli e cominciò a sostenere che la sua non era più libertà, che si era tornati ai soprusi di una volta e che con Genucio il potere tribunizio era morto e sepolto in un colpo solo. 

Per resistere ai patrizi bisognava adottare e impiegare una tecnica diversa. La sola via praticabile sembrava però questa: difendersi da soli visto che mancava ogni altra forma di aiuto. La scorta dei consoli consisteva di ventiquattro littori e anch'essi erano uomini del popolo. 

Niente più disprezzabile e più instabile di costoro, se solo ci fosse stato qualcuno capace di disprezzarli. Era l'idea che ciascuno si era fatta di loro a renderli imponenti e inquietanti. 


XXVI

Quando ormai gli uni e gli altri si erano reciprocamente infiammati con questi discorsi, i consoli mandarono un littore ad arrestare Volerone Publilio, un plebeo che non voleva essere arruolato come soldato semplice in quanto sosteneva di essere stato centurione. Volerone si appella ai tribuni. Ma dato che nessuno di essi si presentò a sostenere la sua causa, i consoli ordinarono di spogliarlo e di farlo frustare. 

Allora Volerone disse: «Mi appello al popolo, perché i tribuni preferiscono assistere alla fustigazione di un cittadino romano piuttosto che lasciarsi trucidare da voi nel loro stesso letto». E più si agitava e dava in escandescenze, più il littore si accaniva a spogliarlo e a strappargli le vesti. 

Allora Volerone, già di per sé possente e in più coadiuvato da quanti aveva fatto intervenire in suo soccorso, si scrollò di dosso il littore e, andandosi a rifugiare nel mezzo della mischia tra quelli che urlavano con più accanimento, disse: «Mi appello al popolo e invoco la sua protezione! Aiuto, concittadini! Aiuto, commilitoni! Non contate sui tribuni: sono loro che han bisogno del vostro aiuto!» 

La gente, quanto mai eccitata, si prepara come per andare in battaglia: era chiaro ce la situazione poteva avere qualsiasi tipo di sviluppo e che nessun diritto pubblico o privato sarebbe stato rispettato. I consoli, dopo aver tenuto testa a quella bufera, si resero conto di quanto sia insicura l'autorità senza l'impiego della forza. 

I littori furono malmenati e i loro fasci fatti a pezzi; quanto poi ai consoli stessi, vennero spinti dal foro nella curia, senza sapere fino a che punto Volerone avrebbe voluto sfruttare quella vittoria. Quando poi, a disordini finiti, essi convocarono il senato, si lamentarono dell'affronto subito, della violenza popolare e della sfrontatezza di Volerone. 


XXVII

Nonostante molti interventi veementi, ebbe la meglio la volontà dei più anziani, ai quali non andava affatto a genio uno scontro tra la rabbia dei senatori e l'irrazionalità della plebe. Alle elezioni successive, Volerone, divenuto un beniamino della plebe, fu nominato suo tribuno per quell'anno che ebbe come consoli Lucio Pinario e Publio Furio. 

Contrariamente a quanto tutti si aspettavano, e cioè che egli avrebbe usufruito della carica per dare addosso ai consoli uscenti, Volerone diede invece la precedenza all'interesse popolare rispetto al risentimento privato e, senza il benché minimo attacco verbale ai consoli, presentò al popolo un progetto di legge secondo il quale i magistrati della plebe avrebbero dovuto essere eletti dai comizi tributi. 

Benché a prima vista sembrasse un provvedimento del tutto innocuo, si trattava di cosa serissima perché avrebbe tolto al patriziato la possibilità di far eleggere i tribuni di suo gradimento attraverso il voto dei clienti. 

Questa proposta, salutata con entusiasmo dalla plebe, si scontrò con l'opposizione incrollabile dei senatori; dato però che né l'influenza dei consoli né quella dei cittadini più in vista riuscì a ottenere il veto di uno dei membri del collegio (ed era questo l'unico tipo di ostruzionismo praticabile), la questione, a causa della sua intrinseca delicatezza, fu il principale argomento di discussione per l'intera durata dell'anno. 


XXVIII

La plebe rielegge Volerone tribuno: i senatori, pensando che si sarebbe arrivati ai ferri corti, eleggono console Appio Claudio, figlio di Appio e già subito detestato e malvisto dalla plebe per le battaglie antidemocratiche sostenute dal padre. Come collega gli assegnano Tito Quinzio. 

All'inizio dell'anno non si parlava d'altro che di quella legge. E come Volerone ne era stato il promotore, così il suo collega Letorio la sosteneva con ancora più entusiasmo e pertinacia. Era fierissimo del suo prestigioso servizio militare perché come soldato dava dei punti a tutti i coetanei. 

Mentre Volerone non aveva altro argomento che la legge ma si asteneva da ogni forma di attacco contro le persone dei consoli, Letorio, invece, lanciatosi in una filippica contro Appio e le crudeltà antipopolari della sua arrogantissima famiglia, arrivò ad accusare i patrizi di aver eletto non un console ma un carnefice chiamato a torturare e a fare a pezzi la plebe; solo che la rozzezza del suo linguaggio da caserma non era in grado di sostenere la franchezza del suo sentire. 

Così, mancandogli le parole, disse: «Visto che i gran discorsi non sono il mio forte, o Quiriti, vediamo di mettere in pratica quel che ho detto e troviamoci qui domani. Quanto a me, o vi morirò davanti agli occhi, o farò passare la legge.» 


XXIX

Il giorno successivo i tribuni occupano i rostri, mentre i consoli e i patrizi rimangono in piedi in mezzo alla gente, col preciso intento di impedire l'approvazione della legge. Letorio ordina di allontanare tutti i non aventi diritto di voto. I giovani nobili rimanevano al loro posto senza dar retta agli uscieri. 

Allora Letorio ordina di arrestarne qualcuno. Il console Appio replicò che l'autorità dei tribuni era ristretta alla plebe in quanto non si trattava di una magistratura del popolo ma della plebe; se anche poi si fosse trattato di una magistratura del popolo, stando alla tradizione, non aveva alcun diritto di ordinare l'allontanamento di nessuno in quanto la formula era questa: «Se non vi dispiace, Quiriti, allontanatevi.» 

Spostando la discussione sulla sfera del diritto e facendolo in maniera sprezzante, Appio poteva facilmente provocare Letorio. Così, livido dalla rabbia, il tribuno inviò il suo messo al console, mentre quest'ultimo gli mandò un littore gridando che Letorio era soltanto un privato cittadino senza alcun potere o magistratura. 

E il tribuno avrebbe perso la propria inviolabilità, se l'intera assemblea non avesse preso le sue parti dando minacciosamente addosso al console, e una folla coi nervi a fior di pelle non si fosse riversata nel foro da tutti i quartieri della città. 


XXX

Ciò nonostante, Appio si ostinava a tener testa a un tumulto di quelle proporzioni  e la cosa sarebbe finita in un bagno di sangue se Quinzio, l'altro console, non avesse incaricato gli ex-consoli di afferrare il collega e di trascinarlo fuori dal foro con la forza (nel caso fosse stato necessario), e se egli stesso non avesse ora supplicato la folla di calmarsi ora richiesto ai tribuni di aggiornare la seduta, in modo da far sbollire i furori. 

Il tempo non li avrebbe privati della forza: anzi, ad essa avrebbe aggiunto la capacità di riflettere e i senatori avrebbero fatto la volontà del popolo come il console quella del senato. Fu difficile per Quinzio placare la folla, ma ancora più difficile fu per i senatori placare l'altro console. 

Aggiornata finalmente l'assemblea popolare, i consoli convocarono il senato. Durante la seduta, ci furono interventi di senso opposto, a seconda del prevalere ora della rabbia ora della prudenza. Col passare del tempo, però, l'animosità si trasformò in riflessione e tutti rinunciarono alla spigolosità dell'inizio: a tal punto che arrivarono a ringraziare Quinzio per aver placato con il suo intervento i furori della folla. 

Ad Appio si richiese di accettare che l'autorità dei consoli non superasse il limite di tollerabilità all'interno di un paese caratterizzato dall'armonia: finché i tribuni e i consoli accentravano ogni cosa nelle proprie persone, c'era un vuoto di forze nel mezzo e lo Stato si riduceva a contrasti e a divisioni interne, visto che il problema centrale non era come garantire la sicurezza ma in quali mani stesse il potere. 

Da parte sua Appio, invocando la testimonianza degli Dei e degli uomini, dichiarò che era colpa della codardia se lo Stato stava andando alla deriva abbandonato a se stesso; che non era il console a mancare al senato ma il senato a mancare al console e infine che si stavano accettando condizioni più dure di quelle accettate sul monte Sacro. 


XXXI

Tuttavia, piegato alla fine dall'unanimità dei senatori, si placò e la legge passò senza particolari opposizioni. Allora, per la prima volta, i tribuni vennero eletti dai comizi tributi. Stando a quanto si trova in Pisone, il loro numero fu aumentato di tre, come se in passato fossero stati due. Ci riferisce anche i nomi dei neoeletti: Gneo Siccio, Lucio Numitorio, Marco Duilio, Spurio Icilio, Lucio Mecilio. 

Mentre Roma era in piena sedizione, scoppiò una guerra coi Volsci e con gli Equi. Essi avevano devastato le campagne in maniera da poter offrire asilo alla plebe nel caso di qualche secessione. Una volta però compostasi la controversia, ritirarono le loro truppe. 

Appio Claudio fu mandato contro i Volsci, mentre a Quinzio toccarono gli Equi. Appio dimostrò di avere in campo militare lo stesso rigore che aveva a Roma in quello politico, e qui godeva anche di maggiore libertà perché non era frenato dalle interferenze dei tribuni. 


XXXII

Odiava la plebe ancor più di quanto non l'avesse odiata suo padre: ne era stato sconfitto; durante il suo mandato di console eletto appositamente per fronteggiare la plebe era stata approvata una legge che i consoli precedenti, sui quali il senato non faceva troppo affidamento, erano riusciti a non far passare senza affannarsi eccessivamente. 

L'ira repressa e l'indignazione istigavano il suo carattere aggressivo a imporsi alle truppe con un'autorità soffocante. La violenza non fu sufficiente a domarle, in quell'ubriacatura di odio reciproco. Mettevano in pratica ogni disposizione con pigrizia, lentezza, negligenza e ostinazione: non c'erano amor proprio e paura capaci di metterli in riga. 

Se lui dava ordine di accelerare il passo, i soldati rallentavano apposta; se andava di persona a esortarli sul lavoro, smettevano subito tutti ciò che avevano spontaneamente intrapreso. In sua presenza abbassavano gli occhi, al suo passaggio lo maledivano sotto voce, così che l'animo di quell'uomo, irremovibile nel suo odio verso la plebe, ne era a volte scosso. 

Dopo aver sperimentato senza risultati tutte le sfumature del suo rigore, non voleva più avere nulla a che fare con la truppa: diceva che era colpa dei centurioni se l'esercito era corrotto e ogni tanto, per deriderli, li chiamava «tribuni della plebe» e «Voleroni». 


XXXIII

I Volsci, al corrente di tutti questi aspetti, aumentarono così la pressione sperando che l'esercito romano manifestasse nei confronti di Appio la stessa disposizione all'ammutinamento mostrata nei confronti del console Fabio. Ma gli uomini furono molto più duri con Appio che con Fabio. 

Infatti non si limitarono, come nel caso di quest'ultimo, a non volere la vittoria, bensì desiderarono la sconfitta. Una volta schierati in ordine di battaglia, riguadagnarono l'accampamento con una vergognosa fuga e si fermarono soltanto quando videro i Volsci lanciarsi all'attacco delle loro fortificazioni e seminare la morte nella retroguardia. 

Fu allora che i soldati romani, respingendo a viva forza dalla trincea il nemico già vincitore, dimostrarono che la sola cosa che stesse loro veramente a cuore era salvare l'accampamento, ma per il resto salutarono con entusiasmo la disfatta subita e la vergogna. Queste cose non scoraggiarono minimamente l'aggressività di Appio. 


XXXIV

Quando però decise di ricorrere a mezzi ancora più rigidi sul piano disciplinare e di convocare l'adunata, i suoi diretti subalterni e i tribuni accorsero a frotte da lui e gli consigliarono di non fare ricorso a un'autorità il cui fondamento risiedeva nel consenso di quelli che dovevano obbedire. 

Pare che i soldati non volessero comparire in adunata e qua e là si sentissero voci di chi reclamava l'evacuazione del territorio dei Volsci. Il nemico vincitore era poco tempo prima arrivato a due passi dagli ingressi e dalla trincea e un disastro di enormi proporzioni non era più soltanto un'ipotesi probabile ma una realtà concreta di fronte ai loro occhi. 

Alla fine cedette, ma la punizione dei colpevoli era soltanto rimandata; quindi, dopo aver sospeso l'adunata, diede ordine di mettersi in marcia il giorno successivo. Alle prime luci dell'alba, il trombettiere diede il segnale di partenza. Proprio quando la colonna stava uscendo dal campo, i Volsci, come svegliati di soprassalto da quello stesso segnale, piombarono sulle retrovie. 


XXXV

Di qui il disordine si diffuse tra le prime linee; drappelli e compagnie erano in preda a un terrore tale che non era più possibile né sentire gli ordini né allinearsi. Il pensiero di tutti fu la fuga. Tra mucchi di corpi e di armi abbandonate il fuggi-fuggi generale fu così disordinato che l'inseguimento dei nemici cessò prima della ritirata dei Romani. 

Quando al termine di quella rotta scomposta i soldati ritrovarono un assetto, il console, che li aveva seguiti tentando invano di richiamarli al proprio dovere, li fece accampare in una zona sicura. Poi, convocata l'adunata, se la prese - e non a torto - con la truppa per l'insubordinazione alla disciplina militare e per l'abbandono delle insegne. 

Rivolgendosi ai singoli uomini, domandava che fine avessero fatto le insegne e le armi. I soldati privi di armi, i signiferi che avevano perso l'insegna e inoltre i centurioni e i duplicari colpevoli di aver abbandonato la propria posizione furono fustigati e quindi decapitati. Quanto alla massa dei soldati semplici, uno su dieci fu estratto a sorte e giustiziato. 


XXXVI

Nella campagna contro gli Equi, al contrario, si assistette a una gara di gentilezze e di buoni propositi tra console e truppa. Quinzio aveva un carattere più mite, e, visti i pessimi risultati dell'autoritarismo del collega, era ancora più soddisfatto della propria indole. 

Gli Equi, di fronte a una simile sintonia tra comandante e truppa, non osarono scendere in campo e lasciarono che il nemico devastasse e razziasse in lungo e in largo le loro campagne. Infatti, in nessun'altra guerra del passato si era messo insieme un bottino così ricco. Tutto fu dato alla truppa; si aggiunsero anche gli elogi, che - si sa - toccano l'anima del soldato non meno delle ricompense. 

Al rientro dell'esercito, non solo il comandante, ma grazie al comandante addirittura i senatori erano visti in una luce diversa, in quanto gli uomini sostenevano di aver avuto dal senato un padre e non un tiranno come l'altra parte dell'armata. 


XXXVII

In questa altalena di incerti episodi militari e di disordini a Roma e all'estero, l'anno appena concluso si segnalò soprattutto per la creazione dei comizi tributi, evento ben più importante per l'esito favorevole della lotta che per i suoi risultati pratici. 

Infatti la riduzione di prestigio dei comizi, dovuta all'allontanamento dei patrizi, fu più significativa che il reale aumento di forze da parte della plebe o la sottrazione di esse al patriziato. L'anno successivo, sotto i consoli Lucio Valerio e Tito Emilio, ci furono disordini più gravi, dovuti tanto allo scontro tra le classi in materia di legge agraria, quanto al processo a carico di Appio Claudio. 

Acerrimo avversario della legge e sostenitore della causa di coloro che avevano il possesso dell'agro pubblico, come se fosse stato un terzo console, fu citato in giudizio da Marco Duilio e da Gneo Siccio. 


XXXVIII

Di fronte al popolo, in passato, non era mai stato processato nessun imputato così inviso alla plebe e carico come lui era del risentimento procuratosi di persona e di quello suscitato dal padre. I patrizi, da parte loro, non si erano mai dati tanto da fare per nessun altro. 

E non a caso, visto che in lui vedevano il difensore del senato, il guardiano della loro autorità e l'uomo che si era opposto a tutte le agitazioni dei tribuni e dei plebei, lo stesso personaggio che in quel momento era esposto alle ire della plebe, soltanto per avere oltrepassato la misura nel mezzo dello scontro. 

Uno solo tra i senatori, lo stesso Appio Claudio, aveva un atteggiamento di completa indifferenza nei confronti dei tribuni, della plebe e del suo processo. Né le minacce della plebe né le suppliche del senato ebbero su di lui alcun effetto.


XXXIX

Infatti non soltanto rimase vestito com'era e rifiutò di andare a implorare la pietà della gente, ma, all'atto di presentare la propria difesa di fronte all'assemblea, non si peritò neppure di smorzare o almeno di contenere la sua notissima virulenza verbale. 

Stessa espressione disegnata sul viso, stessa smorfia arrogante sulle labbra e stessa veemenza infiammata nella parola: il tutto così esasperato che gran parte della plebe temeva Appio da imputato non meno di quanto lo avesse temuto da console. Perorò la propria causa in una sola circostanza, ma con quello stesso tono accusatorio che era la sua caratteristica peculiare in ogni circostanza. 

E la fermezza dimostrata impressionò a tal punto plebe e tribuni da portarli ad aggiornare la seduta di propria spontanea volontà e a permettere che la pratica si trascinasse per le lunghe. Non passò tuttavia molto tempo: prima però della data stabilita, Appio si ammalò gravemente e morì. 

Dato che un tribuno cercò di impedire che se ne pronunciasse l'orazione funebre, la plebe non volle che una personalità simile fosse privata dell'onore solenne proprio l'ultimo giorno e non solo ne ascoltò il suo elogio funebre con la stessa attenzione con cui aveva ascoltato l'accusa contro di lui quando era vivo, ma partecipò in massa al suo funerale. 


XL

Quello stesso anno il console Valerio guidò una spedizione contro gli Equi. Visto però che non riusciva a portare il nemico a uno scontro aperto, si dispose ad attaccarne l'accampamento, ma fu bloccato da una tremenda tempesta con grandine e tuoni rovesciati giù dal cielo. 

Le sorprese non erano però finite: infatti, non appena venne dato il segnale della ritirata, il tempo ritornò così calmo e sereno che, come se una divinità avesse voluto proteggere l'accampamento, la superstizione li dissuase dal rinnovare l'attacco. 

Tutta la furia della guerra si volse a devastare le campagne. L'altro console, Emilio, guidò una campagna contro i Sabini. Anche lì, siccome il nemico se ne stava rintanato all'interno delle mura, il territorio fu razziato. 

Solo quando venne dato fuoco non solo ad alcune fattorie ma anche a villaggi popolosi, i Sabini, usciti all'aperto, si imbatterono nei predatori e, dopo uno scontro dall'esito incerto, il giorno successivo spostarono l'accampamento in una zona più sicura. 


XLI

Il console, considerata questa mossa un pretesto sufficiente per ritenere il nemico battuto e abbandonarlo sul posto, si ritirò senza essere arrivato a un punto decisivo della campagna. Durante queste guerre e con gli scontri di classe ancora in atto a Roma, vennero eletti consoli Tito Numicio Prisco e Aulo Verginio. 

Era chiaro che la plebe non avrebbe tollerato ulteriori dilazioni alla legge agraria e si sarebbe decisa a un'azione di forza definitiva, quando le colonne di fumo che si alzavano dalle fattorie in fiamme e il fuggi-fuggi dei contadini preannunciarono l'avvicinarsi dei Volsci. 

Questa notizia soffocò sul nascere i fermenti di rivolta ormai prossimi a un'imminente esplosione. I consoli, chiamati d'urgenza dal senato a occuparsi della spedizione difensiva, guidando fuori Roma la gioventù, contribuirono a portare una certa tranquillità nel resto della plebe. Quanto ai nemici, dopo essersi limitati a mettere i Romani sul chi vive con un falso allarme, si ritirarono a marce forzate. 


XLII

Numicio fece rotta su Anzio contro i Volsci, Verginio guidò le truppe contro gli Equi. In questa campagna si sfiorò il massacro a séguito di un'imboscata, ma il coraggio dei soldati riuscì a rimettere in piedi la situazione compromessa dalla negligenza del console. Le operazioni contro i Volsci furono condotte con maggiore scrupolo: i nemici, sbaragliati al primo scontro, furono messi in fuga e costretti a riparare ad Anzio, all'epoca uno dei centri più ricchi dei dintorni. 

Non osando per questo attaccarla, il console tolse agli Anziati un'altra città, Cenone, però molto meno prospera. Mentre Equi e Volsci tenevano occupate le truppe romane, i Sabini arrivarono fino alle porte di Roma con le loro scorribande. Pochi giorni dopo, però, quando entrambi i consoli invasero infuriati il loro territorio, subirono dai due eserciti più perdite di quelle che avevano causato. 

L'anno si chiuse con uno spiraglio di pace, ma, come in tutte le precedenti occasioni, si trattò di una situazione appesa a un filo per la rivalità tra patrizi e plebei. La plebe, indignata, non volle prendere parte ai comizi consolari; grazie ai voti dei senatori e dei loro clienti vennero nominati consoli Tito Quinzio e Quinto Servilio. 


XLIII

L'anno del loro mandato assomigliò a quello appena trascorso: disordini all'inizio, e alla fine una guerra esterna a mettere a posto ogni cosa. I Sabini, attraversando a marce forzate i campi Crustumini, seminarono morte e devastazione intorno al fiume Aniene; furono respinti soltanto a due passi dalla porta Collina e dalle mura, non prima però di aver messo insieme un consistente bottino di prigionieri e di bestiame. 

Il console Servilio, buttatosi all'inseguimento con un contingente armato, non riuscendo a raggiungere le loro schiere in un punto pianeggiante, si diede a devastare la zona con una tale meticolosità che nulla venne risparmiato e egli ritornò con un bottino nemmeno lontanamente paragonabile a quello fatto dai Sabini. 


XLIV

Nella campagna contro i Volsci brillarono per efficienza tanto il comandante quanto i soldati. Sulle prime ci fu uno scontro in aperta pianura ed entrambe le formazioni lamentarono moltissime perdite e un gran numero di feriti. 

E i Romani, colpiti più a fondo da quelle perdite a causa dell'inferiorità numerica, avrebbero cominciato a ritirarsi, se il console, ricorrendo a una coraggiosa menzogna, non avesse ridato forza e convinzione urlando che il nemico stava fuggendo dall'altra parte dello schieramento. 

Si buttarono così al contrattacco e, credendosi vincitori, ottennero la vittoria. Il console, ritenendo che un inseguimento troppo insistito avrebbe riacceso la battaglia, fece dare il segnale della ritirata. Per qualche giorno, in una specie di tacito accordo, entrambe le parti non si mossero. 


XLV

Nel frattempo, un ingente schieramento di rinforzi reclutato tra tutte le tribù dei Volsci e degli Equi raggiunse il loro accampamento, con la certezza che i Romani sarebbero partiti nel cuore della notte se lo fossero venuti a sapere. 

Così, intorno a mezzanotte, mossero all'attacco dell'accampamento. Quinzio, dopo aver placato il trambusto seguito all'improvviso spavento, diede ordine ai soldati di rimanere tranquillamente nelle proprie tende; quindi guidò sugli avamposti una coorte di Ernici e, dopo aver fatto montare a cavallo i suonatori di corno e i trombettieri, ordinò di suonare i loro strumenti di fronte alla trincea e di tenere il nemico sul chi vive fino all'alba. 

Per il resto della notte, nell'accampamento la calma fu così totale che anche i Romani riuscirono a dormire. Quanto ai Volsci, intravedendo quelle figure di fanti armati (che essi ritenevano molto più numerosi e romani) e sentendo il nitrito e lo scalpitare dei cavalli imbizzarriti per la novità della cavalcatura e per quel suono assordante nelle orecchie, rimasero in stato di allerta come di fronte all'imminenza di un attacco nemico. 

Alle prime luci del giorno, i Romani, freschissimi e riposati dopo il sonno, vennero disposti in ordine di battaglia per fronteggiare i Volsci, i quali invece erano stremati per la notte passata in piedi e a occhi aperti: vennero così sbaragliati al primo urto, anche se a dir la verità non si trattò di una vera e propria disfatta ma di una sorta di ritirata in quanto si trovarono alle spalle delle alture dove, con la copertura delle prime linee, si andarono a mettere al sicuro i resti intatti del loro esercito. 


XLVI

Il console, dato che era arrivato in un luogo sfavorevole, ordinò di fermarsi. Gli uomini, trattenuti a stento, reclamavano a gran voce l'autorizzazione di incalzare il nemico già in ginocchio. E i cavalieri erano ancora più accaniti: accalcandosi intorno al comandante, gridavano di volersi spingere oltre le insegne. 

Mentre il console tentennava, sicuro del valore dei propri uomini ma poco convinto della posizione, essi gridarono che sarebbero andati e le urla furono subito seguite dall'azione. Piantate le lance a terra, in modo da essere più leggeri in salita, vanno su di corsa. 

I Volsci, avendo utilizzato le loro armi a lunga gittata durante il primo scontro, lanciarono addosso ai nemici i sassi che si trovavano tra i piedi e riuscirono a disunirli con una pioggia di colpi dalla loro posizione sopraelevata. 

E l'ala sinistra della cavalleria romana sarebbe stata schiacciata, se il console, chiamando quelli che stavano indietreggiando ora codardi ora scriteriati, non avesse ridato loro coraggio facendo leva sul senso dell'onore. Si fermarono immediatamente, decisi a resistere a ogni costo. 

Quindi, vedendo che col mantenere quella posizione riprendevano forza, osarono anche spingersi avanti e, alzando di nuovo il grido di guerra, si misero in movimento tutti insieme. Quindi, con un ulteriore slancio, si buttarono all'assalto ed ebbero ragione della posizione sfavorevole. 

Ormai erano a un passo dalla vetta, quando i nemici volsero le spalle: lanciatisi in una corsa disordinata, fuggiaschi e inseguitori arrivarono mescolati all'accampamento dei Volsci e lo catturarono nel pieno del panico. I Volsci che riuscirono a fuggire si rifugiarono ad Anzio. 

Anche i Romani marciarono su Anzio. Dopo qualche giorno d'assedio, la città si arrese, non per qualche nuova azione di forza da parte degli assedianti, ma per la demoralizzazione seguita all'infelice battaglia e alla perdita dell'accampamento.

(Tito Livio - Ab Urbe Condita - libro II)



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