NAVI DA GUERRA ROMANE





NAVI DA GUERRA

Le navi romane erano essenzialmente di due tipi: le grosse navi da carico (naves onerariae), normalmente utilizzate per i traffici e in caso di guerra per i trasporti di uomini e materiali; e le più lunghe navi da battaglia (naves longae).

Le navi romane erano più larghe dell'usuale, spesso oltre un quarto dell’intera lunghezza, per consentire anche in caso di sbarco in terra nemica di accostarsi molto alla riva, oppure di scaricare più rapidamente le merci.

Avevano a poppa una cabina riservata al comandante e ai suoi aiutanti, dietro la quale si levava una costruzione molto più alta della prua e cinta da una robusta ringhiera in legno.

A differenza delle navi da guerra, quelle da carico andavano quasi sempre a vela: usavano infatti i remi solo in caso di bonaccia o di particolari manovre.
Al contrario le navi da guerra andavano a remi, per raggiungere maggiore velocità e rapidità di manovra.

Le torri di legno e le altre strutture da combattimento venivano installate solo prima della battaglia, mentre gli alberi e le vele venivano lasciati nella più vicina base navale o sulla spiaggia dell’accampamento.

Le torri e le piattaforme erano generalmente di struttura più leggera ed indicavano, con i loro colori, a quale flotta o reparto apparteneva la nave. Dei manicotti di cuoio proteggevano le scalmiere, ossia i fori di uscita dei remi, dalle ondate più alte.

le vele delle navi da guerra erano bianche, color lino o in alcuni casi di un color grigio-celeste per esigenze di mimetismo. La nave ammiraglia aveva invece le vele color porpora.

Le navi da guerra erano: la Bireme, la Triremi, la Quadriremi, la Quinquiremi, la Esareme, la Deceris, l'Actuaria, la Liburna, la Caudicaria. C'erano poi le navi ausiliarie: adibite alla logistica (onerarie), al trasporto celere di truppe (attuarie) e di cavalli (ippagoghe), ai collegamenti (celoci), alle esplorazioni (speculatorie).

BIREME

LA BIREME

Cosiddetta perchè disponeva di due serie di rematori, usata fin dal V secolo a.c., subì nel corso del tempo poche modifiche. Lunga circa 23 m. e larga corca 3, con due file di rematori seduti sulla stessa panca. Aveva una vela di forma quadrata e riusciva a raggiungere discrete velocità grazie a peso e dimensioni ridotte. In seguito soppiantata dalla più funzionale e completa trireme.

Era una navis longa, (nave lunga) cioè fatta più per contenere uomini e munizioni, che non per inseguimenti e velocità.

TRIREME

LA TRIREME

Cosiddetta perchè disponeva di tre serie di rematori, dotata di un rostro per speronare e di ponti mobili per agganciare le unità avversarie. In un secondo momento sulla prua venne eretta una torretta, dalla quale esperti arcieri tenevano i nemici sotto il loro tiro. Lungo i bordi correva una balconata praticabile per i combattenti. A poppa si trovava la cabina coperta del comandante, sovrastata dallo stendardo della nave e dalle insegne della flotta. Era la nave da guerra più comune.

Deriva il suo schema da precedenti modelli greci, modificati e snelliti. Misurava 40 metri di lunghezza e 5 e mezzo di larghezza e, dallo scafo emerso, sovrastava di un metro di altezza. Pesava tra le 240 e le 250 tonnellate. Aveva un equipaggio di 200 uomini, di cui 156 vogatori e un manipolo di una trentina di milites per l'arrembaggio: una quindicina tra ufficiali e sottufficiali.

Era comandato da un trierarca, probabilmente, le triremi ancorate a Miseno dovettero essere centinaia. Era una navis longa.
QUADRIREME


LA QUADRIREME

Cosiddetta perchè disponeva di quattro ordini di remi e risale al I sec. a.c. Rematori in servizio 240: di cui 15 Marinai e 120 Militi navali. Nata durante la prima guerra punica, cominciò ad operare in modo permanente solo con l'avvento del principato di Augusto, fino a tutto il V secolo.

Montavano due corvi, uno a prua l'altro a poppa, diverse armi da assedio sul ponte: baliste e piccoli onagri, e una o due torri in legno sul ponte, identiche alle militari, per permettere agli arcieri di tirare da posizione rialzata. Aveva 240 vogatori, 15 marinai e 120 fanti di marina in armatura. La quinquireme portava sottocoperta 300 vogatori, con 50 marinai e 120 fanti. Era una navis longa.

QUINQUIREME

LA QUINQUIREME

Cosiddetta perchè disponeva di cinque ordini di remi, circa 48 m. x8 m. Montavano due corvi, uno a prua l'altro a poppa, diverse armi da assedio sul ponte, baliste e piccoli onagri e una o due torri in legno sul ponte, per permettere agli arcieri di tirare da posizione rialzata. Copiata in parte dalla quinquireme cartaginese. Molto simile alla quadrireme, ma un pochino più veloce. Pur sempre una navis longa.



LA ESAREME

Disponeva di sei ordini di remi. Sembra fosse usata solo per trasportare lo Stato Maggiore dell'esercito, quindi ammiraglio e alti ufficiali, che non prendevano parte agli scontri se non in caso di necessità. Avevano la funzione di organizzare e guidare la battaglia navale ma anche come sostegno morale. Fortemente armata per difendere lo stato maggiore che trasportava. Era una navis longa.

DECERIS

LA DECERIS

Detta anche decireme, disponeva di dieci ordini di remi. Questo dimostrano i pochi resti trovati ma non se ne sa di più. Naturalmente una navis longa.

ACTUARIA

L'ACTUARIA

Molto veloce, leggera e scoperta, costruita sul modello delle imbarcazioni dei pirati. Poco adatta al combattimento, serviva soprattutto per il trasporto veloce di truppe, ma anche come nave da ricognizione. Navis cetera (veloce).

LIBURNA

LA LIBURNA

Navis cetera, con due ordini di rematori, costruita sul modello delle imbarcazioni dei pirati liburni. Più leggera della trireme e con maggiore mobilità. Combattendo contro i pirati illirici, Marco Vipsanio Agrippa vide che le loro navi avevano carena e vele tonde, dotate di grande mobilità per cui diveniva inafferrabile, così ne copiarono lo schema. La liburna fu l'arma segreta che permise a Ottaviano la vittoria di Azio.

Dalle epigrafi sono emersi i nomi di una dozzina di liburne dell'armata navale nel porto di Miseno. L'esercito romano non ha soltanto brillato per il valore del suo armamento; ma era anche superiore a qualsiasi altro concorrente per l'eccellenza della produzione dei suoi cantieri navali.

Con quella di Ravenna, costituiva lo "scudo di Roma" sui mari: la Praetoria Classis Misenensis, la flotta più potente dell'Impero Romano che aveva la principale base a Miseno. Essa è stata ricostruita, sia pure sulla carta, da studiosi ed archeologi, attraverso resti e documenti che riportano i nomi di quasi cinquanta triremi, di nove quadriremi, di undici liburne e persino quelli di alcune imponenti navi ammiraglie della flotta imperiale: la esareme Ops e la pentareme Victoria.

"Sono nomi presi dalla mitologia, dalla geografia e dalle virtù cardinali del cittadino romano. Tra le epigrafi esaminate siamo riusciti a distinguere oltre settanta navi, che abbiamo ritrovato in più di una occasione. La lettura delle epigrafi dei monumenti votivi e funerari, nonchè dei diplomi, hanno consentito di delineare la forza navale agli ordini del prefetto di Miseno, braccio destro degli antichi imperatori." riferiscono gli archeologi.

CAUDICARIA

LA CAUDICARIA

Di forma piatta allargata, una specie di chiatta adibita al trasporto fluviale. Veniva trainata da animali dalla riva destra del fiume secondo un sistema di propulsione, quello dell’alaggio, ancora in uso sul Tevere fino al XIX secolo. La forma originale si osserva su mosaici, rilievi e affreschi.

Specie quando il terreno nemico era impervio, i Romani trasportavano macchine da guerra, accampamenti, animali e viveri sul fiume attraverso le naves caudicarie.




LA FLOTTA DI MISENO

Africani, alessandrini, corsi, frigi, bessi, bitini, cilici, dalmati, egiziani, germanici, greci, italici, libici, macedoni, misenensi, misii, niceani, nocerini, pampilii, pontici, pannoni, sardi: i marinai della flotta di Miseno provenivano da tutte le parti dell'Europa, del Nord Africa e del Medio Oriente bagnate del Mediterraneo. Da ogni parte, quindi, dell'Impero Romano e di questa grande varietà di popoli e di razze rappresentavano anche la sintesi sul piano strategico.

I loro comandanti conoscevano le loro qualità anche a seconda della provenienza e li adoperavano di conseguenza: i bitini ad esempio erano abilissimi nella manovra delle vele, gli africani sapevano combattere anche in condizioni molto disagiate, i germani brillavano nel combattimento corpo a corpo ecc. Roma fu l'impero più cosmopolita mai esistito, tenuto non col terrore ma col diritto e la disciplina.

Lo studio delle lapidi rivenute a Miseno, nei Campi Flegrei, a Roma e in Grecia ha evidenziato che almeno un terzo degli effettivi della flotta imperiale romana era composto da africani e, in particolare, da egiziani provenienti da Alessandria.

TECNICA DI ABBORDAGGIO CON IL CORVO

I RITROVAMENTI

Dal 1943 al 1945, e nel '98, sui fondali di Miseno, e al largo della Marina Grande di Bacoli, si rinvennero alcune navi romane cariche di anfore.

Una draga dell'Arsenale di Napoli, nel 1908, aveva riportato alla luce grosse ancore ripescate nei fondali di Miseno, individuando i resti di una trireme e di una liburna, di cui si recuperarono però solo anfore e ancorotti. Sempre nelle acque di Miseno sono state trovate anfore trapezoidali, ceppi di pietra e di piombo. Resti di navi anche al largo di Punta dell'Epitaffio, con impressi i nome di due famose triremi della flotta di Miseno: Ceres e Isis.

Durante la costruzione dell’aeroporto intercontinentale Leonardo Da Vinci di Fiumicino, vennero alla luce le imbarcazioni attualmente conservate nel Museo delle Navi Romane. I relitti erano a ridosso del molo destro del porto di Claudio. Forse si trattava di un vero e proprio cimitero delle imbarcazioni troppo vecchie e malridotte.

Nella maggior parte dei casi, si sono conservate le strutture del fondo che, impregnate d’acqua, sono rimaste sigillate dai depositi portuali. In alcuni punti le parti sommerse, non ancora coperte da sabbia e limo, sono state attaccate da animali perforatori del legno, come la teredine navale. L’aspetto nerastro degli scafi deriva dai processi di carbonizzazione o di riduzione attivati da microrganismi di sedimentazione.

La scoperta della prima imbarcazione, Oneraria Maggiore II, risale al 1958. Nell’anno successivo, vennero alla luce Oneraria Maggiore I, Oneraria Minore I e la Barca del Pescatore, più due frammenti di fiancata di un'altra nave. L’ultimo scafo, Oneraria Minore II, fu ritrovato nel 1965.

Dopo il restauro e la sistemazione degli scafi sui telai d’acciaio di supporto, nel 1979 il museo venne aperto al pubblico.

BIREME ROMANA

IL CARICO DELLA NAVE

Sulla nave tardo antica di Yassi Ada, Turchia, a poppa sono stati scoperti i resti di un focolare e all’interno della cabina la batteria da cucina, costituita da contenitori vari in terracotta e bronzo, un mortaio e resti di ossa di animali. Scoperte analoghe su molti altri relitti che spesso hanno restituito anche esemplari di macine a mano utilizzate a bordo per ricavare la farina dai cereali e preparare, così, polente, zuppe o pagnotte.

Gli alimenti necessari al sostentamento dell’equipaggio erano conservati all’interno di contenitori, quali anfore, ceste o sacchi. La scorta per la navigazione comprendeva alimenti liquidi (acqua potabile, vino, olio e garum) e alimenti solidi (cereali, olive, frutta fresca o conservata, legumi, carne affumicata o sotto sale).

Nella cabina anche oggetti personali dell’equipaggio o dei passeggeri, quali indumenti, calzature, anelli oppure i dadi che, custoditi in apposite scatoline o sacchetti, servivano come passatempo in viaggio. A bordo non mancavano i medicamenti, oltre a monete e bilance (stadere) per le transazioni commerciali nei porti. Per l’illuminazione si faceva grande uso di lucerne. A bordo c'erano anche piccoli altari portatili e immagini di divinità.

Durante la navigazione, l’equipaggio, se non impegnato nelle manovre della nave, poteva attendere ad attività di manutenzione, come la riparazione di vele con aghi in osso, oppure alla pesca, utile per arricchire con alimenti freschi la povera dieta di bordo.



ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA NAVALE

L’eccezionale collezione di imbarcazioni conservate nel museo di Fiumicino, a partire dall’età imperiale, permette di ammirare il sistema di costruzione utilizzato dagli antichi mastri d’ascia.

Completamente diverso dal procedimento attualmente in uso nel Mediterraneo che prevede la messa in opera, sulla chiglia, dell’ossatura interna e il suo rivestimento con tavole di fasciame, in età greco-romana, dopo aver sistemato la chiglia, veniva costruito il guscio esterno costituito dal fasciame mentre l’ossatura era inserita successivamente con una funzione di rinforzo interno, detta: costruzione su guscio.

Il collegamento tra le tavole del fasciame avveniva coi tenoni, linguette in legno duro inserite in appositi incassi (le mortase) nello spessore delle tavole. I tenoni, infine, erano bloccati da spinotti. In questo modo, le tavole del fasciame potevano mantenere la forma desiderata e il guscio acquistava eccezionale solidità grazie ai numerosi collegamenti interni.



I CHIODI

Le imbarcazioni più tarde, IV-V sec., rivelano invece un massiccio impiego di chiodi in ferro per collegare il fasciame allo scheletro, e lunghi chiodi per collegare alcuni madieri alla chiglia e la notevole spaziatura tra i tenoni o, addirittura, la totale assenza di essi.




LA CARENA

Era strutturata in legno di quercia, pino e abete, piatta e con cinque chiglie per sopportare i forti carichi di costruzioni fittili e litiche alzate in muratura sull’ampia coperta pavimentata di mosaico e pietre dure.

Il fasciame era congiunto accuratamente a paro col sistema del tenone e mortasa, ad incastro e caviglie. Le chiodature sulle ordinate venivano eseguite con lunghi chiodi piegati e ripiegati in tre sensi.

Per evitare l’ossidazione, i chiodi venivano battuti non nel legno del fasciame ma su di una specie di tappo di legno dolce che chiudeva il foro più largo predisposto per ricevere il chiodo stesso.


LE VELE

Per la velatura c'era la conoscenza e la pratica delle andature di bolina per la risalita del vento con vele quadre a geometria variabile, ottenuta mediante il sollevamento di un angolo inferiore per mezzo di un cavo scorrente in anelli posizionati opportunamente con una manovra detta “pedem facere”. Primo passo verso la vela triangolare detta latina (“alla trina”).



L'IMPEARMEABILITA' DELLO SCAFO

Singolare il metodo per garantire l’impermeabilità dello scafo, non con la comune calafatura, ma con l’applicazione di stoppa su tutte le tavole spalmate di minio di ferro. Sulla superficie così preparata si stendeva un tessuto di lana imbevuto di sostanze impermeabili e sopra il tutto fogli di piombo fissati con una fittissima serie di piccoli chiodi di rame a testa larga, coronata di punte interne. Interessante anche la strutturazione della prua con predisposizione di elementi metallici.

METODO DI COSTRUZIONE DELLE NAVI

L'ANCORA

L’ancora è da sempre uno dei più importanti attrezzi mobili di una nave, come tale riconosciuta fin dall’antichità e fatta oggetto di particolari cure da parte di personale qualificato sia nella costruzione che nella positura e nell’impiego.

Soggetta quindi a notevoli sviluppi tecnologici che partendo da una semplice pietra legata ad una cima è arrivata al prodotto di alta specializzazione dei tempi moderni.

La cantieristica romana ha prestato molta attenzione all’ancora con notevoli realizzazioni che vanno dall’impiego del legno zavorrato da una o due pesanti strutture di piombo oppure in tutto metallo di leghe di ferro.

Non mancano le ancore tra i reperti di Nemi, una delle quali lignea con fuso di 5,5 metri ed una di ferro inguainata di legno con il ceppo mobile, simile ad altra ancora trovata in precedenza nel lido di Pompei, fatto questo interessante perché dimostra che il ceppo mobile (detto nel 1800 di tipo “ammiragliato”) è d’uso corrente fin da epoca romana.


LO SCANDAGLIO

Tra gli attrezzi più comuni ricordiamo lo scandaglio che, munito nella parte inferiore di una cavità riempita di resina, serviva per conoscere natura e profondità del fondale nonché a seguire la rotta e a riconoscere i migliori luoghi di ancoraggio. L’ancora era lo strumento di bordo più importante e, di solito, ogni nave ne possedeva più di una di diverse dimensioni. In età romana, era costruita in legno con ceppo di appesantimento in piombo oppure interamente in ferro.

IL CORVO ERA UN PONTE GIREVOLE MUNITO DI UNCINO (O BECCO)
ATTO AD AGGANCIARE LE NAVI NEMICHE

LA POLENA

Nella parte anteriore delle navi romane, si ponevano spesso elementi distintivi quali il vello votivo dell'animale sacrificato agli Dei prima della partenza, oppure un occhio apotropaico, atto a tener lontane le influenze maligne.

Per comprendere l'importanza della fortuna in mare basti pensare ai ritrovamenti archeologici di navi romane che avevano una moneta votiva d'oro collocata sempre nello stesso punto, cioè nella scassa dell'albero. Su un mosaico di trireme della flotta Miseno si vede un cavallino rampante a mo' di polena.

A volte tale elemento distintivo è un rostro, a forma di testa di animale, o una decorazione in cima alla ruota di prua; e su questa verranno applicate le prime sculture che potremmo paragonare alle polene.



I ROSTRI

Nel 2008 viene recuperato il rostro di un'altra nave romana dopo tre anni di ricerche nelle acque delle Egadi nei fondali di "Banco dei Pesci". E' il quinto rostro esistente al mondo.

Il rostro è formato da un pezzo unitariamente fuso in bronzo che si andava ad inserire nel punto di congiunzione tra la parte finale della chiglia e la parte più bassa del dritto di prua.

La parte anteriore del rostro ha un possente fendente verticale rafforzato da fendenti laminari orizzontali. Questa era lo strumento micidiale che veniva inserito con forza sulle fiancate delle navi nemiche per affondarle.

A volte invece avevano due o più punte. Erano in bronzo e imitavano la testa di un animale.

A Roma si usò ornare i monumenti con i rostri delle navi nemiche: si ricorda la colonna rostrata eretta per la vittoria di Gaio Duilio sulla flotta cartaginese a Milazzo (Roma, Museo dei Conservatori) e la tribuna degli oratori nel foro romano, detta perciò rostra; quella più antica, posta nel Comizio e ornata dei rostri delle navi di Anzio (338 a.c.), fu sostituita da Cesare con un monumento, ampliato poi da Augusto e in età successive e ancor oggi in parte conservato, adorno di colonne e statue onorarie.



IL MONTE DEI COCCI

Nelle operazioni di imbarco e sbarco succedeva che questi contenitori finivano per rompersi come accaduto nel porto della città di Roma, sistemato in un’ansa del Tevere, dove i cocci dovevano essere portati e lasciati in un posto sul quale col passare degli anni, anzi dei secoli, venne a formarsi una collina che ha preso il nome di Testaccio, nome derivante dal latino che significa coccio rotto.



IL PORTO

Lo stato interveniva con rilevanti opere pubbliche ed ecco il grande porto con i capienti e riparati bacini degli imperatori Claudio e Traiano tutt’ora rintracciabili nell’area marittima di Ostia Antica, centro nevralgico della marina mercantile mentre la marina militare aveva la base a Formia e a Ravenna (ancor oggi ricordata dalla località Classe, dove classe significa flotta) con il console Caio Duilio, il creatore della potenza navale con la tattica dell’arrembaggio che aveva assicurato la prevalenza romana sulle flotte cartaginesi.

Inizialmente le rotte marittime convergevano a Pozzuoli a 250 km dalla foce del Tevere dove esisteva solamente uno scalo e una stazione di navi militari forse con compito di polizia marittima.

Verso la metà del I sec. a.c. iniziò Augusto ma continuò Claudio la realizzazione di un grande ed attrezzato bacino di forma ovoidale munito di un faro, collegato col Tevere con due canali.

Opera completata da Nerone nel 60 d.c. col nome di Portus Augusti Ostiensis o semplicemente Portus. Struttura forse troppo aperta tanto che due anni dopo un violento fortunale affondava o danneggiava 200 navi.

Il problema veniva risolto da Traiano con un’opera imponente che comprendeva un bacino esagonale con fondale di 5 metri, banchina di 2000 metri, magazzini a due piani, edifici per l’amministrazione e la sorveglianza, moli e un canale di accesso di 500 metri con a lato una darsena per i traghetti e le barche da rimorchio.

Fu inaugurato nel 112-13 d.c. col nome Portus Augusti et Traiani. Attraccavano qui le navi maggiori, le frumentarie, lunghe generalmente 30 metri con portata di 280 tonnellate, un po’ troppo per la loro struttura alquanto debole, lente e difficili da governare, con vele non bene rispondenti alla loro funzione tanto da cedere il passo ad altre unità.

Luciano di Samosata (II° sec. d.c.), narra lo stupore di un greco al racconto che descrive una di queste navi lunga 55 metri e con un’antenna impressionante. Non era certamente la sola, vedi la nave che aveva portato a Roma dall’Egitto, adagiato su di un letto di grano, il grande obelisco ora in Piazza San Pietro.



LA FLOTTA

Ben poco si può sapere della consistenza della flotta, della sua evoluzione ed organizzazione amministrativa e operativa, delle compagnie portuali, delle agenzie commerciali marittime che erano almeno 70 solo ad Ostia. Esistevano quattro “quaestores classis” tipo capitanerie di porto, un “quaestor ostiensis” competente nell’importante ramo dei rifornimenti annonari.

NAVE DA GUERRA BIZANTINA


SUL LAGO DI NEMI

Nel I sec. d.c. l'imperatore Caligola, fece costruire sul piccolo lago due gigantesche navi a chiglia piatta, lunghe più di 70 m. e larghe più di 20. Utilizzando tecniche ingegneristiche stupefacenti, su una fu costruito un palazzo, sull'altra un tempio colonnato.

Edifici lussuosissimi: tegole di terracotta ricoperte da rame dorato, colonne in marmo prezioso, mosaici, statue, bronzi finemente lavorati.

Gli scafi delle navi vennero recuperati dal fondo del lago negli anni Trenta. Poiché nessun autore antico ne aveva mai fatto menzione, solo quando fra i reperti si trovarono delle fistulae aquariae (tubazioni in piombo) con inciso il nome dell'imperatore si capì chi l'aveva fatte costruire.

Secondo alcuni autori, erano destinate sia a cerimonie collegate al culto di Diana, sia allo svago dell'imperatore. Una recente ipotesi le collega invece alle navi sacre del culto di Iside. Probabilmente i congiurati che assassinarono Caligola affondarono le navi per cancellarne il ricordo, come purtroppo avviene spesso, distruggendo vere opere d'arte.

Per ospitare gli scafi e gli altri materiali rinvenuti insieme ad essi, sulla riva del lago fu costruito il Museo delle Navi Romane. Purtroppo le navi furono incendiate nel 1944, andando completamente distrutte, ma il museo ne espone delle riproduzioni esatte.

MOSAICO DI NAVE ROMANA

LA NAVE DI ALBENGA

Costituisce uno dei più grandi relitti di età romana oggi conosciuti nel Mediterraneo. Lunga oltre 40 m. e larga circa 10, con propulsione esclusivamente a vela, aveva un carico di circa 10.000 anfore contenenti vino della Campania o dell'Italia centro-meridionale e, impilati nei vuoti tra le anfore, piatti e coppe di ceramica in vernice nera, che viaggiavano come merce di accompagnamento.

L'esplorazione iniziò nel 1950, e fruttò il recupero di ben 728 anfore e molto vasellame. Le campagne di ricerca e scavo sul relitto, che si sono susseguite negli anni, hanno permesso di acquisire numerose conoscenze sulla nave, che giace ancor oggi sul fondale al largo della cittadina ligure, a circa 42 m. di profondità.

Per il tipo di anfore rinvenute e per le forme della ceramica a vernice nera, nonché per gli altri vasi trasportati, la nave è datata al I sec. a.c. Furono recuperati anche oggetti attribuiti alla dotazione e alla vita di bordo. Olle, boccali, brocche e tegami per la cucina cucina e la cambusa della nave. Un corno di piombo di 26 cm, con funzione scaramantica, come infatti rinvenuti a bordo di altri relitti.

Un'ipotesi diversa è stata avanzata da alcuni studiosi, circa la possibile collocazione dei corni sull'alberatura per assorbire le faville prodotte durante le tempeste (fuochi di Sant'Elmo).

Un crogiolo, realizzato con un minerale duro e quarzoso, doveva essere evidentemente utilizzato per fondere il piombo, per le più urgenti saldature e riparazioni a bordo.

Particolare interesse ha suscitato il ritrovamento di ben sette elmi di bronzo, dal che si era in un primo tempo ipotizzato che una nave oneraria delle proporzioni di quella di Albenga potesse richiedere una scorta militare armata; ma si è ora più propensi a credere, anche in seguito ad altre scoperte archeologiche subacquee, che gli elmi, ricorrenti sui relitti di navi naufragate, rientrassero nella normale dotazione di bordo, da utilizzarsi in caso di necessità.


BIBLIO

- Michael Reddé, Jean Claude Golvin - I Romani e il Mediterraneo - Roma - Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato - 2008 -
- Michael Reddé - Mare nostrum, les infrastructures, le dispositif et l'histoire de la marine militaire sous l'empire romain - Parigi - Ecole Française de Rome - 1986 -
- David Potter -The Roman Army and Navy - in Harriet I. Flower (a cura di) - The Cambridge Companion to the Roman Republic - Cambridge University Press - 2004 -
- Chester G. Starr - The Roman Imperial Navy: 31 B.C. - A.D. 324 - Cornell University Press - 1960 
- Lionel Casson - Ships and Seamanship in the Ancient World - The Johns Hopkins University Press - 1995 -



12 comment:

Anonimo ha detto...

In merito al monte Testaccio voi scrivete che si formò con i cocci (dei circa 25 milioni) d'anfore rotte nelle operazioni di scarico presso l'Emporio di Testaccio. Ma dove sono finite tutte quelle che non si rompevano accidentalmente? Ipotizzando che si rompesse un'anfora ogni quantaranta oggi dovrebbero esistere circa un miliardo (25 mil X 40) d'anfore integre sul suolo italico! Pensateci su, dove sono finite? auguri.

Unknown on 22 agosto 2018 alle ore 11:28 ha detto...

Se non ricordo male, in una puntata di <> Alberto Angela descrisse il particolare che i Romani non disponevano di detersivi, o altro, in grado di pulire le anfore dai residui oleosi. In funzione di ciò, i cocci del Testaccio non sarebbero dovuti solo ad anfore rotte casualmente.

Unknown on 15 novembre 2018 alle ore 11:50 ha detto...

sono finite in fondo al mare o riutilizzate come materiale da costruzione i muri a sacco medievali ne sono pieni

Unknown on 4 maggio 2019 alle ore 14:13 ha detto...

Sarebbe bello vederne una entrare vel porto di Baia, ma, a bordo dovrebbero esserci i ROMANI di 2000 anni fa, absit injuria verbis!

Unknown on 26 marzo 2020 alle ore 08:46 ha detto...

180 trireme di Atene con 4000 atleti migliori dei nostri. Assurda invenzione di ignoranti.

Unknown on 26 marzo 2020 alle ore 11:25 ha detto...

4000 atleti ammesso che usassero solo 20 battelli, per 180 trireme ce ne volevano circa 40000. Quanto ci voleva per costruire 180 battelli , dove trovavano il legname, con che nutrivano tutta quella gente, dove l'alloggiavano, se li pagavano, se stavan nudi anche in inverno.....
gli ateniesi eran quattro gatti che si nutrivano di olive.

Unknown on 26 marzo 2020 alle ore 11:28 ha detto...

non vi pare, amici?

Gioconda Mattei on 31 gennaio 2021 alle ore 11:25 ha detto...

credo che la storia dei nostri antenati meriti di essere valutata nel suo carattere di sacralita derivante dal loro vivere secondo la legge naturale del puro sopravvivere a contatto con gli elementi concreti e non troppo artificiosi come nell attuale e disgregante materialita .voglio dire che tutto cio che faceva parte del loro mondo non era al di fuori della natura dell uomo ma legato alla semplicita della creazione e che ne rendeva l uso "humanus".guaradate i materiali di costruzione oggi usati ,avrebbero mai usato eternit pur avendo l intelletto di poterlo scoprire?quando vado in giro per i numerosi resti che la nostra amata penisola offre ,vedere anche solo un nudo muro in opus reticulatum mi fa sentire quello che io sono ,un semplicissimo uomo legato al divenire della natura ,anche un opus reticulatum ,a differenza della struttura interna dei muri moderni fatti di odiosi mattoni dall estetica obrioprosa(foratini mah!!!!!!)resta visibilmente bello da guardare ed e un opera d arte ,considerando poi che poi venivano ulteriormente stuccati ed affrescati o ricoperti di marmi .evviva la dimensione "UMANA"del mondo di Romolo

Unknown on 4 maggio 2021 alle ore 06:43 ha detto...

Certo che avrebbero usato l'eternit se l'avessero scoperto, cosi come usavano il piombo, dannosissimo. Ci vollero dei secoli per scoprirne l'effetto. Ancora i navigatori di sir James Franklin morirono non per la fame, ma per effetto del piombo delle scatole di provviste che gli faceva impazzire, quando nel 1841-43 tentavano di atttaversare North West Passage del Mar Artico. Ma in sostanza l'arte dell'edilizia dai tempi romani non è cambiata di tanto: cemento, mattoni, intonaco, travi. Con le strutture in muratura siamo sempre li. Solo ultimamemte cominciano a spuntare delle vere innovazioni che rinunciano della tradizionale muratura. E, fortunatamente, parecchie volte con grande rispetto della natura e dello spreco energetico.

Unknown on 1 giugno 2021 alle ore 13:03 ha detto...

bellissimo sito

Unknown on 3 giugno 2021 alle ore 08:47 ha detto...

bel sito

Anonimo ha detto...

A quindi si trovava na Napoli la flotta più importante del impero

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