VERONA (Veneto)



ANFITEATRO DI VERONA

I romani giunsero in nord Italia alla fine del III secolo a.c. ma nei territori dei Veneti fu piuttosto pacifica perchè la popolazione locale aveva compreso che allearsi a Roma era molto più vantaggioso che combatterla. I Romani si resero subito conto dell'importanza strategica di Verona per cui ne fecero subito avamposto militare, la città aveva un fiume per la navigazione e l’approvvigionamento dell’acqua, e a nord c'erano colline che più in là diventavano montagne, per cui era anche facilmente difendibile. Inoltre Verona era a breve distanza dal lago di Garda, all’epoca chiamato Benacus e si trovava all'imbocco della val d'Adige, collegando il valico del Brennero con la pianura Padana. 

Queste vie di comunicazione, che i romani resero delle strade lastricate, dritte e larghe, su cui spostare eserciti e merci, divennero una formidabile rete stradale al centro della quale, nel nord Italia, uno dei principali nodi di smistamento era Verona. Il primo insediamento romano era sulla sponda sinistra dell'Adige, su colle San Pietro. Sulla cima del colle fu costruito un tempio, il più antico del Veneto. Il resto dell'abitato sorgeva sul pendio e sulla riva protetto da un muro che circondava il colle.

Nel 49 a.c. Giulio Cesare fa promulgare la Lex Roscia con cui viene riconosciuta ai cittadini del nord Italia la piena cittadinanza romana. Così Verona venne iscritta nella tribù Polibia, uno dei 35 distretti di voto cui i nuovi municipi dovevano essere assegnati. Vengono nominati i quattruoviri incaricati di fornire la città di infrastrutture. di edifici pubblici e di monumenti. I loro nomi sono Publius Valerius, Quintus Caecilius, Quintus Servilius, Publius Cornelius, come appaiono nell'iscrizione che li ricorda su Porta Leoni.


L'ANFITEATRO DI VERONA

L'Arena di Verona, o Teatro di Verona, o anfiteatro di Verona, è situato nel centro storico della città. E' uno degli anfiteatri antichi giunto a noi con il miglior grado di conservazione, tanto è vero che nei mesi estivi ospita il celebre Festival Lirico Areniano fin dal 1913, e nel resto dell'anno è meta di molti cantanti e musicisti internazionali. L'anfiteatro fece parte dell'opera di monumentalizzazione compiuta a Verona in età giulio-claudia, e sia l'anfiteatro di Verona che quello di Pola sono precedenti al Colosseo.

La data della sua costruzione è oggi ritenuta non posteriore al I secolo. Le somiglianze con l'Anfiteatro di Pola sono fanno pensare che siano opera dello stesso architetto e delle stesse maestranze, per cui tra la fine del regno di Augusto e l'inizio di quello di Claudio, testimoniato dalle decorazioni dell'anfiteatro e, soprattutto, dall'elmo della scultura di un gladiatore. 

Nell'elmo, due fori tondi corrispondevano agli occhi del combattente, mentre la celata era in due parti che si unite nella metà del viso, tenute da due corregge incrociate sotto al mento. Questo tipo di elmo si diffuse alla fine dell'età augustea, tra il 10 ed il 20 d.c., modificato poi dopo il 40.

Nella guerra fra Vitellio e Vespasiano, quest'ultimo scelse Verona come fortezza poiché circondata da campi aperti in cui poteva utilizzare la cavalleria. La cinta muraria cittadina era ormai inservibile per la presenza dell'anfiteatro poco fuori dalle mura, per cui decise di costruire un vallo e di far scavare un lungo fossato a sud del centro abitato.



IL RESTAURO

L'imperatore Gallieno durante le lunghe guerre contro le invasioni barbariche del III secolo, utilizzò come capisaldi Mediolanum, Verona e Aquileia per cui nel 265 fece ristrutturare le mura tardo repubblicane della città e costruire un nuovo tratto di cortina lungo 550 metri per includere l'Arena.

Nel 312 nella guerra tra Costantino e Massenzio, quest'ultimo si asserragliò dentro Verona subendone l'assedio e l'assalto all'altezza dell'anfiteatro, dato che era molto più alto delle mura di Gallieno.
 

I LUDI

Un importante documento letterario sui ludi dell'arena è una lettera di Plinio il Giovane:

«Gaio Plinio al suo Massimo.
Hai fatto bene a promettere ai nostri Veronesi uno spettacolo di gladiatori, i quali da molto tempo ti amano, ti rispettano e ti onorano. Di questa città era anche tua moglie, a te tanto cara, e così ricca di qualità. Era opportuno dedicare alla sua memoria qualche opera pubblica, o uno spettacolo: anzi meglio proprio uno spettacolo, che è quanto di più adatto vi sia per un funerale. In più esso ti veniva chiesto così insistentemente, che il negarlo non sarebbe apparsa fermezza, ma eccesso di rigidità. 
E mi congratulo con te ancora di più, perché nel concederlo sei stato aperto e generoso; anche così si dà prova di magnanimità. Avrei voluto che le pantere africane, che avevi comprato in gran numero, fossero arrivate in tempo: ma, anche se ciò non è potuto avvenire per via del maltempo, hai meritato lo stesso la gratitudine, dato che non è stata tua la colpa se non si è potuti esibirle. Addio»

(Gaio Plinio Cecilio Secondo, Epistularum, liber VI, 34)

L'amico di Plinio aveva offerto dunque ai veronesi uno spettacolo di caccia, la venatio, spettacoli circensi che implicavano la caccia e l'uccisione di animali selvatici, come onoranza funebre per la moglie. Per Plinio la scelta è molto adatta all'occasione, infatti originariamente questi spettacoli erano giochi funebri di origine etrusca.

A Verona una iscrizione funeraria cita il secutor Aedonius che aveva combattuto a Verona otto volte prima di essere sconfitto, e quindi ucciso alla giovane età di ventisei anni; un'altra iscrizione appartiene invece ad un retiarius Generosus proveniente dalla scuola gladiatoria di Alessandria d'Egitto, che combatté per ben ventisette volte senza essere mai sconfitto e morì per cause naturali; un'ulteriore iscrizione appartiene invece a Pardon, nativo dertonensis, che morì durante l'undicesimo combattimento.

Un certo Glauco fece voto per la sua salvezza a Nemesi, divinità molto venerata dai gladiatori, ma senza fortuna. Egli avverte chi legge di non fidarsi di Nemesi, poiché la vita dei gladiatori dipendeva anche dalle abilità e dai capricci della sorte. Glauco doveva essere stato un buon gladiatore, dato che l'iscrizione è stata realizzata anche grazie al contributo dei tifosi.



IL MOSAICO CON GIOCHI GLADIATORI

In una casa di Verona, poco fuori le antiche mura romane, è stato scoperto un mosaico con giochi gladiatorii, databile tra l'età flavia e l'inizio del II secolo. C'è un riquadro centrale con elementi geometrici, delfini ed elementi vegetali. Ai margini di questi, pannelli con raffigurazioni di gladiatori, e il combattimento tra un reziario ed un secutor, con il reziario a terra e l'arbitro che si interpone tra i due. Sopra c'erano i nomi dei gladiatori, quasi scomparsi, ed una V, che sta per vicit (ha vinto), e sopra il reziario ISS che doveva essere scritto MISS, abbreviazione di missus, cioè ebbe salva la vita.

Nel pannello centrale c'è un trace e l'avversario mirmillone a terra insanguinato. L'arbitro alza il braccio del vincitore e il nome del gladiatore sconfitto è Caecro. Nella terza scena vi è la vittoria di un reziario contro un altro gladiatore, che poggia lo scudo a terra in segno di resa.

A Verona c'era una caserma gladiatoria grazie ad un'iscrizione conservata presso il museo lapidario maffeiano. L'affermazione del Cristianesimo e la conseguente fine dei giochi gladiatori, oltre all'inefficienza degli organismi pubblici nella conservazione del monumento, causarono l'abbandono del teatro.

Il ritrovamento all'interno delle mura, volute da re Teodorico, di un blocco che recava scolpita una tabella col numero LXIII appartenente all'anfiteatro indica che la maggior parte dell'anello esterno andò demolito per la realizzazione della cortina muraria. L'edificio mantenne comunque la funzionalità della cavea e gli spettacoli, in quanto la riduzione in altezza di 12 metri provocò la perdita della galleria superiore ma non della gradinata.

L'inondazione dell'Adige del 589, il terremoto del 1116 e il catastrofico terremoto del 1117 si abbatterono sul teatro, seguiti dalle prime invasioni degli Ungari, per cui si utilizzò l'Arena come fortezza. Ma la cavea dell'Arena venne utilizzata come cava di marmo per la realizzazione di nuove costruzioni, in particolare subito dopo l'incendio che colpì la città nel 1172. 



I VARI USI DELL'ANFITEATRO

Nel XIII secolo nascono i primi tentativi di arrestare la distruzione dell'anfiteatro tramite restauri. In epoca comunale e scaligera si tennero all'interno dell'anfiteatro delle lotte giudiziarie simili agli antichi giochi gladiatori: per risolvere processi incerti gli interessati potevano valersi di lottatori professionisti, e la cittadinanza era invitata a parteggiare per  i combattenti che decidevano con la forza le sorti del processo.

Fu Alberto I della Scala a introdurre alcune regole sull'utilizzo dell'anfiteatro: nello statuto del 1276 si stabilisce che le prostitute potevano abitare esclusivamente nell'Arena. 

Nel 1278 furono arsi sul rogo all'interno dell'Arena per volontà di Alberto I della Scala quasi 200 eretici patarini catturati a Sirmione dal fratello Mastino I della Scala, rei di lottare contro la simonia della Chiesa, il matrimonio dei preti, le ricchezze e corruzioni morali delle alte cariche ecclesiastiche. 

Nel 1310 vi è l'ordine di tenere chiusa l'Arena e multare chi avesse rotto le porte o soddisfatto i bisogni corporali all'interno. Infatti l'edificio veniva distinto in due parti, l'esterno abitato, gli arcovoli, e l'interno chiuso, la cavea.

ILTEATRO DI VERONA

IL TEATRO

Il teatro, che aveva due facciate monumentali laterali al colle, venne costruito nel I secolo a.c. ai piedi del Colle San Pietro, sulla riva sinistra dell'Adige, sede, durante i mesi estivi, dell'Estate Teatrale Veronese, sin dal 1948. 

Prima della sua costruzione si dovettero realizzare muraglioni d'argine tra i ponti Pietra ed Postumio paralleli al teatro, per difenderlo da eventuali piene del fiume, il che evitò futuri smottamenti, facendovi passare la strada di raccordo tra i ponti.

Venne quindi scavata una profonda intercapedine che avrebbe isolato la cavea dalla collina per convogliarvi l'acqua piovana, attraverso canalizzazioni sotterranee. Poi si procedette alla costruzione delle terrazze soprastanti il teatro, e del tempio in cima alla collina, di cui si sono trovate diverse tracce durante i lavori di ristrutturazione di Castel San Pietro nell'Ottocento.

NAUMACHIA NEL TEATRO COI DUE PONTI LATERALI

Nel Medioevo l'edificio andò in disuso e in rovina, tanto che sui suoi resti sorse un intero quartiere sulle sostruzioni romane mentre la cavea veniva coltivata. Gli scavi archeologici avvennero solo nell'Ottocento grazie ad Andrea Monga, un facoltoso commerciante appassionato d'archeologia che acquistò tutta l'area demolendo una trentina di case che sovrastavano il teatro, scoprendo l' intercapedine per lo scolo delle acque, i resti dell'ambulacro all'interno del convento, i due scaloni laterali e parte della cavea.

Nel 1904 l'area venne finalmente acquistata dall'amministrazione comunale, che proseguì gli scavi fino al 1914. Restaurata la gradinata vennero ricomposte anche le dieci arcate della loggia di chiusura della cavea, oltre ad un arco di ordine ionico. 

Venne trasferito il museo archeologico all'interno del teatro, venne poi scavata la fossa scenica e furono demoliti altri edifici. Infine, tra il 1970 e il 1971, si svolsero gli ultimi lavori, con la scoperta di una galleria sotto al proscenio.


Il prospetto esterno era scandito da semicolonne al piano terreno di ordine tuscanico, al secondo di ordine ionico e all'ultimo piano dei semipilastri con capitelli che reggevano la trabeazione che chiudeva la facciata. L'intercolumnio aveva pareti chiuse lisce con aperture ad arco.



LA SCENA

La scena a 10 metri più a nord del muraglione d'argine, era in opera quadrata e lunga 71 m. Aveva due parasceni laterali, un muro rettilineo postscenio, e un frontescena con tre grandi nicchie, di cui una curva e due laterali quadrate che inquadravano le tre porte di accesso al palcoscenico. Gli spazi dei parasceni e  tra postscenio e frontescena avevano diversi locali di servizio e depositi. Davanti alla scena c'è il proscenio, limitato dal pulpito, dietro al quale si trovava il sipario.

La cavea, larga 105 m, poggia su Colle San Pietro. Le gradinate erano divise in due settori orizzontali mediante parapetti, a loro volta erano divisi dalle scalinate. Altre due scalinate che partivano dal piano terreno e i relativi vomitoria davano accesso alle gradinate dall'alto. La cavea era circondata da due gallerie sovrapposte, parzialmente tagliate nella roccia, di cui rimangono pochi resti.

Sopra la cavea e le gallerie sovrapposte si sviluppavano tre terrazze su tre diversi livelli, larghe 123 metri. La prima terrazza, profonda 20 m, è occupata dal convento che ospita il museo archeologico, con i resti di un ninfeo. La seconda è profonda 1,50 m, con cinque nicchie decorate da semicolonne e finestre di cui le quattro laterali semicircolari e quella centrale rettangolare. L'ultima, profonda 7 m, ha un'unica nicchia con ai lati semicolonne tuscaniche che sorreggono fregio e architravi dorici. 

Queste terrazze si concludevano in una spianata che oggi ospita Castel San Pietro ma all'epoca ospitava un tempio romano che venne prima dilapidato e poi completamente distrutto, perfino nei suoi resti, in quanto pagano.

PORTA DEI LEONI

PORTA DEI LEONI

La Porta dei Leoni era uno degli ingressi monumentali della città romana di Verona e si apriva all'inizio del cardo massimo, una delle due vie principali. Uno scavo archeologico ne ha portato alla luce le fondamenta. Della porta non si conosce il nome antico, tuttavia nel Medioevo era conosciuta come porta San Fermo, poi come arco di Valerio, dall'ipotizzato costruttore. 

Oggi è porta Leoni, dal nome della strada in cui si trova. Costruita nel I secolo a.c. e ristrutturata nel secolo successivo, collegava il cardine massimo della città con il vicus Veronensium, ovvero con la diramazione della via Claudia Augusta che proseguiva verso Hostilia. La strada dei Leoni corrispondeva al cardine massimo per la parte interna a porta Leoni e alla via Regia per la parte fuori dalle mura romane cittadine.

Porta Leoni venne costruita contemporaneamente alla cortina muraria romana, infatti sono strettamente connesse nelle fondazioni e nei laterizi, e risalgono alla seconda metà del I secolo a.c., a seguito della romanizzazione della Gallia Transpadana nelel 49 a.c. e al conseguente spostamento dell'abitato di Verona entro l'ansa del fiume Adige.

La Porta Leoni era a pianta quadrata con corte centrale, dove venivano controllati i viandanti, e all'esterno era chiusa tra due alte torri. Un'iscrizione murata sopra il pilone mediano di porta Leoni riporta l'atto di fondazione della Verona romana, con i nomi dei quattuorviri che ordinarono le mura e le porte di Verona.

La porta, edificata in laterizio nella prima metà del I secolo, venne ricoperta di lastre di travertino, anche questo testimoniato da un'iscrizione incisa sul fornice superstite che riporta il nome di uno degli amministratori romani che ordinò l'abbellimento, sempre per volontà del quadrumvirato.

IL TEATRO IN EPOCA ROMANA

GLI SCAVI

Durante gli scavi archeologici si sono individuati i reperti di età repubblicana e quelli di età imperiale. La porta, realizzata in età tardo repubblicana, era a pianta quadrata di 16,70 metri di lato con corte centrale rettangolare, doppi fornici larghi 330 cm e alti 525 cm nelle facciate e gallerie ai piani superiori.

Agli angoli della struttura, sul lato ad agro, si elevavano due alte torri poligonali a sedici lati, dal diametro di 7,40 metri. Al secondo e terzo livello si trovavano due ordini di gallerie, di cui l'inferiore portava al camminamento merlato delle mura. Le gallerie e le torri erano fornite di finestre voltate, di 160 X 60 cm, mentre nella facciata interna vi era un ampio loggiato d'ordine dorico. 

L'edificio era alto circa 13 m con un tetto con orditura lignea. La porta urbica era caratterizzata da trabeazioni marcapiano e decorazioni di ordine ionico, con fregio dorico al secondo e al terzo livello, mentre la trabeazione al terzo livello era in terracotta.

Ricorrono in età imperiale due nuove facciate in pietra bianca della Valpantena, al piano inferiore un fornice con edicola con due semicolonne e capitello corinzio sorreggenti trabeazione e frontone. Il livello intermedio come detto ha semplici finestre inquadrate, mentre al terzo livello si apre un'esedra con esili colonne tortili.



L'ISCRIZIONE

Un'iscrizione murata sopra il pilone mediano di porta Leoni è stata rinvenuta nel 1965, ma in realtà già individuata da alcuni artisti rinascimentali che riportavano i nomi dei quattuorviri è caratterizzata da quattro significative righe di testo:

«P. VALERIUS P. [F.] / Q. CAECILIUS [Q. F.] / Q. SERVILIUS [F.] / P. CORNELIUS [F.] / IIII VIR MURUM PORTA[S] / CLUACAS D. D. [FECERUNT] / P. VALERIUS P. [F.] / Q. CAELILIUS Q. [F. PROBARUNT].»

Nell'epigrafe sono citati i nomi dei quattorviri municipali in carica durante l'inaugurazione del monumento, committenti della costruzione delle mura, delle porte, delle torri e delle cloache della città.

PORTA BORSARI


Porta Borsari, in antichità conosciuta col nome di "Porta Iovia" per la presenza del vicino tempio dedicato a Giove Lustrale, è una delle porte che si aprivano lungo le mura romane di Verona. La sua costruzione risale alla seconda metà del I secolo a.c.; tuttavia la parte rimasta integra risale alla prima metà del I secolo. Porta Borsari costituiva il principale ingresso della città romana, immettendo l'importante via Postumia sul decumano massimo e venne costruita contemporaneamente alla cortina muraria romana.

Porta Leoni era sorta intorno alla seconda metà del I secolo a.c., a seguito della definitiva romanizzazione della Gallia Transpadana (primavera del 49 a.c.) e al conseguente spostamento dell'abitato di Verona entro l'ansa del fiume Adige. La costruzione di porta Borsari, sorta analogamente a porta Leoni, era a pianta quadrata con corte centrale, luogo in cui venivano fermati e controllati i viandanti, e verso l'agro era racchiusa tra due alte torri. 

Questo divenne l'ingresso principale della città essendo posto lungo il decumano massimo, prosecuzione della via Postumia, ma l'importanza della porta la si può dedurre anche dal nome che aveva la costruzione in antichità, ovvero "Porta Iovia". Come il tempio di Giove Lustrale che sorgeva nelle immediate vicinanze, essa era dedicata a Giove, la principale divinità del pantheon romano. 

Durante la prima metà del I secolo la porta, che era stata costruita completamente in laterizio, venne ricompresa nell'opera di monumentalizzazione cui venne sottoposta l'importante città veneta, con il rivestimento di nuove facciate lapidee sul lato Foro e sul lato campagna. 

Vista l'importanza della struttura, principale via d'accesso alla città, nelle vicinanze era presente in epoca romana una stazione di posta in cui operavano i "mancipes", cioè coloro che avevano ricevuto in appalto il servizio postale e dei trasporti riservato alle necessità della pubblica amministrazione, e gli "iumentarii", un'associazione professionale che si occupava degli animali e della pulizia delle stalle. 

La funzione di accesso all'abitato rimase anche in età medievale, quando la denominazione della porta cambiò in Borsari, prendendo il nome dai "bursarii" cioè quelli che riscuotevano i dazi delle merci in entrata e in uscita. Con la costruzione delle cinte murarie comunali scaligere perse di importanza, ma a partire dall' età rinascimentale divenne oggetto di studio da parte di autori. Nel corso dei secoli la porta ha subito diverse mutilazioni e ad oggi è sopravvissuta solo la facciata "ad agro" di età imperiale, che ha preso l'attuale denominazione di Borsari restaurata negli anni 1970-80. 

La Porta è alta e larga circa 13 metri, con uno spessore di muratura di 93 cm al terreno e di 50 cm alla cima. La facciata, realizzata in pietra bianca della Valpantena, presenta al piano inferiore due fornici impostati su un alto zoccolo, oggi interrato, inquadrati in edicole composte da due lesene con capitello corinzio sorreggenti trabeazione e frontone, secondo un'architettura presente dall'età augustea. 

Al di sopra si sviluppano due piani, ognuno con sei finestre: nel primo piano, le due finestre centrali hanno piccole edicole e sono riunite in un avancorpo cui ne fanno da contrappunto altri due alle estremità del piano, anche queste dentro edicole; nel secondo livello, le finestre sono comprese tra colonnine coronate da una trabeazione articolata in corpi rientranti e sporgenti, alternati rispetto all'ordine sottostante. Il lato verso la città della porta, invece, è priva di decorazioni in quanto originariamente era unita alla preesistente porta in laterizio di epoca tardo repubblicana.

ARCO DI GAVI

ARCO DI GAVI 

L'Arco dei Gavi è un arco trionfale in pietra bianca costruito dall'omonima famiglia Gavi sulla via Postumia nel I secolo d.c.. Era il monumento che accoglieva alla periferia di Verona chi giungeva da sud-ovest, per celebrare il trionfo politico-economico della famiglia dei Gavi. L'arco dei Gavi è un tetrapilo a pianta rettangolare con un fornice per lato, strutturato su due fronti principali. Fu demolito da Napoleone e ricostruito negli anni '30.

L'arco veronese, situato poco fuori dalle mura della città romana, è un rarissimo caso di arco onorario e monumentale a destinazione privata nell'architettura romana. Venne infatti realizzato intorno alla metà del I secolo per celebrare la gens Gavia.

La gens Gavia, o Gabia, fu un'antica famiglia romana di origine plebea che non ottenne incarichi politici di prestigio fino all'avvento dell'impero, ma i nomi di alcuni componenti si trovano incisi anche in una loggia del teatro romano e in un'iscrizione dove un membro della gens Gavia provvide, per testamento, alla costruzione di un acquedotto veronese, quindi gens plebea si ma molto ricca.

Durante il Rinascimento fu molto apprezzato anche per la firma di un Vitruvio, pensando fosse l'autore del trattato De architectura. Il monumento fu così riprodotto e studiato nei rapporti proporzionali e nelle decorazioni, infine ripreso come modello da architetti e pittori, quali Palladio, Sangallo, Bellini e Mantegna.

L'arco non sorge più nella sua posizione originaria in quanto venne demolito dal Genio Militare francese nel 1805, tuttavia i numerosi rilievi che erano stati prodotti precedentemente resero possibile la sua ricomposizione per anastilosi e restauro nel 1932, quando venne ricollocato nella piazzetta di Castelvecchio, dove si trova tutt'oggi.

IL FORO DI VERONA

L'ARCHITETTO VITRUVIO

L'arco dei Gavi venne inizialmente interpretato come monumento funerario o cenotafio per la sua collocazione sulla via dei sepolcri. Sui piedistalli delle nicchie, che originariamente contenevano le statue dei committenti, erano i nomi di quattro membri della famiglia Gavia: C. Gavio Strabone, M. Gavio Macrone. figli di un C. Gavio, e Gavia, figlia di M. Gavio; il quarto nome è perduto. Non si capisce chi finanziò la costruzione, probabilmente un membro della famiglia.

Eretto lungo la via Postumia come monumento isolato, più tardi venne spogliato degli elementi decorativi e inglobato nella nuova cinta comunale, costruita a partire dal XII secolo per cui divenne porta urbica con il nome di un santo, porta di San Zeno.

Nel 1550 la Repubblica Veneta cedette l'area intorno all'edificio, e il nuovo proprietario liberò il monumento tramite la demolizione delle mura medievali e delle casupole che vi si addossavano, infine edificò le sue case distanti dall'arco.

Nel 1805, durante l'occupazione napoleonica, il Genio Militare francese smontò il monumento per ragioni di sicurezza militare e viabilità: l'arco venne rilevato in tutti i suoi elementi per consentire la ricostruzione, e i blocchi vennero abbandonati in piazza Cittadella, dove subirono danni e asportazioni, infine depositati negli arcovoli dell'Arena.

La parte basamentale della struttura, invece, non venne rimossa in quanto ormai interrata. L'architetto veronese Giuseppe Barbieri nel 1812 fece modellare in legno e in scala ridotta tutti i conci di pietra, ricomponendo l'arco in miniatura, conservato presso il museo archeologico al teatro romano, prezioso per i successivi lavori di ripristino.

Nel 1920 si decise di ricomporlo per anastilosi, nella piazza a lato di Castelvecchio e di integrare le parti mancanti. I lavori autorizzati nel 1931 vennero seguiti da Antonio Avena e Carlo Anti, mentre l'attico mancante, venne ridisegnato da Ettore Fagiuoli, che si basò sui disegni di Andrea Palladio e i rilievi effettuati prima dello smontaggio. L'arco venne finalmente inaugurato il 28 ottobre 1932, come parte delle celebrazioni del decimo anniversario della marcia su Roma.

Il progettista dell'arco ha lasciato la propria firma su due iscrizioni nella faccia interna dei pilastri, cosa insolita nelle architetture romane: L(UCIUS) VITRUVIUS L(UCI) L(IBERTUS) CERDO ARCHITECTUS. Il ritrovamento del nome fu merito di Andrea Mantegna che riprodusse l'epigrafe all'interno della cappella Ovetari a Padova.

L'architetto Lucio Vitruvio Cerdone fu uno schiavo greco liberato da un cittadino romano di nome Lucio Vitruvio, probabilmente l'architetto e trattatista autore del trattato di architettura che ebbe celebrità proprio durante il Rinascimento.


DESCRIZIONE

L'arco dei Gavi venne eretto in area suburbana, in prossimità del punto in cui la via Gallica si congiungeva alla Postumia e a circa 550 metri da porta Borsari. La pianta quadrifronte e la larghezza dei fornici ndica appunto l'incrocio di due percorsi. Oltre al passaggio della via Postumia che consentiva il passaggio di due carri, si trovava un asse stradale perpendicolare che attraversava l'edificio lungo il fronte minore.

L'arco venne demolito dai napoleonici nel 1805 e ricomposto solo nel 1932, non nella sede originaria, dove avrebbe intralciato il traffico, ma in una piazzetta a breve distanza, di fianco a Castelvecchio. Il luogo in cui sorgeva originariamente l'arco è individuabile grazie ad un rettangolo di marmo di fronte al castello.

Le fondazioni consistevano in quattro piloni in laterizio con strati di malta di calce e il raccordo tra le fondazioni e i piloni avveniva per un basamento in blocchi di calcare, che emergeva dal terreno per un terzo dell'altezza.

I prospetti principali sono ripartiti in tre fasce verticali da quattro colonne corinzie, poggianti su piedistallo molto elevato. Le due colonne centrali, che formano un'edicola, delimitano il fornice principale, con archivolto che poggia su due pilastri corinzi, decorati da candelabre (fiore dell'aloe) scolpite con motivi vegetali.

Nelle due fasce più esterne della facciata principale si trovano due nicchie alte e strette, con alto piedistallo e frontone triangolare. Al di sopra due cartelle con mensola. I due lati minori sono incorniciati dalle colonne esterne dei lati maggiori.

Il monumento è alto 12,69 m, largo 10,96 m nei lati maggiori e 6,02 m in quelli minori. Il fornice maggiore, con luce di 8,40 x 3,48 m, consentiva il passaggio della via Postumia, mentre sotto quello minore, con luce di 5,50 x 2,65 m, si diramava un percorso diretto all'Adige, traversandolo con il ponte di Castelvecchio.

VILLA ROMANA

LA RICOSTRUZIONE

Ogni dettaglio fu predeterminato dall'architetto, come dimostrano le siglature dei blocchi, ogni singolo corso era a sua volta cifrato con una serie di numeri, a parte la numerazione dei conci degli archivolti dei fornici principali e secondari. Mediante la lettera e il numero fu possibile individuare con precisione il posto di ciascun blocco.

Nel 1931 i lavori di ricostruzione furono autorizzati da Ministero e seguiti da Antonio Avena direttore artistico e Carlo Anti consulente archeologico, mentre direttori ai lavori furono gli ingegneri Zordan e Tromba. Il progetto previde la ricomposizione nella piazzetta in cui si trova oggi, attraverso un restauro per anastilosi e reintegrazione con blocchi di pietra analoghi a quelli precedenti per forma e materiale.

L'elevato venne consolidato mediante chiavi di ferro dove non fu possibile reimpiegare le grappe antiche, mentre per la copertura si fece una soletta di cemento armato resa impermeabile tramite un manto di asfalto. Alla base del monumento venne infine ricomposto un tratto di strada romana in basoli.

PONTE DI PIETRA

PONTE DI PIETRA 

Il ponte Pietra è il più antico ponte di Verona, sull'Adige, di epoca romana, sopravvissuto per 2000 anni, ed è stato fatto brillare durante la II guerra mondiale dai tedeschi in ritirata, quindi ricostruito ricomponendo per anastilosi le pietre recuperate dal letto del fiume, grazie alla collaborazione tecnica dell'architetto veronese Libero Cecchini e al contributo specialistico di storici, archeologi, ingegneri, docenti universitari e diversi altri esperti e tecnici. 

Un primo ponte in legno venne messo in opera durante la costruzione della via Postumia nel 148 a.c., nel medesimo punto del guado, dove il fiume raggiunge una larghezza minima di 92 m e la corrente è meno impetuosa per un meandro del fiume. Successivamente il ponte venne rifatto in pietra, di cui ci sono giunte integre le due arcate della sponda sinistra, in opera quadrata con pile a prisma fornite di rostri. 

Divenuta colonia latina, nell'89 a.c., la città venne ricostruita all'interno dell'ansa dell'Adige per cui il ponte, precedente alla rifondazione della città, non è in linea al decumano della città. In età imperiale il ponte subì dei restauri, come dimostra la raffigurazione di una divinità fluviale sul concio di chiave della seconda arcata di sinistra, della seconda metà del II secolo. 

Nel 1298 il Signore di Verona fece restaurare la torre verso città e ricostruire l'arcata adiacente, mentre nel 1368 il pronipote realizzò sullo stesso ponte un acquedotto. Nel 1503 vi fu un nuovo intervento per sostituire interamente con la pietra le due arcate rimaste in legno per i crolli subiti. ma vi fu un nuovo crollo e la struttura venne ripristinata in legno. Nel 1520 vennero ricostruite due arcate.

IL PONTE NELLA RICOSTRUZ.

DESCRIZIONE

Il ponte attuale, lungo 92,80 metri e largo 7,20, marciapiedi e parapetti compresi, è costituito da cinque arcate di differente lunghezza. La spalla e le due arcate verso campagna risalgono all'epoca romana, la spalla destra con la soprastante torre e l'arcata adiacente sono di epoca scaligera, mentre le due arcate rimanenti con il grande tondo centrale sono del periodo veneziano.

La parte romana è costituita da grandi blocchi di pietra provenienti dalla Valpolicella (marmo rosso di Verona) e la costruzione è in "opus quadratum", con muratura composta da blocchi parallelepipedi disposti senza malta in filari orizzontali, tenuti uniti da grappe metalliche e da accorgimenti tecnici.

La muratura scaligera e veneta, invece, è costituita principalmente da mattoni di laterizio con giunti in malta di calce, anche se le ghiere degli archi ed il tondo sono irrobustiti da lastroni in pietra della stessa provenienza di quelli romani.

Il ponte romano originale, stabile e poderoso, reggeva su quattro pile larghe 3,50 metri ciascuna, con cinque arcate con luci rispettivamente di 15, 16, 16, 16 e 15 metri, per un totale di 92 metri, l'esatta distanza tra le due sponde in quel punto. Su ogni pila si apriva una finestra in modo da garantire lo sfogo delle acque in caso di piena e allo stesso tempo scandire e ornare il succedersi delle arcate. Insomma un altro capolavoro veronese.


BIBLIO
- Margherita Bolla - Verona romana, Sommacampagna - Cierre - 2014 -
- Ezio Buchi - Porta Leoni e la fondazione di Verona romana - in Museum Patavinum - Firenze - Olschki - 1987 -
- Ezio Buchi, Giuliana Cavalieri Manasse - Il Veneto nell'età romana: Note di urbanistica e di archeologia del territorio - Verona - Banca Pop. di Verona - 1987 -
- Lionello Puppi - Ritratto di Verona: Lineamenti di una storia urbanistica - Verona - Banca Popolare di Verona - 1978 -
- Luigi Beschi - Verona romana. I monumenti, in Verona e il suo territorio - Verona, Istituto per gli studi storici veronesi -1960 -
- Piero Gazzola - Ponte Pietra a Verona - Firenze - Olschki - 1963 -
- Carlo Anti - L'arco dei Gavi a Verona - Architettura e Arti decorative. Rivista d'arte e di storia - Milano-Roma - Bestetti e Tuminelli - 1921 


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