PUBLIO SCAPZIO - PUBLIUS SCAPTIUS





Nome: Publius Scaptius
Nascita: 528 a.c., Roma
Morte: ?


FINE DEL DECEMVIRATO

Siamo nel VI secolo a.c. e Publio Scapzio (528 a.c. – ...) è un cittadino romano plebeo, molto anziano, nato e vissuto durante la repubblica romana (509 a.c. - 27 a.c.) che viene citato alla cronaca dei suoi tempi da Tito Livio nella sua celeberrima storia di Roma (Ab Urbe condita libri) per un episodio non di guerra ma pure particolarmente interessante. 

La Repubblica romana aveva conosciuto un periodo di infame tirannia con il potere accordato ai Decemviri, ma il popolo, che soprattutto era composto di plebei, voleva riconosciuti i propri diritti troppe volte lesi dai patrizi. Così quando i consoli Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato, sostenitori dei plebei, dopo aver sconfitto gli Equi e i Sabini, chiesero il trionfo, il senato, pressato dai patrizi che odiavano i due consoli per le leggi a favore dei plebei, lo rifiutò.

Ma a decidere questa volta fu il popolo attraverso il plebiscito, e fu la prima volta che nella storia di Roma i comizi tributi, ignorando la volontà del Senato, anzi contrapponendosi, decretarono il trionfo che i due consoli avevano pienamente meritato tre anni prima per la sconfitta di Equi e Sabini. Una grande conquista della plebe, del popolo e della democrazia.

Tito  Livio commenta:
«Non enim semper Valerios Horatiosque consules fore, qui libertati plebis suas opes postferrent»
«Non capitano spesso consoli come Valerio e Orazio, che antepongono la libertà delle persone ai propri interessi»
(Livio, Ab urbe condita, Libro III, 64, 3)

Ma proprio in quei tempi gli Aricini (abitanti di Aricia, oggi Ariccia) e gli Ardeati (abitanti di Ardea) si rivolsero a Roma per arbitrare una loro contesa onde evitare di giungere alle armi e Roma acconsentì, ma, cosa assolutamente insolita, le due popolazioni non si erano rivolte nè al Senato nè ai Consoli, bensì al popolo romano.

«Aricini atque Ardeate de ambiguo agro cum saepe bello cetassent, multis in vicem cladibus fessi iudicem populum Romanum cepere
«Gli Aricini e gli Ardeati vantavano entrambi diritti su un territorio e per questo spesso erano venuti a battaglia. Dopo essersi arrecati vicendevolmente gravi perdite decisero di ricorrere all'arbitrato del popolo romano.»
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 71., Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato)

Si dovette pertanto organizzare un'assemblea, e "tribus vocari" (chiamare le tribù). Qui avvenne il dibattito, i testimoni erano stati ascoltati e si stava per passare alle votazioni quando si fece avanti un anziano plebeo: Publio Scapzio.



PUBLIO SCAPZIO

Publio Scapzio, un uomo plebeo e un ex legionario molto anziano si fece avanti per dare la propria testimonianza, pertinente a rigor di legge ma mal tollerata dai patrizi:

«Si licet consules de re publica dicere, errare ego populum in hac causa non patiar.» fece udire la sua voce:
«Consoli, se posso parlare in una questione di pubblico interesse, io non consentirò che in questa causa il popolo romano commetta un errore.» 
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 71, Newton)
I consoli di allora, aristocratici e prevenuti, non vollero ascoltare le sue ragioni e lo accusarono di mendacia, ma Scapzio, per nulla intimorito, gridò che la Repubblica stava per essere tradita e che pertanto doveva essere ascoltato. 

Ordinarono allora di farlo allontanare dall'assemblea ma Scapzio, uomo coraggioso e tenace nonostante l'età, si appellò ai Tribuni della plebe, e questi immediatamente intervennero ottenendo che l'uomo raccontasse alla plebe, che ascoltava incuriosita, ciò che aveva da esporre. 

Scapzio narrò che aveva 83 anni e che, durante il suo ventesimo anno di servizio (in genere il servizio iniziava dai 17 ai 22 anni, talvolta anche più tardi ma di poco), aveva combattuto,  quando già in età matura, quindi all'incirca quarantaduenne, e proprio in quella zona, contro Corioli, un'antica cittadella dei Volsci. 

Quel terreno che adesso era conteso fra Ardea e Ariccia, lui era certo che fosse appartenuto a Corioli ed era certamente passato, come preda di guerra, proprio al popolo romano. Così prevedeva la legge ed era strano che fino ad allora quel terreno fosse rimasto non assegnato.

Si chiedeva Scapzio, come i due contendenti, che non erano riusciti a togliere il territorio a Corioli quando era una potente città, venissero a chiedere ora, e proprio al popolo romano, di decidere a chi assegnarlo fra loro due, quando nessuno dei due ne aveva diritto. 

Scapzio disse che gli restava poco da vivere ma che rivendicava a Roma e alla plebe romana che aveva combattuto, quel terreno che tanto tempo prima aveva contribuito a conquistare con le armi. All'epoca i territori conquistati con le guerre; nonostante le leggi vigenti, venivano assegnati ad esponenti del patriziato e, a parte qualche deduzione di colonia, la plebe rimaneva a mani vuote. 

Di quel terreno per errore o per equivoco. era stata dimenticata l'assegnazione. Non era poi cos' insolito che avvenisse, in quanto i patrizi, ovvero il partito degli optimates faceva del tutto per sottrarre i terreni conquistati ai plebei nonostante questi fornissero la stragrande maggioranza dei combattenti. La folla fu con lui, la plebe applaudì. 

La situazione politica in quell'epoca non era stabile, patrizi e plebei erano ai ferri corti e i patrizi invocarono scuse:
«...orare ne pessimum facinus peiore exemplo admitterent iudices in suam rem litem vertendo [...] nequaquam tantum agrum agro intercipiendo adquiratur, quantum amittatur alienandis iniuria sociorum animis

«era certo possibile che un giudice si preoccupasse anche del proprio utile [...] ci si appropriava di quei territori, ma ci si rimetteva, alienandosi, con quella ingiustizia, gli animi degli alleati.» 
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 72, Newton)
I patrizi agognavano quei terreni e non volevano certo cederli ai plebei, ma non volevano neppure scontentare le città alleate. Le varie tribù dopo discussioni, comizi, promesse e minacce andarono al voto e la plebe ebbe ragione dei patrizi, perchè la plebe era tanta, e i patrizi pochi. I terreni vennero dichiarati "agro pubblico" e appartenenti pertanto al popolo romano. 

Tito Livio narra che:
«Idque non Aricinis Ardeatibusque quam patribus romanis foedius atque acerbiu visum. Reliquum anni quietum..»

«Quella sentenza apparve ignobile e inaccettabile sia ai patrizi romani che agli Ardeati e agli Aricini. Il resto dell'anno trascorse tranquillo. »
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, III, 72, Newton Compton, Roma, trad.: G.D. Mazzocato)
L'anno successivo, mentre a Roma si presentava la Lex Canuleia, legge proposta dal tribuno della plebe Gaio Canuleio nel 445 a.c. con cui si aboliva il divieto di nozze tra patrizi e plebei, risalente alle Leggi delle XII tavole del 450 a.c., gli Ardeati si ribellarono per rivendicare il territorio in questione. 

Allora i patrizi, per ottenere dai Tribuni della plebe il permesso di indire una leva militare e difendere la città, dovettero non solo concedere l'approvazione della legge, ma dovettero pure rinunciare ad appropriarsi vilmente ma legalmente dei territori tanto difesi da Publio Scapzio e ridistribuirli tra la plebe.  Publio Scapzio aveva vinto. Con lui avevano vinto la plebe e la giustizia romana.


BIBLIO

- Tito Livio - Storia di Roma dalla fondazione - a cura di G.D. Mazzocato - Newton Compton - 1998 -
- Tito Livio - Storia di Roma dalla sua fondazione - traduzione di Mario Scandola - note di Claudio Moreschini - BUR Biblioteca Univ. Rizzoli - 1982 - 
- Storia di Roma - Libri 3-4. Lotte civili e conquiste militari - a cura di G. Reverdito -  Garzanti - 2010 - 



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