VIVARIA ROMANI





Oltre all'allevamento degli animali domestici, i romani praticavano due tipi ben distinti di vivaria: uno per le bestie feroci ed esotiche e una ittica.
Il termine VIVARIUM indica il recinto in cui si nutrono in cattività le belve (come sostiene Aulo Gellio nel II secolo d.c.), termine che si ritrova in Plinio il Vecchio che lo fa risalire a Fulvius Lippinus, come riserva per i cinghiali e altri animali selvatici. Letteralmente il Vivarium è un "luogo di vita", e trattasi di un'area, di solito chiusa, per tenere o allevare animali e o piante.

C'erano a Roma e nel Lazio, ma probabilmente in tutto il suolo italico, fin dai tempi antichi delle riserve chiamate vivaria dove veniva allevata la selvaggina di grossa taglia, come il cinghiale, la cui carne era la più ricercata e la più costosa. Tra la selvaggina di piccola taglia si allevava la lepre, il ghiro, l'oca, l'anatra e la lumaca. Da notare che la selvaggina non veniva sacrificata, come se in un certo senso, rappresentando la natura libera, non fosse nella podestà dell'uomo, cioè sacra agli Dei e 
inviolabile per i sacrifici. Secondo Plinio il Vecchio furono gli abitanti di Delo i primi ad allevare galline.

Oltre a tordi e piccioni, i romani amavano cucinare animali importati da diverse regioni dell’impero, come fenicotteri, cicogne e grù; i più ricercati erano i piatti a base di fagiano e pavone. I più ricchi amavano gustare piatti a base di ghiro, e fenicottero di cui era molto ricercata la lingua.

All’allevamento di ghiri (gliraria) erano dedicate delle cure molto scrupolose. Per quanto riguarda la carne di pollo, non era molto apprezzata e veniva consumata principalmente dai poveri. Si mangiava anche l’asino selvatico (onager) e la selvaggina come il cinghiale, la lepre, l’oca, l’anatra, il cervo, il capriolo e il daino.

C'era anche  una forma intermedia fra caccia (o pesca) e allevamento, vale a dire un allevamento in aree chiuse di specie animali non domestiche o di pesci marini o d’acqua dolce (piscinae). Il Vivarium poteva essere terrario o acquatico, quest'ultimo per allevare pesci o molluschi. Il vivarium romano può essere più piccolo o più grande, a seconda dei tipi di animali e dell'uso, mangereccio o solo ornamentale.



ALLEVAMENTO ANIMALI DOMESTICI


"DE RUSTICA” - Lucio Giunio Moderato Columella

"Quelli che vogliono allevare gli equini, ricordino che la cosa più importante è provvedersi di un capo delle stalle espertro e attento, e di molta pastura. Cibo e cura possono bastare agli altri animali anche se sono mediocri, ma i cavalli vogliono somma cura e cibo fino a completa sazietà.

Il bestiame equino si divide in tre categorie:
- una razza più nobile, che offre cavalli per i giochi del circo e per le gare sacre.
- una razza da muli, che per i guadagni che dà con la propria prole si può paragonare alla razza nobile.
- una razza volgare, che produce mediocri maschi e femmine.

Ogni razza si alleva in campi più o meno grassi e ricchi a seconda del suo pregio."


CAVALLI

"Per gli armenti occorrono pascoli spaziosi, in zone paludose, non di montagna, sempre irrigate e mai aride, vuote e libere da alberi, abbondanti di erbe spesse e molli piuttosto che alte. I cavalli della razza volgare si lasciano pascolare insieme maschi e femmine e non si stabiliscono epoche fisse per la monta. 
Alle cavalle generose invece si congiungono i maschi all'equinozio di primavera, perché possano partorire il puledro circa nella stessa stagione in cui l'hanno concepito, passato un anno, e nutrirlo senza tanta fatica, essendo i campi già floridi ed erbosi; infatti esse partoriscono nel dodicesimo mese. Dunque bisogna far di tutto perché proprio in questa stagione si permettano i congiungimenti alle femmine e ai maschi in amore; se lo impedissimo, essi verrebbero stimolati da voglie furiose, tanto che si è dato il nome di ippomane a un veleno che accende nei mortali un desiderio simile alla voglia acuta dei cavalli. È certo che in alcune regioni le cavalle arrivano a tale grado di desiderio, che anche non avendo maschio, figurandosi con assidua ed eccessiva cupidità il piacere venereo, concepiscono dal vento, come gli uccelli da cortile. Virgilio non si esprime in termini troppo liberi quando dice:

«Certo è fra tutti famoso delle cavalle il furore
Quelle l'amore conduce oltre il Gàrgaro, oltre il sonante
Ascanio, e salgono monti e passano fiumi,
appena la fiamma si apprende alle bramose midolle:
e a primavera assai più, che allora ritorna all'ossa il calore.
Stanno rivolte tutte col muso allo Zefìro sugli alti dirupi
e aspirano i soffi leggeri e spesso, del vento
gravide, (mirabile a dirsi) senza altre nozze
...» "


MULI

VILLA CON VIVARIA A SPERLONGA
"Importante nell'allevamento delle mule è di esaminare con cura i genitori della futura prole, maschio e femmina; che se uno dei due non è adatto, poco buono è anche ciò che da entrambi deriva.

Conviene scegliere una cavalla dai quattro ai dieci anni, grande e di bella forma, di membra forti, e molto adatta a sopportare la fatica, perché possa facilmente ricevere e mantenere nel suo ventre il seme estraneo e di genere diverso che le viene imposto, e conferisca non solo buone qualità fisiche della prole, ma anche ingegno.

Infatti non solo è difficoltosa l'entrata dei semi nell’organo genitale, il che produce una certa lentezza di animazione, ma anche il frutto del concepimento viene più lentamente a maturità, e a stento, oltrepassato l'anno, può essere partorito nel tredicesimo mese; ai nati poi rimane più attaccata la pigrizia paterna che la vigoria materna.

Eppure è meno laboriosa la ricerca di cavalle adatte a questo scopo che la scelta del maschio; spesso di scelta sbagliata, perché molti stalloni, bellissimi di aspetto producono poi una razza pessima o per forma o per sesso. Per il padrone è un danno notevole, sia che nascano femmine troppo piccole, sia che nascano molti maschi al posto delle femmine. E ci sono invece stalloni spregevoli d'aspetto, che sono fecondi di semi. Qualcuno dà in eredità ai figli la bontà della razza, ma è poco eccitabile all'amore, perché di indole flemmatica.

Allora gli stallieri, gliene fanno nascere il desiderio mettendo vicina una femmina della stessa razza, perché la natura ha fatto ogni animale molto amante dei suoi simili; poi, quando lo stallone è stato blandito dalla presenza dell'asina ed è ormai divenuto quasi ardente e cieco di passione, sottratta quella che era oggetto del suo desiderio, gli fanno montare la cavalla che non voleva.


ASINELLO COMUNE

Prendendo a parlare del bestiame di piccola taglia, o Publio Silvino, darò il primo posto all'asinello comune e di poco prezzo, quello piccolo dell'Arcadia di cui la maggior parte dei trattatisti di agricoltura vogliono che si tenga il massimo conto quando si tratta di allevare o comprare animali da trasporto: cosa giustissima, perché questo asinello può essere mantenuto anche nelle campagne che mancano di pascoli, essendo una bestia che si accontenta di poco cibo qualsiasi, si nutre anche di foglie e di spini di macchia o semplicemente di un fascio di stoppie che gli si metta davanti: con la paglia, che abbonda in quasi tutte le regioni, riesce a ingrassare. Inoltre tollera perfettamente le angherie e la negligenza di un allevatore inesperto; sopporta benissimo bastonate e penuria, e perciò presta servizio più a lungo delle altre bestie.

Potendo sopportare fatica e fame, si ammala molto di rado. A queste cosi limitate esigenze per il suo mantenimento rispondono servizi numerosi fuori di ogni proporzione, giacché può lavorare con l'aratro una terra leggera come quella della Betica e di tutta l'Africa settentrionale, e trascinare coi carri pesi tutt'altro che piccoli. 
«Spesso», come ricorda il celeberrimo poeta,
«il conduttore del tardo asinello di pomi
poveri i fianchi ne carica, e pietra molare al ritorno
o massa di pece nera dalla città ne riporta
».
Ecco: proprio il lavoro della macina e della preparazione della farina è il lavoro tipico di questi animali. Per cui ogni fondo abbisogna come di una delle cose più necessarie, di un asinello, che, come ho detto, può inoltre trasportare in città molti utensili e riportarli indietro col basto attaccato al collo o sul dorso.


PECORE

Le pecore tengono il secondo posto, subito dopo gli armenti di bestiame grosso; ma se si guarda all'utile dovrebbero tenere il primo. Esse ci offrono la miglior protezione contro il freddo e sono la fonte più ricca di indumenti per il nostro corpo. E non basta: con l'abbondanza del latte e del cacio saziano la gente di campagna e ornano di piacevoli e svariate vivande anche le delicate mense dei ricchi. Forniscono totalmente il vitto ad alcune tribù, che non conoscono il frumento; ed ecco perché i Greci chiamano i Nomadi e i Geti «bevitori di latte».

Le pecore, dunque, benché siano delicatissime, come fa osservare con grande prudenza Gelso, godono di una salute quasi inalterabile e non sono soggette alle pestilenze. Però bisogna sceglierle in modo che si adattino alla natura della zona; è il famoso criterio che bisogna seguire non in questo caso soltanto, ma in tutta l'economia rurale, come ci insegna Virgilio quando dice: «Non tutte posson le terre tutte produrre le cose».

Una regione pingue e pianeggiante sostenta bene delle pecore alte; una regione poco ricca e collinosa vuoi pecore quadrate; se è silvestre e montuosa pecore piccole; dove si hanno prati e campi piani, si tengono molto bene i greggi di pecore coperte. E non solo delle razze, ma anche del colore del mantello ci deve importare. Quanto alla razza, da noi erano stimate le pecore calabresi, apule e di Mileto, e sopra tutte le tarantine. Ora si ritengono più pregiate le pecore della Gallia e fra esse specialmente quelle di Altino; si pregiano anche quelle che popolano i Campi Macri fra Parma e Modena.

Riguardo al colore, il bianco non solo è il più bello ma anche il più. utile, perché dal bianco si possono avere moltissimi altri colori, ma da nessuno si riesce ad ottenere il bianco. Sono anche pregiate per se stesse le lane brune e nere, che danno in Italia le razze di Pollenzo, e nella Betica le razze di Cordova. 

L'Asia dà lane non meno pregiate di colore rossastro, che chiamano eritree. Ma l'esperienza ha insegnato anche a creare varietà nuove in questi animali. Ai proprietari di un serraglio di animali da spettacolo nel municipio di Cadice erano stati portati dalle vicine coste dell'Africa, insieme con altre bestie, dei meravigliosi arieti selvaggi e feroci di un colore bellissimo. Mio zio Marco Columella, uomo di intelligenza pronta, famoso per la sua scienza agricola, ne comperò alcuni e li portò nei suoi campi e dopo averli domati, li congiunse con pecore coperte.

Queste diedero alla luce agnelli di pelo duro, ma del colore paterno, che, congiunti a loro volta a pecore della razza tarantina, progenerarono arieti di lana più fine. I figli di questi, finalmente, ebbero in eredità la morbidezza delle madri e il colore paterno e avito. E Columella diceva che allo stesso modo ogni carattere esterno che vi fosse negli animali selvaggi passava in eredità ai nipoti, benché la selvatichezza si fosse mitigata.


Scelta dell'ariete

Le pecore si dividono in due grandi gruppi: le morbide e quelle a vello irsuto. Nel comprare e nel mantenere le une e le altre, molte avvertenze valgono ugualmente per i due tipi, altre invece valgono solo per la razza più pregiata. Le prime, cioè le avvertenze che si devono tener presenti nel comperare tutti i greggi, si possono ridurre a questo: se ci piace la lana bianchissima, non sceglieremo mai altro che maschi perfettamente candidi; da padre bianco vengono spesso agnelli neri, ma da padre rosso o bruno non deriva mai un capo bianco.


BUOI

RESTI DELLA VIVARIA DI DOMIZIANO PER
L'ALLEVAMENTO ITTICO (Campania)
Non è facile capire i caratteri che vanno cercati e quelli che vanno fuggiti nell'acquistare dei bovi, giacché la struttura del corpo, l'indole e il colore del mantello degli animali variano col variare delle condizioni ambientali e climatiche. Altro è l'aspetto del bestiame dell'Asia, altro quello delle mandrie di Gallia e dell'Epiro. E non solo differiscono fra loro le province, ma l'Italia stessa presenta diversità dall'una e all'altra delle sue parti: la Campania produce per lo più buoi bianchi e di piccola taglia, ma resistenti e adatti alla coltivazione della terra in cui nascono; l'Umbria ha buoi di grande mole, pure bianchi, e ancora un'altra razza rossiccia, pregiata quanto la prima per indole e forze fisiche; l'Etruria e il Lazio hanno buoi tozzi, ma forti sul lavoro; l'Appennino buoi resistentissimi e capaci di sopportare qualsiasi avversità, ma punto belli d'aspetto. 

Le qualità esteriori sono dunque molto varie e addirittura opposte, ma ci sono criteri quasi comuni e precisi che l'aratore deve tener presenti nel comperare i buoi; seguo nell'esporli l'ordine in cui li ha insegnati il cartaginese Magone.

Si devono cercare buoi giovani, quadrati, con membra grandi, corna lunghe, scure e robuste, fronte larga e rugosa, orecchi dritti, occhi e labbra nere, narici camuse e larghe, cervice lunga e muscolosa, giogaia ampia e pendente fino quasi alle ginocchia, petto grande, spalle vaste, ventre ampio e tondeggiante quasi come quello di una bestia pregna, costato lungo, regione dorso-lombare larga, dorso diritto e piano, o anche un poco calante, natiche rotonde, zampe tozze e dritte, piuttosto corte che lunghe, con ginocchia ben fatte, zoccoli grandi, coda lunghissima e pelosa, pelo fitto e breve su tutto il corpo, di colore rossiccio o bruno, molto morbido al tatto.


CAPRE

Siccome ho parlato abbastanza delle pecore, verrò ora alle capre. Questo animale preferisce le macchie e i roveti alla pianura erbosa e si alleva anche nei luoghi montuosi e silvestri, perché ama i rovi, non si fa male fra gli spini e mangia volentieri soprattutto le fronde degli arbusti e degli alberi di macchia. Questi sono il corbezzolo, l'alaterno e il citiso selvatico, e ancora gli arbusti di elce e di quercia, che non sono cresciuti in altezza.

Si ritiene migliore fra tutti il capro al quale sotto le mascelle pendono due specie di piccole verruche, di corpo molto grande, di zampe carnose, di cervice piena e corta, orecchi molli e come pesanti, testa piccola, pelo nero, fitto, brillante e lunghissimo. Anch'esso infatti viene tosato «per far tende ai soldati o vele a chi, misero, naviga». Quando ha sette mesi è già abbastanza adatto alla generazione; di smoderata libidine, mentre ancora è unito alle poppe salta sulla madre e la viola; perciò prima dei sei anni rapidamente invecchia, perché si è già esaurito nei primi tempi della puerizia con lascivia intempestiva. Già a cinque anni si ritiene poco adatto a coprire le femmine.

La capra che si considera migliore è quella che maggiormente somiglia al caprone che abbiamo descritto, purché abbia anche mammella grandissima e produca moltissimo latte. Dove il clima è calmo, ci procureremo bestie senza corna; dove è procelloso e piovoso, sempre cornuto. In qualunque regione tuttavia conviene mutilare le corna al marito del gregge, giacché i maschi con le corna sono sempre pericolosi, per la mania di cozzare.

Non conviene tenere un numero di capre superiore a cento nello stesso chiuso, mentre le pecore stanno benissimo anche in mille nella stessa stalla. Quando si comprano le capre, è meglio prendete tutto un gregge in una volta, piuttosto che formarlo con capi provenienti da vari greggi, per non dover poi separare i gruppi anche nel condurle al pascolo e perché stiano quiete nella stalla, in maggior concordia fra di loro.

A queste bestie nuoce il caldo, ma ancor più il freddo, e specialmente nuoce alle gravide, perché invernati di brina abbondante producono l'aborto. Ne solo queste cause producono aborti, ma anche le ghiande se sono date in quantità insufficiente a saziarle. Perciò non si devono lasciar mangiare alle bestie, se non si può darne loro a volontà.

Consiglio di scegliere quale tempo dell'accoppiamento l'autunno, avanti il mese di dicembre, perché i capretti vengano alla luce all'avvicinarsi della primavera, quando su tutte le macchie sbocciano le gemme e le selve germogliano di fronde nuove. Bisogna scegliere per il caprile un luogo sassoso, oppure pavimentarlo apposta, perché per queste bestie non si stende nessuna lettiera. Il pastore diligente scopa ogni giorno la stalla e non permette che lo stereo e l'orina vi si fermino sino a trasformarsi in fanghiglia, perché la sporcizia è nociva alle capre.

Una capra di buona razza partorisce spesso due e anche tre capretti. Pessime sono le nascite quando ogni due madri nascono tre capretti. Quando questi sono nati, si allevano allo stesso modo degli agnelli, tranne che bisogna frenare e impedire di più l'eccessiva vivacità dei capretti. Inoltre, bisogna dar loro non solo latte in abbondanza, ma anche seme d'olmo, di citiso, di edera o anche cime di lentisco e altre foglie tenere. Dei gemelli, uno solo, e precisamente quello che appare più robusto, si alleva per colmare i vuoti del gregge, gli altri si danno ai mercanti. Non bisogna far allevare i capretti dalle madri che hanno un anno o due, giacché a quest'età possono già partorire, ma prima dei tre anni non debbono allevare.

Alle capre di un anno bisogna subito togliere la prole; a quelle di due lasciarla solo fino a tanto che si possa vendere. Ma non bisogna conservare le madri più di otto anni; a quest'età, affaticate dai continui parti, divengono sterili.

Il pastore di questo gregge deve essere vivo, duro, attento, capace di sopportare la fatica, alacre, audace, tanto da saper andare con facilità fra dirupi e macchie e nei luoghi solitari; e non segua le sue bestie, come per lo più fanno i pastori degli altri greggi, ma le preceda. La capra è un animale molto ardito, che corre avanti, e continuamente quella che corre va subito frenata, perché non si allontani, ma bruchi placida e lenta, e gonfi la mammella di latte e non sia troppo magra.


SUINI

In ogni genere di quadrupedi si sceglie con particolare diligenza il maschio, perché è più frequente che la prole assomigli al padre che alla madre. Per conseguenza anche nei suini bisogna scegliere dei maschi eccellenti per la grandezza di tutto il corpo, ma che siano di conformazione quadrata piuttosto che lunga o tondeggiante, di ventre basso, di cosce molto sviluppate, ma non di gamba o di zoccolo alto, di collo ampio e glandoloso, di grifo corto e camuso. È molto importante e utile che siano salacissimi quando montano. Possono benissimo generare da quando hanno un anno e continuare finché ne hanno quattro; ma anche a sei mesi sono già adatti a fecondare la femmina.

Quanto alle scrofe, si scelgono quelle di corpo molto allungato, ma riguardo alle altre parti del corpo devono essere simili ai verri descritti. Se la regione è fredda e soggetta alle gelate, bisogna scegliere un gregge vestito di setole durissime, dense e nere; ma se è temperata e soleggiata, si può allevare un gregge glabro o anche la varietà bianca cosiddetta da mugnaio. La femmina del maiale si ritiene adatta alla generazione circa fino ai sette anni, ma quanto più è feconda, tanto più celermente invecchia. 

Può già concepire bene quando ha un anno, ma deve essere fecondata nel mese di febbraio, in modo che, dopo quattro mesi di gravidanza, al quinto partorisca, quando già le erbe hanno una certa consistenza e cosi i porcellini godano di un latte ben maturo e forte, e quando saranno svezzati si pascano di stoppie e di semi che cadono dai baccelli. Cosi si fa nelle regioni isolate, dove non conviene far altro che allevare tutta la covata.

Ma nelle aziende suburbane conviene cambiar di porcile il lattonzolo; la madre, non essendo sottoposta all'allattamento, viene risparmiata e può più presto partorire di nuovo. In generale partorirà due volte all'anno.

I maschi si castrano o a sei mesi, quando incominciano ad essere adatti alla monta, o a tre o quattro anni, quando hanno già più volte servito alla riproduzione; in questo modo possono ingrassare. Anche alle femmine si feriscono col ferro le vulve, che vengono chiuse dalle cicatrici; cosi non sono più adatte a generare. Ma non capisco quale ragione possa indurre a far questo, se non la sola penuria di mangime. Infatti, dovunque c'è abbondanza di pascolo, conviene sempre avere prole.

Queste bestie prosperano qualunque sia il genere di terreni in cui si trovano; si allevano bene in montagna e in pianura, con preferenza dei terreni paludosi rispetto a quelli aridi. L'ideale per l'allevamento dei maiali sono i boschi che si vestono di quercia, di sughero, di faggio, di cerri, di elci, di oleastri, di terebinti, di noccioli e di tutti gli alberi da frutto selvatici, come sono il biancospino, il carrube, il ginepro, il loto, la vite, il corniolo, il corbezzolo, il prugno selvatico, il marrobbio e il pero selvatico. Tutti questi alberi, infatti, maturano i loro frutti in epoche diverse e servono a saziare il gregge quasi per tutto l'anno. 

Ma dove c'è penuria di piante, ci volgeremo al pascolo offerto dalla terra, preferendo i pascoli paludosi a quelli aridi, perché i porci potranno scavare tra il fango col grifo e trovare lombrichi e voltolarsi nella mota, cosa graditissima a queste bestie, e immergersi anche, il che, specialmente d'estate, è per essi molto igienico; cosi pure è bene che sradichino le radici dolci delle piante acquatiche, per esempio del giunco d'acqua, del giunco ordinario e della canna degenere, quella appunto che il volgo chiama cannuccia.

Ma anche un campo coltivato rende ottimi i maiali, quando è ricco di erbe graminacee e piantato con alberi da frutto diversi, in modo da offrire loro, secondo le stagioni, mele, prugne, pere, noci, mandorle e fichi. Ciò nonostante non si risparmiano i granai; bisogna spesso gettar loro qualche cosa da mangiare, quando fuori manca il pascolo.

Bisogna dunque riporre grandi quantità di ghiande, tenendole o nell'acqua in cisterne o esposte al fumo su tavolati. Quando il prezzo esiguo lo permette, bisogna dar loro anche fave o altri legumi, e ciò va fatto sempre in primavera, quando i pascoli erbosi o comunque verdi, essendo ancora lattiginosi, generalmente fanno male ai maiali. E ugualmente la mattina, prima che vadano al pascolo, si devono saziare con cibi conservati, perché non mangino l'erba ancora immatura, che provocherebbe diarrea e quindi magrezza.

I maiali non possono essere rinchiusi tutti insieme come gli altri greggi, ma bisogna fare stalletti separati lungo un muro, in cui si rinchiudano le scrofe dopo che hanno partorito e anche quelle gravide. Infatti le femmine in modo speciale, quando sono rinchiuse a gruppi e senza ordine, si sdraiano le une sulle altre e cosi abortiscono. Ecco perché bisogna costruire come ho detto stalletti divisi da muri, che abbiano quattro piedi di altezza, perché la scrofa non possa saltare fuori. Ma non si devono chiudere in alto, perché il guardiano possa verificare il numero dei porcellini.


GALLINE

La gallina da cortile è quella che si vede generalmente in quasi tutte le fattorie; la gallina selvatica, molto simile alla gallina da cortile, è oggetto di caccia da parte degli uccellatori: ne vivono moltissime in quell'isoletta del mar Ligure che i naviganti, allungando il nome del volatile, chiamano Gallinaria; l'africana, che quasi tutti chiamano numidica, è simile alla meleagride, tranne che porta i bargigli e la cresta rossi, mentre nella meleagride sono cerulei.

Dì queste tre razze, si chiamano propriamente galline solo le femmine di quella da cortile; i maschi poi si dicono galli e i mezzi maschi capponi: questo è il nome che si da ad essi, quando si sono castrati per abolirne la libidine. Ne questo succede solo se si tolgono gli organi genitali, ma anche se si bruciano gli speroni con un ferro incandescente e, quando il fuoco li ha consumati, le piaghe prodotte si spalmano di creta da vasaio.

Il reddito che può offrire questo genere di animale da cortile non è affatto da disprezzare, se si adopera la tecnica di allevamento che hanno molto usato quasi tutti i Greci e soprattutto gli abitanti di Delo; però questi, siccome ricercavano corpi molto grossi e spirito battagliero e pertinace, consideravano soprattutto le razze di Tanagra e di Rodi, e cosi pure la calcidica e la medica, che il volgo ignorante, cambiando una lettera, chiama melica.

A noi piace soprattutto la nostra razza nostrana, lasciando naturalmente da parte quella passione dei Greci che preparavano per le tenzoni e i combattimenti qualsiasi volatile molto focoso.
Considera un industrioso padre di famiglia, non già il padrone di un circo di galli battaglieri, a cui capita spesso che un gallo vittorioso, uccidendo il suo, gli porti via tutto il patrimonio che egli aveva rischiato nel duello.

Chi dunque vorrà seguire i miei insegnamenti, deve prima di tutto sapere quante galline riproduttrici procurarsi e di quale tipo; poi come tenerle e nutrirle; poi in quali tempi dell'anno conviene avere da esse i pulcini; finalmente fare in modo che le uova vengano ben covate e si schiudano; e in ultimo procurare che i pulcini siano bene allevati.

Di tali cure e di tali occupazioni infatti si compone l'allevamento dei polli, che i Greci chiamano ornithotrophìa. Ora, la quantità di galline che è bene procurarsi è di duecento capi al massimo, quanti cioè possono impegnare l'attività di un solo custode; quando poi si lasciano libere, si facciano custodire da una attiva vecchietta o da un fanciullo, per impedire che vengano rubate da qualche ladruncolo o dagli animali selvatici.

Bisogna considerare che conviene comperare soltanto galline molto feconde; siano poi di piumaggio rossiccio o scuro e abbiano penne maestre nere; anzi, se è possibile, si scelgano tutte di questo colore o almeno di colori che ad esso si avvicinano : se non altro si evitino quelle bianche, le quali in generale, sono delicate e meno vivaci, non solo, ma difficilmente si mostrano feconde. Inoltre, essendo molto visibili per la bianchezza che le fa riconoscere da lontano, molto spesso sono preda di sparvieri e di aquile. Le galline riproduttrici siano dunque di colore rossastro, quadrate, pettorute, con testa grande, con la piccola cresta diritta e scarlatta.

(Columella - "DE RUSTICA”)


PLINIO - Naturalis historia - X - 48

Adesso fra questi [galli] alcuni nascono soltanto per frequenti lotte e combattimenti - grazie ai quali hanno nobilitato anche la loro patria, Rodi o Tanagra; il secondo posto è stato dato a quelli della Media e di Calcide -, cosicché la porpora romana rende tanto onore a un uccello del tutto meritevole.

Quindi il pollo corpulento e dalle cinque dita, nonché dalle ottime caratteristiche riproduttive tanto apprezzato da Varrone e Columella, era una razza diversa da quelle allevate e apprezzate in Grecia. Credo si possa affermare con discreta sicurezza che si trattava di una nuova razza di importazione: la Dorking.

Se Varrone e Columella concordano sul fatto che le galline migliori sono quelle corpulente, è unanimemente riconosciuta alla Dorking la caratteristica di avere un corpo massiccio, ben diverso da quello slanciato di una Livorno o di un qualunque altro pollo mediterraneo classico. Non sono certo corpulenti come una Dorking , anzi sono l’opposto, sia il gallo del mosaico romano del I secolo ac conservato a Glasgow, sia i due galli combattenti del mosaico romano del I secolo dc riprodotti nelle immagini seguenti.





ALLEVAMENTO DI ANIMALI PER GLI SPETTACOLI


DAMNATIO AD BESTIA

La prima citazione di questa condanna risale al 167 a.c., e già era comunque applicata dagli etruschi ai prigionieri di guerra importanti. Si sa pure che dopo la vittoria su Perseo nel 167 a.c., Lucio Emilio Paolo fece schiacciare da elefanti i disertori dell’esercito romano appartenente a nazioni straniere.
Ma sulle condanne dei disertori di guerra ci sono varie notizie: Flavio Giuseppe narra che Tito inviò prigionieri di guerra giudaica in tutte le province perchè morissero per il ferro e per le bestie.

In un panegirico di Costantino si dice inoltre che un numero enorme dei prigionieri Bructeri fu ucciso, l’altro condannato durante gli spettacoli. Queste esecuzioni diedero origine forse alla Venatio, cioè lo spettacolo circense della caccia alle bestie. Pertanto sorse il problema della cattura degli animali esotici.

Nei mosaici di Piazza Armerina compaiono varie cacce agli animali esotici, dallo struzzo agli elefanti, nel mosaico di Cartagine si rappresenta una gabbia per animali con i bordi rinforzati da sbarre inchiodate. Nel mosaico dell’Esquilino, datata agli inizi del IV secolo, appare una gabbia con un pannello aperto e una rampa d’accesso.


LA CATTURA E IL TRASPORTO DEGLI ANIMALI ESOTICI

Non solo venivano catturati gli animali feroci, ma pure molti altri da esporre nei circhi in quanto sconosciuti ai romani. Dai mosaici di Villa Armerina e da quelli delle ville romane in Tunisia e Algeria sappiamo che per la caccia venivano formati grandi recinti chiusi con reti tese tra alberi o pali, nascoste con erbe e fronde, entro cui i battitori con urla e frastuoni spingevano gli animali. Intorno ai recinti si aprivano diverse gabbie entro cui gli animali venivano spinti con fuochi o cani.

In genere questi animali venivano poi fatti combattere tra loro o con gli uomini e una volta uccisi quelli commestibili venivano offerti nei banchetti, il che ne provocò una richiesta per offrirli nei banchetti più ricchi e ricercati. Altri invece andavano a far parte dei giardini e degli stagni privati come motivo ornamentale, come i pappagalli, i cigni, i pavoni, le tartarughe ecc.

Pertanto molti imprenditori, detti in genere lanisti, termine che verrà poi ristretti solo agli imprenditori dei giochi gladiatorii, si recavano in Asia e soprattutto in Africa per reperire gli animali feroci e non: leoni, tigri, cervi, gazzelle, coccodrilli, leopardi, struzzi, cinghiali, elefanti, zebre ecc.
In Africa esistevano imprenditori che fornivano ai richidenti dei cacciatori ben addestrati, contraddistinti da un nome, un numero e un simbolo. Tra i più celebri ricordiamo i TELEGENII, contraddistinti dal numero tre e dal simbolo di un crescente lunare su asta. Il loro dio protettore era Dioniso. C'erano poi i PENTASII, con il numero cinque e una corona a cinque punte.

Sappiamo che Cicerone, governatore in Cilicia, aveva rifiutato al suo amico Celio un aiuto non correttamente richiesto. Dalle lettere si comprende che le comunità locali potevano porre il veto alla caccia nei loro territori se non c'era il consenso degli abitanti, anche perchè il costo del trasporto degli animali era a carico loro.

Dopo averli reperiti occorreva trasportarli, ma il viaggio poteva durare mesi. Circa la metà ne morivano durante il viaggio per malattie o errori di nutrizione o altri motivi, con grandi sofferenze per gli animali. Il trasporto su terra si effettuava su carri trainati da buoi o muli, ma gran parte del percorso era via mare e su fiume. 

La mancanza di una flotta mercantile di stato obbligava all’impiego di navi di proprietà privata, e probabilmente l’esportazione di animali dall’Africa a Roma era in gran parte gestita da compagnie africane. Spesso i magistrati incaricati dell’organizzazione dei giochi si rivolgevano ai governatori di province per gli acquisti.

Il periodo della navigazione inoltre era limitato ai sei mesi primaverili ed estivi. Infine, durante la notte, la navigazione s’interrompeva o rallentava. Nel suolo italico gli animali sbarcavano ad Ostia e a Pozzuoli. Per il trasporto dalla foce a Roma si usavano le Naves Caudicarie trainate, lungo ampie strade appositamente costruite lungo la riva destra, da pariglie di buoi, ma le rive del fiume, a partire dalla zona della Magliana, erano costellate da porti e approdi.

Il soggiorno nelle città in cui passavano i convogli doveva, per legge, essere limitato a pochi giorni.
Ciononostante si verificavano tremendi abusi, perchè mostrare gli animali sconosciuti faceva spettacolo e dava soldi. Nel 417 una carovana, formata dal dux del limes dell’Eufrate, rimase addirittura tre o quattro mesi a Hierapolis.



LE TECNICHE

Come narra Plinio il Vecchio, lo sbarco di un elefante era un’operazione difficile e pericolosa, e si effettuava, almeno in India, mediante l’uso di esemplari addomesticati, mentre i tori erano trasportati senza gabbie. Oppiano riferisce che il leone si rincorreva a cavallo, spingendolo verso una rete robusta, sorvegliata da tre assistenti.
Eliano riferisce che in Mauretania i leopardi si catturavano con una trappola posta in una capanna di pietre, in cui i felini entravano spontaneamente, adescati dalla carne, legata ad una corda e collegata ad una rete.
Gli orsi venivano cacciati inseguendoli e stanandoli con i cani.


LA COLLOCAZIONE

Giovanni Crisostomo nel IV sec. d.c. informa che i vivaria dovevano sorgere obbligatoriamente lontani dal senato, dalle aule di giustizia e dal Palatium. Ma non stavano in zone disabitate, sia perchè abbiamo testimonianze di molti incidenti in cui gli animali fuggiti venivano inseguiti nelle le città, sia perchè a Roma si sa dell'esistenza di tre vivaria.

Il più antico nel Campo Marzio presso i navalia, porto militare risalente al 338 a.c. Il secondo fu l’anfiteatro Castrense, il terzo era il vivarium delle corti pretoriane e urbane, presso i Castra Pretoria, probabilmente il vivarium imperiale.  Gli imperatori avevano infatti dei ludi, cioè caserme-scuola proprie. Ma potevano essercene altri di cui non abbiamo citazioni.


"Gli avanzi magnifici di arcuazioni a grandi massi di travertini, che si osservano sotto il Convento de' SS. Giovanni e Paolo sul Celio vennero un tempo giudicati erroneamente per essere appartenuti alla Curia Ostilia. Riconosciuta falsa questa opinione congetturarono altri, che quei resti fossero degli edifici di Claudio, e ciò potrebbe essere, giacchè in quel dintorno era il famoso tempio erettogli da Agrippina, distrutto da Nerone, e nuovamente riedificato da Vespasiano. Ora però vuolsi generalmente attribuire quella fabbrica al Vivaio, e serraglio di belve feroci, che Domiziano edificò per uso del vicino anfiteatro Flavio.

A comprova di ciò si adduce l'aver trovata negli scavi una quantità di ossa di bestie non indigene del nostro suolo, ed una strada sotterranea a communicazione fra questo monumento e l'anfiteatro ripiena ancor essa di ossa consimili. Comunque ciò possa in qualche parte recare dubbiezza, è fuori d'ogni dubbio però, che quegli avvanzi sono d'una costruzione bella, solida, ed imponente per meritare l'attenzione di chiunque visita le romane antichità, ancorchè non possa esser persuaso che l'edificio sia servito ad uso di serraglio di belve, il quale esser dovette ivi presso, ma più in basso."


LE VENATIONES

Così erano chiamati gli spettacoli nel circo con gli animali feroci e non, esotici e non. Si sa ad esempio che gli edili curuli Scipione Nasica e Cornelio Lentulo nel 169 a.c. organizzarono uno spettacolo con 63 belve africane e 40 orsi ed elefanti.

Silla organizzò una caccia con cento leoni.
Nel 46 a.c. Cesare organizzò una venatio che durò cinque giorni con 400 leoni, alcuni tori e una giraffa. Poi cinquecento uomini che affrontavano 20 elefanti, ciascuno montato da tre uomni.
Tito per l’inaugurazione del Colosseo impiegò gru ed elefanti, altre cacce condotte da donne di basso rango, e una naumachia con tori e cavalli.
Antonino Pio utilizzò: elefanti, iene, leoni, tigri, rinoceronti, coccodrilli e un ippopotamo.
Diversi imperatori scesero nell’arena come venator, a cominciare da Commodo. Svetonio vanta l’abilità di Domiziano. Plinio quella di Traiano. 

Il primo spettacolo di caccia (venatio) venne dato nel 169 a.c.; successivamente gli imperatori trasformarono le venationes in uno spettacolo di esclusiva competenza dello stato, e quindi anche a spesa pubblica. La scomparsa dei giochi e degli spettacoli avvenne gradualmente e le venationes comunque resistettero più a lungo fino al 523 sotto Teodorico.

 Romolo e Remo, come narra Livio, andavano a caccia per procurarsii il cibo quotidiano. Prima la carne era di allevamento o procurata con le tagliole dai contadini o dagli schiavi con le frecce, poichè la carne era comunque un piatto raro nei tempi più antichi, basandosi l'alimentazione più su cereali, legumi e formaggi.
Con l'impero romano la cucina si raffinò e la caccia per motivi alimentari veniva affidata a servi e gregari con il compito di procurare selvaggina per la tavola del padrone. Per qualcuno invece divenne una passione da svolgere personalmente.

Dall’inizio del II secolo a.c., con la sottomissione della Grecia, si diffuse il gusto per la venatio cioè per la caccia, o ars venatoria, non solo da guardare ma da eseguire personalmente.
L’attività si diffuse nella classe senatoria anche con un generale sentimento di disapprovazione, perchè la caccia era considerata un passatempo frivolo con inutili sforzi fisici e poco ingegno, ma gli imperatori spagnoli Traiano e Adriano andavano pazzi per la caccia, visto che la Spagna, come la Gallia e tutto l’Oriente, disponeva di enormi zone venatorie ricche di selvaggina.

Il giovane Adriano a quindici anni fu mandato per il servizio militare nella sua terra natale in Spagna, dove si dedicò - si racconta nella Historia Augusta - «con tanta passione alla caccia da giungere a riceverne biasimo».

Dal II sec. d.c., la caccia conquistò l’aristocrazia romana,  praticata prevalentemente nelle province dell’impero, abbondanti di selvaggina. Ogni caccia cominciava con il sacrificio a Diana, dea della natura, regina dei boschi e dei monti, protettrice degli animali, ma anche della vita degli uomini. Il cacciatore pregava Diana per ottenere assistenza nella caccia e, per non incorrere nella sua ira, le prometteva solennemente una parte della preda. Narra Polibio  che Scipione l’Africano fosse un appassionato cacciatore, avendo imparato l'arte nella Macedonia. Seneca la considerava una scuola di coraggio e resistenza.

«Meraviglioso come lo spirito sia eccitato dall’attività e dai movimenti del corpo; poi i boschi tutt’intorno, la solitudine e lo stesso perfetto silenzio che la caccia esige, favoriscono una grande eccitazione del pensiero», scriveva Plinio il Giovane raccontando una sua esperienza, quando aveva catturato tre cinghiali. Vero però che Plinio faceva una pseudo-caccia, si metteva tranquillamente seduto presso le reti, meditava, scriveva e solo per caso i cinghiali s’impigliavano nelle maglie.
Sallustio la considerava alla stregua dell’agricoltura. Durante l'impero anche le donne presero il gusto della caccia cimentandosi con gli uomini sia con l'arco che col coltello.

La diffusione della caccia ben compare nei sarcofagi di marmo, scolpiti con scene mitologiche e, dall’età di Adriano in poi, i monumenti funebri più pregiati dei ricchi. Le decorazioni dei sarcofagi mostrano spesso  miti greci connessi alla caccia, come la caccia di Meleagro al cinghiale calidonio, di cui si sono conservati quasi duecento esemplari soltanto a Roma. Il successo nella caccia equivaleva, quasi, alla gloria alla vittoria in guerra. Nei sarcofagi del III sec. d.c., viene rappresentata la caccia al leone, dove dietro al cacciatore a cavallo con il giavellotto sollevato, si trova Virtus, elmata, e con un seno denudato, Dea del valore e dell’eroismo. In genere però la caccia al leone fino ad Onorio fu riservata all’imperatore.

Così l’arte ufficiale, nei rilievi di stato e nelle monete, si ispirava spesso alle scene venatorie, mettendo in primo piano il coraggio e il valore dell’imperatore.L’apertura della stagione della caccia cadeva il 15 Agosto: cacciatori e cani partecipavano alla festa di Diana Nemorensis. Si cacciava alle prime luci dell’alba con regole precise, la caccia preferita era la grande battuta, a cavallo oi a piedi, aizzando i cani contro l’animale e uccidendolo alla fine con il giavellotto.  Non a caso la Dea Diana era seguita dal cirneco, il cane da caccia nativo della Sicilia. Era proibito cacciare nei campi coltivati ed entro un determinato raggio attorno alle città.




ALLEVAMENTO ANIMALI SELVATICI O SEMISELVATICI

I ricchi romani possedevano delle riserve, chiamate vivaria, dove veniva allevata la selvaggina di grossa taglia, come il cinghiale, la cui carne era la più ricercata e la più costosa, ma anche caprioli, cervi, daini, asini selvatici e tassi. Tra la selvaggina di piccola taglia si allevava la lepre, il coniglio, il ghiro, il porcospino, l'oca, l'anatra, il pavone, i colombi e la lumaca.

Varrone infatti raccomanda di allevare di preferenza il pollame e la cacciagione di maggior pregio: oche e polli, fagiani e pavoni, gru, marmotte, cinghiali e ogni altra specie di selvaggina.
Sempre Varrone (116-27 a.c.) racconta dei cosiddetti  leporaria o  leporarium che erano delle aree recintate con muri di pietra dove si effettuavano i primi allevamenti per conigli in gabbie realizzate attraverso una semplice recinzione del terreno, le cosiddette leporaria, all'interno delle quali venivano rinchiusi i conigli insieme con lepri ed altri animali selvatici.

C'erano poi le uccelliere, in parte perla vista e il canto degli uccelli, in parte per cibarsene. Lucullo nella sua villa del Tuscolo aveva una grande voliera dove alloggiava un triclinium estivo, entro al quale lui poteva godere della vista degli uccelli vivi nella voliera e di quelli cotti sul vassoio (evidentemente non era dotato di molta sensibilità).

Varrone specifica che essendo i pavoni maschi molto più belli dei pavoni femmine, se l'allevamento era fatto per diletto (delectatio) occorreva porre diversi maschi e poche femmine, se invece l'allevamento badava al guadagno (frusctus) occorrevano pochi maschi e molte femmine.
Anche la faraona era nota già agli antichi romani, anche se molto meno diffusa del pollo.

Questa gallina, conosciuta come "gallina Africana" o "gallo della Numidia", è citata anche nelle pagine degli antichi scrittori latini. Varrone nel Rerum rusticarum ne parla come di una specie rara a Roma, specie talmente rara nell'Urbe, da essere venduta a caro prezzo. Sempre Varrone racconta che alla faraona veniva riservato un trattamento speciale: più che nelle cucine, per fini gastronomici, addirittura si trovava nei salotti, come animale da compagnia.
Infine c'era l’allevamento dei pesci, nelle apposite pescherie costruite nelle ville in riva al mare.



ALLEVAMENTO ITTICO


LE VARIETA'

Tra i pesci più ambiti dai romani c’erano l’orata, il luccio, la sogliola e la triglia, ma erano molto apprezzati anche i pesci allevati nelle piscine: nurene, cefali, scampi, seppie, polpi, astici, aragoste e molluschi vari.
Tra i molluschi il più richiesto era l’ostrica e molti personaggi benestanti possedevano degli allevamenti per coltivare personalmente le ostriche.
I romani si alimentavano di pesci di fiume, d’acqua dolce. Il pesce marino non arrivava sulle mense per la difficoltà di mantenere fresco il prodotto durante il trasporto, per cui ebbero necessità di stagni e piscine
per l'allevamento ittico.
Uno dei primi allevamenti ittici della storia si trovava nelle acque dell'isola di Ponza, dove i Romani avevano creato un murenario per soddisfare le preferenze gastronomiche degli imperatori che vi si recavano in vacanza.


IN ERA REPUBBLICANA

La pratica dell’acquacoltura nell’antica Roma ebbe inizio molto prima sell’età imperiale. Scriveva, infatti, nel I sec. d.c. Lucio Giunio Moderato Columella:


Ma non voglio omettere questa trattazione, perché i nostri antichi hanno tenuto in onore l’allevamento dei pesci. Chiudevano in acqua dolce anche i pesci di fiume, nutrivano il muggine e lo squalo con tutta la cura che ora si mette nell’allevare la murena e la spigola. Infatti, l’antica discendenza campagnola di Romolo e di Numa voleva che la vita in campagna, paragonata con quella in città, non risultasse manchevole rispetto a quella in nessun genere di ricchezze. E perciò non soltanto popolavano le piscine che avevano costruito artificialmente, ma riempivano anche i laghi fatti da Madre Natura con le uova raccolte nel mare. Così il Velino, così il Sabatino, così anche il lago di Bolsena e il Cimino generarono spigole e orate e tutte le altre razze di pesci che tollerano l’acqua di lago. Poi l’età seguente abbandonò questa cura ed il lusso dei ricchi arrivò a chiudere il mare e a imprigionare lo stesso Nettuno”,

(L.G.M. Columella De Re Rustica, VIII, 16).

Lucius Sergius Orata (secondo alcuni così chiamato per la passione per le orate) fu fra i primi a dedicarsi all'acquacoltura con un allevamento di ostriche, attività che gli procurò grandi guadagni, nel 90 a.c. presso Baia. Si dice ancora che sia stato il primo ad aver rivendicato la superiorità dei mitili provenienti dal Lago di Lucrino, nonostante in età imperiale le ostriche campane fossero stimate inferiori a quelle dalla Britannia.

Nel I sec. a.c. a causa del moto bradisismico discendente, irrompendo le onde del mare nel lago e danneggiandone gli impianti, gli allevatori di Lucrino richiesero al Senato Romano di intervenire. Le opere di restauro e di soprelevazione dell'istmo che separava il lago dal mare (Via Herculea) furono realizzate da Giulio Cesare, e magnificate da Virgilio.


IN ERA IMPERIALE

Durante l’Impero Romano, soprattutto tra il I e III sec. d.c., l’allevamento dei pesci divenne indispensabile non solo per le richieste delle mense dei patrizi, ma soprattutto per il depauperamento del pesce tanto da dover ricorrere al ripopolamento delle coste tirreniche, per diffondere le specie aldifuori delle aree originarie, facilitando le catture ed il trasporto verso le mense dei patrizi, ma anche facendone una fonte di l'esportazione.

Gli allevamenti di pesci ed ostriche e molluschi, molto redditizi, proseguirono per tutto l'impero romano, come attestano le famose fiaschette vitree puteolane del IV sec., su cui sono incisi i principali monumenti della costa che va da Pozzuoli fino a Miseno. Soprattutto le fiaschette conservate a New York, Varsavia ed Ampurias che mostrano gli impianti di allevamento delle ostriche coi reticoli di palafitte in pali di legno, a cui sono sospese delle corde su cui sono infilate le ostriche; la scritta OSTRIARIA conferma la scena.

Scrive infatti Plinio il Vecchio nel “Naturalis Historia” riguardo allo Scarus cretense, specie assai ricercata e all’epoca, come oggi, diffusa solo nel Mediterraneo orientale:

Ora parliamo del pesce pappagallo, che si dice sia l’unico pesce che rumina e si ciba di alghe e non di altri pesci, che è diffuso soprattutto nel mare Carpatico, intorno all’isola di Karpathos, che non oltrepassa mai spontaneamente il promontorio della Troade, pertanto, durante il periodo di Tiberio Claudio, l’ammiraglio Optato, dopo averli catturati nel loro areale, li lanciò tra la foce del Tevere e la costa campana, per restituirli al mare una volta catturati, dopo circa cinque anni di utilizzo.
In seguito furono ritrovati sulle coste italiane, dove precedentemente non erano stati catturati, la gola si mosse verso altri gusti e dette al mare un nuovo abitante, tanto che nessuno a Roma si meravigliò perché sembravano animali esotici. Apprezzato in cucina il fegato delle musdee, che, incredibile a dirsi, popolano come i loro simili marini, il lago Brigantino sulle Alpi Retiche”,

(Plinio il Vecchio, “Naturalis Historia”, IX, 62-63).

I Romani nutrivano con cura le murene, insieme ad altre specie marine, alcune delle quali  servivano a nutrire le murene stesse. Columella, infatti, negli ultimi due capitoli (De piscium cura e De positione piscinae) del “De Re Rustica” fornisce ampi consigli sulla costruzione dei vivaria:

Riteniamo ottimo uno stagno posizionato in modo che l’onda che entra allontani la precedente e non le permetta di rimanere all’interno del bacino. Infatti, una vasca così è molto simile al mare aperto, che agitato dai venti, si muove e non può scaldarsi, poiché l’onda fredda risale dal fondo alla superficie. Tale vasca, dunque, viene scavata nella roccia, peraltro assai rara, o costruita sulla costa con calcina di Signa”. 

ALLEVAMENTO ITTICO AD ALMUNECAR (Spagna)
Vitruvio Pollione nel trattato di arte edificatoria “De Architectura” (II, 6) consiglia i materiali da utilizzare per la costruzione di strutture sotto la superficie dell’acqua, cioè vasche:

Esiste un tipo di polvere che produce cose mirabili. Si rinviene nella zona di Baia e nei campi dei villaggi disseminati sulle pendici del Vesuvio. Tale polvere, mescolata con calce e pietrisco non solo conferisce solidità maggiore a tutte le costruzioni, ma anche quando vengono costruite dighe in mare, sotto l’acqua si rassoda…e lì si origina un tufo compatto e privo di umidità, pertanto, tre sostanze di simile natura originate dall’intensità del fuoco, si combinano in una mistura, subito aderiscono con l’umidità e una volta indurite solidificano e né le onde, né la forza dell’acqua le può distruggereQuindi è necessario fissare casse sul fondale costruite con pali di rovere e fissate con catene. Negli spazi tra le casse il fondale deve essere ripulito e livellato con piccole travi poste trasversalmente rispetto a quelle delle pareti delle casse e lo spazio tra le travi va riempito con pietrisco sminuzzato nel mortaio miscelato come riportato sopra (con pozzolana nella proporzione di 1: 2), infine si erigano le murature nello spazio fra le casse”.

Anche Varrone descrisse l’architettura dei vivaria:
Infatti, come Pausia e tutti gli altri pittori della sua scuola hanno tavolozze quadrettate, dove trovano posto i colori più disparati, così loro hanno le piscine divise in compartimenti, dove tengono separati i pesci di specie diverse… riguardano più l’estetica che l’economia, e, più che riempirla, vuotano la borsa del signore”.

(Varrone, “De Re Rustica”, III, 17, 2).

L.G.M. Columella, invece, descrive con dovizia di particolari i vari accorgimenti idraulici che devono essere messi in atto per un idoneo ricambio d’acqua. Anche se non era stato ancora dimostrato scientificamente, gli antichi avevano già intuito l’importanza di mantenere sempre l’acqua in movimento con un rapido ricambio, per un’adeguata concentrazione di ossigeno: “Facilius enim vetus summovetur unda, cum quaecumque parte fluctus urget per adversa patet exitus” (“Pertanto sia rimossa con facilità l’onda vecchia, in modo che da qualunque parte arrivi l’onda, trovi una via d’uscita dalla parte opposta”).

Anche se Columella descrive i vari tipi di fondale in relazione alle varie specie, ben più ampia rispetto agli altri pesci è l’attenzione che rivolge alle murene, per le quali raccomanda la costruzione di vasche ricche di anfratti e ripari, dunque quanto più simili al loro ambiente naturale. Inoltre, data la voracità di questi animali, non devono venire in contatto con altre specie. 
Secondo Columella, la stessa rabbia che colpisce i cani, colpisce anche le murene, il che giustificherebbe la tendenza a divorarsi anche tra loro:

“Sed utcumque fabricatum est, si semper influente gurgite riget, habere debet specus iuxta solum, eorumque alios simplices et rectos, quo secedant squamosi greges, alios in cocleam retortos nec nimis spatiosos, quibus muraenae delitiscant, quamquam nonnullis commisceri eas cum alterius notae piscibus non placet, quia si rabie vexantur, quod huic generi velut canino solet accidere, saepissime persequuntur squamosos plurimosque mandendo consumunt”
(“Tuttavia, comunque sia costruita, se l’onda riempie d’acqua irrompendo, deve avere divisori vicini al fondo di cui alcuni lisci e rettilinei, nei quali si appartano i branchi di pesci, altri ritorti ed angusti, nei quali possano rintanarsi le murene, poiché è opportuno che non si mescolino con pesci di altre specie, dal momento che, se vengono colpite dalla rabbia, che colpisce questi animali allo stesso modo dei cani, spessissimo inseguono quasi tutti gli altri pesci e li uccidono mordendoli”). 

La murena era uno dei pesci più ricercati,anche perchè era l’unica specie che sopportava lunghi viaggi senza problemi di sopravvivenza:
Sola ex pretiosis piscibus muraena, quamvis Tartassi pelagi, quod est ultimum, vernacula, quovis hospes freto peregrinum mare sustinet
(“La murena è l’unica fra i pesci pregiati, che pur essendo originaria del mare di Tartesso, sopporta acque esotiche, lontane dalle sue origini senza problemi”)

(L.G.M. Columella, “De Re Rustica”, VIII, 16).


BIBLIO

- Carlo Carena - Lucio Giunio Moderato Columella - L'arte dell'agricoltura e Libro sugli alberi - Torino - Einaudi - 1977 -
- Robert Maxwell Ogilvie - De vita Agricolae - 1967 -
- Plinio il Vecchio - Naturalis historia - IX -
- Varrone - De Re Rustica - III -
- Scriptores rei rusticae, seu Cato, Varro, Columella, Palladius Rutilius Taurus, Venetiis, apud Nicolaum Ienson - editio princeps - 1472 -


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