TOMBA DEI CAMPI ELISI




A pochi metri di distanza dal Colombario di Via Portuense, è stato rinvenuto un altro piccolo colombario da 15 nicchie (nella Tomba dei Dipinti), e, di recente, nella vicina Necropoli di Vigna Pia è stato rinvenuto un terzo colombario. Altri colombari si trovano, sempre sulla Via Portuense, nella Necropoli dell’Isola Sacra.

Il piccolo colombario detto Tomba dei Campi Elisi, o Tomba dei dipinti, risale al II sec. d.c., in esso le pareti affrescate raffigurano le beatitudini dei giusti nel paradiso pagano.

Tutto si spiega capendo che si tratta di due ragazzi morti prematuramente, a cui i genitori disperarti dedicarono una tomba con un aldilà pieno di beatitudini.

I giovani compaiono raffigurati con fedele realismo in medaglioni all’interno di tabernacoli, e vengono evocati più volte nelle scene pittoriche: il passaggio del fiume Lete e le quattro scene dei giochi beati (il plaustrum, gli astragali, la moscacieca, il trigon).

Invece i genitori compaiono nella scena di mestizia e nel banchetto dei giusti. Completano gli affreschi la coppia di pavoni, la coppia di caproni, le quattro stagioni. La tomba è scavata nel tufo e presenta 26 nicchie, sei fosse e due sarcofagi. È stata scoperta nel 1951. Fortunatamente non ha seguito la sorte di tanti colombari depredati e abbandonati le cui decorazioni sono state lasciate a sbiadire nel tempo. Questa volta invece la tomba è stata stata intagliata e trasportata al Museo Nazionale Romano.




LA "MORS INIQUA"

Così la chiamano i Romani, una morte pessima, maledetta in quanto ingiusta, perchè i genitori non dovrebbero mai sopravvivere ai propri figli. All'epoca la mortalità dei piccoli era molto frequente, ma una volta giunti presso la pubertà si poteva avere una certa tranquillità sulla loro sopravvivenza: il peggio era passato e i genitori non si erano prodigati invano.

Il modo di questi genitori di tentare di superare questo struggente dolore è quello di edificare questa tomba sulla Via Portuensis, incaricando pittori a noi ignoti una complessa e toccante sequenza di dieci scene affrescate.

Mentre però le ultime tre scene si rifanno all’iconografia funeraria tradizionale (i pavoni, i caproni, le quattro stagioni), le prime sette descrivono, con la semplicità delle immagini, e pure della fede, o della speranza, come è fatto e come funziona il paradiso pagano.

Esse descrivono, con grande realismo, la vita spensierata dei due bambini (fatta di giochi, della costruzione delle prime relazioni sociali, di esplorazione del mondo), e dei genitori (dal consolidato posizionamento sociale); e tramandano così ai posteri il messaggio consolatorio che ai giusti, nel paradiso pagano, è consentito continuare a vivere nel proprio tempo migliore.

Ma la cosa molto particolare e molto struggente di questa tomba è che fu fin dall'inizio munita di due finestrelle, poste ai lati della porta d’ingresso, attraverso le quali i passanti della Via Portuensis avrebbe potuto ripercorrere la storia dei due giovani e insieme contemplare per immagini la bellezza del paradiso.

Scrive il sovrintendente Aurigemma, che negli Anni Cinquanta studiò la tomba: 
« Nei Campi elisi regna eterna primavera. Ogni dolore è ignoto. Ignota è la vecchiaia. La vita beata attende i giusti dopo la morte. Chi vi perveniva conservava l’età in cui aveva goduto la maggiore felicità ». 

I RITRATTI DEI DUE FIGLI MORTI

I CAMPI ELISI

I Romani ritenevano insomma che le anime dei giusti godessero nell’aldilà di uno stato di grazia e di eterna giovinezza, con un'età fissata a quella passata che avevano goduto di più. Così ì bambini avrebbero potuto vivere un mondo spensierato insieme ai genitori dell'epoca, cioè giovani e allegri, e i genitori avrebbero potuto alla loro morte rientrare in quel mondo di sogno negato dalla morte vivendo ogni attimo della sana crescita dei figli.

Per i romani i Campi Elisi era un luogo ameno e verdeggiante, con freschi boschi e ampie vallate colme di fiori, con trasparenti ruscelli e animaletti erbivori, mai toccato da neve o pioggia, né dal freddo, ma con eterni soffi di zefiro, rinfrescanti per gli uomini, mandati da Oceano. Per meritarsi questa meraviglia non ci si doveva immolare nè fisicamente nè spiritualmente ad alcuna divinità. Era sufficiente onorare la patria, gli Dei, la famiglia senza rinunzie dolorose o dediche smisurate agli Dei.

Mentre le religioni monoteiste patriarcali chiedono ai fedeli una vita dedicata alla divinità, nella preghiera continua, nelle infinite regole imposte nelle feste e sul cibo e su continue rinunce per dimostrare a Dio che "Lo temiamo e lo amiamo", nel politeismo gli Dei sono molto più permissivi, purchè si assolvano i doveri verso la patria scendendo in armi se occorre, purchè ogni tanto si compia un sacrificio agli Dei, e purchè ci si comporti bene con la famiglia e magari pure con la propria gens, i Campi Elisi sono assicurati. I peccati sono solo quelli gravissimi, manca l'ossessività delle religioni monoteiste.

Il fatto di rivivere il periodo più gioioso della vita coincide un po' con visione della morte da parte dei Tibetani, i quali ritengono che successivamente alla morte noi possiamo costruirci il mondo che vogliamo, ma questo non è terno, perchè presto o tardi scompare  e noi siamo chiamati ad una seconda morte, che può essere beatifica o orribile, a seconda della consapevolezza acquisita nel vissuto (per i tibetani la malvagità è giustamente figlia dell'ignoranza), consapevolezza che determinerà poi la nostra distruzione o la prossima reincarnazione in luoghi più o meno piacevoli.

Ambrose Bierce definì ridicoli i Campi Elisi:
"Non c'è niente di più ridicolo di questa rozza concezione. Al posto di nubi dorate, arpe, corone e grandi troni bianchi, c'erano campi, boschetti, ruscelli, fiori e templi. I Campi Elisi sono un esempio manifesto della congenita inferiorità dell'immaginazione pagana nei confronti della cultura cristiana."
Diciamocelo, vivere una vita tra le nuvole deve essere un incubo, un po' come vivere in mezzo al cemento ma con la musica al posto del chiasso. Chi non ama la natura non ama niente e nessuno.

FOTO CHE RITRAE LA TOMBA DEI CAMPI ELISI PRONTA PER LA MUSEALIZZAZIONE


I RITRATTI DI FAMIGLIA

La prima scena, chiamata I ritratti di famiglia, riporta il nucleo familiare al momento della morte dei due giovani. Si compone di tre parti: due medaglioni circolari e la scena di mestizia.

I due medaglioni circolari sono dei ritratti, di accuratissimo realismo fisiognomico, dei due giovani defunti: un maschio e di una femmina. I medaglioni sono posti nei timpani di due tabernacoli nella parete di fondo, ospitanti ciascuno le ceneri dei due giovani.

La scena di mestizia, di piccole dimensioni, si trova sotto un terzo tabernacolo (in posizione centrale tra i due tabernacoli dei figli, riservato alle ceneri dei genitori quando sarà il loro momento). La scena raffigura i due coniugi, seduti e raccolti in una sommessa conversazione, facendosi forza l’uno con l’altra. Lui indossa una tunica scura; la consorte è in tunica chiara. 

Essi sono raffigurati da soli, senza altri figli o prossimi congiunti a sostenerli nel dolore. La scenetta di solitudine rivela il dramma familiare di non avere altri figli che possano continuare la discendenza: i coniugi sanno che, perduti gli unici due figli, il nome della famiglia si estinguerà. Forse sono ormai troppo anziani per sperare di poter dare alla luce altri figli.

La ricchezza della tomba fa pensare ad una famiglia benestante,  peraltro dotata di diversi servitori, tenuti anche in un certo conto. Alcuni graffiti nello stucco della parete di sinistra ne tramandano infatti i nomi:

- gli schiavi Timius frater Horinae (Timio fratello di Orinna), 
- Pardula anima bona (Pardula dal buon carattere), 
- un’ancella di nome Asclepia. 


Ma ci sono pure diversi liberti :

- Alexander, 
- Philetus, 
- Aphrodisia,- Eutychia,- Felicissima 
- Protus Zosimus, il cui piccolo cippo marmoreo, ritrovato nella tomba, cita il nome del suo patrono, Publius Aelius, che dovrebbe dunque essere il pater familias costruttore della tomba e il padre dei due giovani defunti.

Complessivamente schiavi e liberti devono essere tra i 15 e i 23, perché nella parete di sinistra è presente un colombario con 15 nicchie (disposte su tre file da cinque, in gran parte inutilizzate), e altre 8 nicchie sono sparse nella parete frontale. La tomba è nel complesso piccola, misurando appena 9 mq e, al momento della scoperta, gli archeologi vi hanno individuato anche sei fosse per l’inumazione e due sarcofagi, aggiunti successivamente.

I GIOCHI DEI BEATI

LA NAVICELLA SUL FIUME LETE

La seconda immagine, chiamata Navicella sul fiume Lete, è collocata nel soffitto sopra la porta d’ingresso, racchiusa da una cornice.
Il viaggio sul Lete corrisponde al viaggio sull'Acheronte per le anime meno pure, cioè per quelle che erano destinate all'Ade freddo e buio. 
Narravano i greci che i defunti passassero nel mondo dell'aldilà attraverso il fiume Lete, che cancellava la memoria della vita passata, mentre per gli eroi il passaggio avveniva attraverso il fiume Memnosine che conservava la memoria della vita trascorsa.

Questo privilegio non riguardava però la tradizione storico religiosa romana. I romani passavano o dal fiume Lete o dall'Acheronte. L'idea che solo gli eroi contino non è romana, anche se parte del servizio per la patria apparteneva ad ogni buon romano, non occorreva diventare eroi famosi per avere un'aldilà piacevole.

Per i romani era sufficiente aver fatto il proprio dovere, in guerra, in famiglia e con gli Dei. I fanciulli poi non avevano doveri e passavano sicuri il Lete per raggiungere i beati Campi Elisi. La scena presenta un paesaggio fluviale, con una parete rocciosa e con un pino marittimo. Sul fiume naviga una graziosa barchetta a vele gonfie, nell’atto di accostarsi delicatamente alla riva, con un uomo intento alle manovre. È il buon nocchiero dei Campi Elisi, figura speculare a Caronte. Tanto burbero era quello tanto gentile è questo.

Sulla riva, ad attenderlo, ci sono le figure spensierate dei due giovinetti: una è in piedi, più vivace, e l’altra è seduta in tranquilla attesa. Il discorso prosegue su una terza parete, a destra, dove sono collocate in sequenza quattro immagini, e sono Scene dei giochi beati. Ai due giovani, che in vita si sono condotti secondo pietas (il rispetto delle leggi divine) e iustitia (il rispetto delle leggi degli uomini, una volta giunti nei Campi Elisi, è concesso di rivivere il loro tempo migliore. 

Le scene occupano complessivamente un rettangolo orizzontale di circa 2 m, in campo bianco, sormontato da un festone a tema vegetale. All’interno sono dipinte in sequenza quattro immagini, ognuna delle quali raffigura un gioco infantile. Esse sono, nell’ordine: il plaustrum, gli astragali, la moscacieca, il trigon.



IL PLAUSTRUM

La terza immagine, Il gioco del plaustrum, raffigura un giovane svestito, coperto solo da un panno. Egli guida un plaustrum, molto simile a un odierno monopattino, testimonianza unica di un monopattino pervenutaci dall’antichità.

Nei testi antichi è descritto: a quattro, a una o a tre ruote. I più comuni sono quelli a quattro ruote, vere e proprie miniature dei carri più grandi, trainati da animali di piccola taglia, legati con un laccio di cuoio: in genere cani o caprette, ma non mancano testimonianze fantasiose di carretti volanti trainati da oche, colombi e fenicotteri, o racconti di carri trainati da servi o, a turno, da altri compagni di giochi.

Con un plaustrum i monelli fanno scorribande ad alta velocità, con le bestiole che si svincolano dai lacci delle briglie, provocando spesso ruzzoloni e cadute, provocando quel non so che di imprevisto e di rischio che piace tanto ai ragazzini.

C’è poi un altro tipo di carro a ruota unica, che consiste in un asse di legno o un semplice bastone (che funge da timone), con all’estremità una forcella nella quale è montata una sola ruota. 

I bambini costruiscono i carri monoruota in casa. 
Stare in equilibrio sul bastone monoruota non deve essere un’impresa facile, ma pare fosse un gioco piuttosto popolare.

La terza tipologia è una variante della seconda, in cui al timone viene aggiunto anche un telaio orizzontale di base, sorretto da altre due rotelle posteriori.
Su questo speciale plaustrum a tre ruote la trazione non è data da un animale, ma dal suo stesso conducente, che con una gamba si tiene in equilibrio sul telaio, e con l’altra sospinge la sua corsa. 

Si tratta di un oggetto straordinariamente moderno, molto simile a un monopattino ed è quello su cui il ragazzino si diverte, come indica la figura.



GLI ASTRAGALI

Il gioco degli astragali, raffigura un gruppetto di quattro ragazzini seduti per terra, con lo sguardo rivolto verso un quinto, all’impiedi, nell’atto di lanciare in aria dei piccolissimi oggetti, gli astragali, una specie di gioco di dadi, ma meno costoso e più diffuso.

L’astragalo è un ossicino del tarso posteriore dei caprini, situato tra calcagno e bicipite, dalla forma cubica. A differenza dei dadi ognuno di questi ossicini cubici ha sole quattro facce utili, in quanto le altre due sono di forma arrotondata e non stanno in equilibrio. 

Le quattro facce utili sono a loro volta diverse fra di loro: la faccia del cane è perfettamente piatta e corrisponde all’1 dei dadi moderni; la faccia del cavo è concava e corrisponde al 3; la faccia del dorso è convessa e vale 4; infine l’ultima, la faccia di Venere, è anch’essa perfettamente piatta: è la più desiderata e vale ben 6 punti. La somma delle facce opposte dà sempre 7; mancano il 2 e il 5.

Questo gioco, d'azzardo e pertanto proibito tra gli adulti, ma innocente e consentito per i ragazzini, si chiamava gioco delle tre prove. Si trattava di di tre esercizi di destrezza, in cui vince il primo che le porta a termine tutte e tre senza errori.

La prima prova consiste nel tirare in aria con la mano sinistra cinque astragali, facendone cadere almeno uno sul dorso della mano destra. È possibile recuperare da terra gli ossicini caduti, effettuando lanci di recupero, durante i quali sono richiese posizioni acrobatiche complesse, tutte minuziosamente descritte da testi dell’antichità. 

Nella seconda prova gli astragali sono poggiati su un piano (generalmente per terra), e l’abilità consiste nel manipolarne quattro, componendo diverse sequenze (ad esempio la prima è dorso-cavo-cane-Venere), nel breve tempo del lancio in aria del quinto astragalo. Si arriva così alla terza e più difficile prova: effettuare dei veri e propri esercizi ginnici - chiamati raffica, cerchio e pozzo - anch’essi nel breve tempo di un volteggio in aria di un quinto astragalo.

Secondo un’altra interpretazione, però, gli oggetti del gioco non sarebbero astragali, ma noci, usatissime dai giovani della Roma imperiale per un’infinità di giochi: prove di destrezza come negli astragali, o simili alle moderne biglie, o una specie di bowling, tirando una noce contro una barriera (cappa) di altre noci. 

Dei giochi con le noci ce ne parla Ovidio, che dedica un’intera opera all’età dei giochi, chiamandola emblematicamente Nuces (Le Noci). Il gioco preferito del giovane poeta è il Ludus castellarum (il gioco delle torri). 

Si tratta di comporre delle torri disponendo a triangolo tre noci con sopra poggiata una quarta, fino a comporre un’intera cintura di torri, che simulano un castello da assediare: l’avversario, lanciando ripetutamente un’altra noce come fosse un ariete, deve espugnare il castello, abbattendone una ad una tutte le torri. L’utilizzo delle noci era così frequente che «relinquere nuces» (smettere di giocare alle noci), indicava il passaggio dall’età dei giochi all’adolescenza.



LA MOSCACIECA

Il gioco della moscacieca, mostra tre giovani in tunica corta. Uno di essi ha gli occhi coperti da una mano, mentre l’altra è protesa verso gli altri due giocatori, che cerca di afferrare.

E' la musca eburnea (mosca di bronzo) riferendosi alla mosca cavallina, dall’addome iridescente come il bronzo. Un giocatore è il cacciatore mentre gli altri sono mosche cavalline da acchiappare. Invece di bendarsi al cacciatore è richiesto di mettersi una mano davanti agli occhi, confidando nella sua onestà. Il regolamento ci è tramandato da uno scritto di Pollione. 

Il cacciatore si copre il viso e i compagni lo fanno girare più volte su se stesso, fino a fargli perdere l’orientamento. Mentre ruota recita una filastrocca, che in italiano suona così: «Acchiappo la mosca di bronzo». I compagni gli rispondono «La cerchi, la trovi, ma non l’acchiappi», in modo che il cacciatore, attraverso il senso dell’udito, possa individuarne la posizione, lanciandosi subito dopo in un goffo inseguimento in cui, come narra Pollione è consentito sferrare calci sul sedere o scudisciate con frustini di cuoio. Finché il cacciatore non cattura la mosca.

Ma per altri potrebbe trattarsi di un gioco simile, il «muida», simile all'acchiapparella. Oppure si tratta del «iudices» (gioco dei giudici). Elio Sparziano riferisce che questo gioco poco rumoroso è l’unico consentito durante le cerimonie ufficiali, le processioni e i contesti altolocati. 

Si tratta di un gioco di imitazione degli adulti, in cui i piccoli a turno interpretano i ruoli di giudice, imputato, avvocati e testimoni in un immaginario processo, raccontando con compostezza delle storie inventate e incredibili, rendendole verosimili: il giudice ha il delicato ruolo di smascherare l’impostore o premiare le capacità di affabulazione.



IL TRIGON

La sesta immagine, chiamata Il gioco della palla, raffigura tre ragazzini in tuniche variopinte posizionati ai vertici di un triangolo, con il braccio destro alzato a colpire una palla fluttuante nell’aria. 

E' il trigon,  a tre giocatori, simile alla pallavolo, o allo sphaeristerium (il gioco della palla).

La palla usata per i giochi aerei è la pila trigonalis; è una palla dura, realizzata con un sacco di pelle conciata, imbottito di sabbia o sassolini. 

Il fine è di mantenere la sfera sospesa in aria il più a lungo possibile, finché, compiuta una determinata sequenza di palleggi, uno dei giocatori può lanciare in schiacciata. 

Il trigon è ancora oggi praticato nelle scuole italiane, con il nome dello schiacciasette.


IL BANCHETTO DEI GIUSTI

La settima scena, chiamata Il banchetto dei giusti, torna ad evocare l’immagine dei genitori. Ad essi - proprio come i figli - spetta di godere nei Campi Elisi del proprio tempo migliore, in cui ognuno vive nell’età che gli ha dato la maggior felicità, dilettandosi con le attività più gradite. E se per i figli il tempo migliore è quello dei giochi innocenti, per Publio Elio e la sua amata il tempo migliore è l’età dei vent’anni, subito dopo il matrimonio: li ritroviamo ritratti in un momento di banchetto, nell’atto di distribuire agli altri commensali le poste iniziali per il gioco d’azzardo.

La scena (posta al di sotto del lucernario di destra) raffigura i due coniugi sdraiati su un elegante triclinio con spalliera. La moglie ha accanto a sé la serva prediletta, cui impartisce ordini, puntando l’indice verso un tavolino a tre piedi sul quale sono poggiati tre piattelli vuoti.

La consuetudine vuole che siano i padroni di casa ad offrire le poste iniziali dei giochi conviviali, deponendole su piattelli. Chi durante i giochi esaurirà le poste potrà scegliere se ritirarsi dal gioco, oppure proseguire mettendo sul tavolo denari propri.

Alla fine del banchetto, è buona norma che coloro i quali hanno vinto restituiscano al padrone di casa le poste iniziali. E se, durante il gioco, un giocatore ha una fortuna così sfacciata da lasciare tutti gli altri senza altri denari per proseguire, ha quasi l’obbligo di donare agli altri nuove poste per proseguire il gioco, ricevendone in cambio una grande ammirazione. Augusto ci lascia una preziosa testimonianza del saper vivere romano: 
« Caro Tiberio, alla fine ho perso 20.000 sesterzi. Ma sia chiaro: solo perché come al solito sono stato generoso. Se solo avessi richiesto indietro ai commensali le poste iniziali, quelle che ho condonato loro quando ho vinto, e quelle che ho aggiunto via via per alimentare il gioco, alla fine di sesterzi ne avrei avuti in mano 50.000. Preferisco così! La mia generosità mi farà finire direttamente in paradiso! ».




L'OTTAVA SCENA DEI PAVONI AFFRONTATI

Nella parete di sinistra, al di sopra del colombario, si apre l’ottava scena, la Coppia di pavoni affrontati che bevono alla fonte della vita. Al centro troneggia una grande coppa colma di vino, alla quale si abbeverano due pavoni, sacri a Giunone e simboli di vita oltre la vita, dalle lunghissime e variopinte code.

Nella parete di destra, si raffigurano due montoni selvatici dal pelame mai tosato e con un superbo palco di corna, con al centro un cratere ed uno scudo.

Il soffitto è l’unica parte danneggiata della tomba, ma se ne intravedono motivi geometrici e larghe fasce purpuree. Sono perfettamente conservati i quattro spigoli, nei quali trovano posto quattro medaglioni circolari con figure femminili a mezzo busto, i quali raffigurano insieme la decima e ultima immagine del sepolcro, chiamata I geni delle quattro stagioni. Come dire il succedersi delle stagioni che ripete il succedersi di vita e morte con successive reincarnazioni.

Seguono numerose immaginette di offerte votive situate soprattutto nella parete frontale (due brocche da acqua, una coppa, un calice da vino, piccoli volatili e fiori) e un cesta colma di frutta nella parete d’ingresso: i melograni, le pere, i rametti verdi, così come gli intarsi in vimini della cesta, sono raffigurati con impressionante realismo.

La tomba è stata scoperta nel 1951, insieme all’altra tomba chiamata Tomba degli stucchi. L’Istituto Centrale per il Restauro ha curato il taglio dal costone tufaceo che la conteneva e il trasporto al Museo Nazionale Romano, dove è oggi visitabile. La tomba è stata restaurata nel 2008.


BIBLIO

- Via Portuense - il sepolcro di Publio Elio - Giornale culturale Il Tiberino - 1851 -- John Bodel - Cicero's Minerva, Penates, and the Mother of the Lares - An Outline of Roman Domestic Religion - in John Bodel e Saul M. Olyan (a cura di) - Household and Family Religion in Antiquity - Blackwell Publishing - 2008 -
- Ferdinando Castagnoli -  Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome - Rome  - École Française de Rome - 1989 -
- Boris Pahor - Necropoli - trad. Ezio Martin - revisione di Valerio Aiolli - prefazione di Claudio Magris - Fazi Editore - Roma - 2008 -







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