L'AGRICOLTURA NELL'IMPERO ROMANO





DALLE GHIANDE AL GRANO

Scrisse Ovidio nei Fasti:
"Cerere fu la prima a migliorare la nutrizione dell'uomo, sostituendo le ghiande con cibo migliore."

Sembra infatti che i primi Romani si nutrissero di una farina di ghiande, il cibo più abbondante, visto che a Roma abbondavano i querceti, (si ricorda il Quercolanum sul Monte Celio) finchè per consiglio divino (siamo in era matriarcale e le sacerdotesse consigliavano per ispirazione e oracoli), decisero di coltivare i cereali fino ad allora allo stato selvatico. Il farro fu il cereale più usato ma Cerere (latino: Cere, da cui deriva il termine cereale) teneva in mano un fascio di spighe di grano, e così la Dea Opi, per cui di sicuro fu coltivato da subito, ma solo successivamente si capì che era il cereale più nutriente e sano.

Dal punto di vista archeologico nella zona del Latium con le prime operazioni di bonifica intorno all'età del Ferro (IX-VIII secolo a.c.) si sviluppano anche le prime coltivazioni di frumento, vite ed olivo. Nonostante il farro sia stato largamente usato in quanto adatto a quelle zone paludose, con la bonifica dei terreni venne sostituito col grano, decisamente più nutriente.
(IMMAGINE ZOOMABILE)

La Mola Salsa, cibo romano molto arcaico, era una focaccia di farro, salata in superficie. La sua preparazione, esclusivamente concessa alla Vestali, seguiva un cerimoniale segreto che risaliva agli antichi Misteri.

Basti pensare che dal termine "mola" nasce il termine "immolare" cioè consacrare agli Dei, anche se successivamente, nel patriarcato, prese un significato più cruento, quando si passò dall'offerta vegetale a quella animale.

Sembra che l'Eucarestia derivi dal rito della Mola Salsa, che le sacerdotesse infatti distribuivano ai fedeli come cibo sacro invitandoli a mangiare il "corpo della Madre Terra".

Il pane entrò tardi nella cultura Romana, perchè il lievito fu importato successivamente dai Greci. La cucina romana arcaica prevedeva solo focacce senza lievito. Per cui il cibo base era una specie di polenta, il puls, a base di farro, o di frumento per fare delle minestre condite.

Ad Ercolano sono state rinvenute, carbonizzate ma integre, forme tonde di pane lievitato, e nel sud Italia, in territorio sannitico, sono stati rinvenuti stampi per pane lievitato.
  1. Vanga leggera
  2. Vanga a punta quadrata
  3. Vanga
  4. Zappa dentata
  5. Zappa dentata
  6. Zappa bidente
  7. Zappa
  8. Zappa per sarchiare
  9. Lama di zappa per sarchiare
  10. Scure
  11. Accetta
  12. Aratro
  13. Tipi di vomere
  14. Erpice per rompere le zolle
  15. Erpice per triturare il terreno


AGRO PUBBLICO E PRIVATO

La Roma arcaica era fondata sulla piccola proprietà terriera. Secondo la tradizione Romolo aveva assegnato a ogni cittadino un appezzamento di due iugeri (mezzo ettaro); in seguito la terra assegnata al soldato romano fu di sette iugeri.

Quando Roma iniziò a conquistare terre oltre confine, queste diventarono "agro pubblico".
Una parte di questi terreni veniva divisa in centurie e assegnate ai soldati per garantirgli la sussistenza. Altri terreni venivano affittati a privati che li coltivavano trasmettendoli pure in eredità, ma la proprietà restava statale. Da agro e cultura deriva la parola Agricoltura.

Naturalmente i comandanti militari, fino a Cesare solo aristocratici, ebbero le terre più vaste, che potevano far lavorare da coloni e da schiavi.

I Senatori romani non potevano essere commercianti, categoria riservata agli equites, che importavano ed esportavano merci oltre confine, per cui gli unici loro investimenti erano sulle terre, sperando così di limitare la loro brama di ricchezze. Ma naturalmente questa brama non fu placata nemmeno dalle leggi.

Infatti dopo le guerre puniche i Senatori aggirarono con vari artifici la legge che vietava di occupare più di 500 iugeri (100 ettari) di agro pubblico, acquistando i latifondi, cioè territori agricoli enormi, coltivati da schiavi.

Con la legge agraria del 111 a.c. l'agro pubblico divenne privato, diventando una vera rendita per i proprietari ormai latifondisti. Le ville rustiche si trasformarono così in sfarzose ville suburbane, e i campi si trasformarono in grandi pascoli con mandrie o greggi da affidare a schiavi-pastori, che le guidassero nella transumanza verso l'Adriatico o il Tirreno.
  1. Corba per il trasporto del letame
  2. Corba per il trasporto della terra
  3. Cestone
  4. Pariere 
  5. Setaccio
  6. Canestro per frutta
  7. Cestello
  8. Sporta


GUIDA DEGLI AGRICOLTORI

"Non finisco di meravigliarmi del fatto
che delle altre arti meno necessarie
alla vita, si trovano dei maestri,
mentre non si trovano nè maestri nè
discepoli della scienza dei campi"
(Columella)

Dobbiamo soprattutto a Plinio il Vecchio le specificazioni su tutte le notizie riguardanti l'attività contadina e pastorale, ma pure a Catone il Censore, a Varrone e a Columella.
Nacque così il primo trattato di agricoltura "De agri cultura" del 160 a.c., di Marco Porcio Catone, in cui il contadino viene esaltato come condizione sociale:
"Dagli agricoltori, invece, nascono uomini fortissimi e soldati valorosissimi, e il loro guadagno è giusto e al riparo da ogni insicurezza, nulla ha di odioso; e coloro che si dedicano all'agricoltura non sono tratti a cattivi pensieri." Il libro è un trattato di agricoltura, e un investimento per il proprietario terriero se segue i giusti canoni, unito a un dettagliato ricettario.

La villa rustica aveva una parte padronale e una parte rustica, per agli alloggi degli schiavi e il magazzino degli attrezzi. Riguardo alle colture, Catone mise al primo posto il vigneto, poi l'orto, il saliceto per legare le viti, l'uliveto, il prato per il bestiame, la coltura seminata, il bosco ceduo e il bosco a ghiande.

La manodopera doveva essere di schiavi, in squadre controllate da un maschio e una femmina, schiavi anch'essi, che fungevano da fattore.


Il vigneto doveva essere di circa 100 iugeri (20 ettari), lavorati da 16 schiavi, cioè dai due fattori, dieci braccianti, un aratore o bifolco, un asinaio, un addetto al saliceto (o legatore di viti) e un porcaro.

La coltivazione principale però era quella dei cereali: grano, farro, orzo, sui quali si basava l'alimentazione di uomini e cavalli. Mentre l'antico nutrimento romano era il farro, in età repubblicana e soprattutto imperiale si spostò sul frumento, molto più nutriente e salutare.
L'uliveto raccomandato era di 240 iugeri (48 ettari), lavorato da 13 schiavi, per la produzione del l'olio la cui vendita, come quella del vino, era molto redditizia. Si spremevano le olive in contenitori di pietra, pestando con mazze e bastoni.

Verso il 40 a.c. Lucio Giunio Moderato Columella scrisse "De re rustica", descrivendo in qualità di fattore gli esperimenti di suo zio sull'incrocio degli animali da allevamento, e dando consigli pratici sull'agricoltura. Scrisse anche un trattato sugli alberi: "De arboribus".
Quasi contemporaneamente Marco Terenzio Varrone scrisse un'altra "De re rustica", con consigli vari su come amministrare i piccoli e i grandi fondi terrieri, sulla pastorizia e sugli animali che si potevano allevare con soddisfazione nelle Ville suburbane.

Cesare stabilì che 1/3 dei pastori, fino ad allora schiavi, doveva essere di uomini liberi e quindi pagati, così i contratti lavorativi migliorarono per i contadini. I coloni, che usavano il forno e il mulino, si rendevano disponibili nei periodi dell'anno di maggior lavoro, ma per il resto lavoravano per se stessi.

Per il raccolto però le cose peggiorarono, tanto che si decise di limitare l'agro destinato a pascolo e a vigneti, perchè i cereali erano insufficienti e dovevano essere importati, quando già lo stato ne elargiva tanto per la popolazione nullatenente. Ogni anno infatti Roma donava ai cittadini non proprietari di beni immobili, il grano annuale per la sopravvivenza.

VILLA RUSTICA ROMANA

LE VILLE

Così l'alto Lazio a nord di Roma venne prescelta dai ricchi personaggi come Catone, Lucullo e Cicerone, per costruire splendide ville con annessi giardini dove trascorrere il riposo (otia) della campagna, lontano dal chiasso e l'inquinamento cittadino. Tra i siti archeologici l’antica città di Tuscolo, la Villa di Tiberio e il complesso di Albano con i ninfei del lago, nonchè la Villa di Vitellio ad Ariccia. Le alture dei Colli Albani seguirono così le sorti di Roma, adornandosi di ville teatri e sepolcri durante l’impero, e decadendo alla sua fine.

Le splendide Ville Urbane, nella periferia di Roma, ma entro le mura aureliane, furono definite Horti proprio perchè vi si coltivavano gli orti: zucchine, lenticchie, ceci, tartufi, rape, porri, piselli, asparagi, zucche, cardi, fave, cipolle, fagioli, finocchi, cavoli, cicorie, lattughe, sedani e bietole. Abbondavano anche gli alberi da frutta: pesche, uva, pere, mele, cedri, uva passa, datteri, noci, prugne, pinoli, mandorle e melograni.

Nelle Ville Rustiche si coltivavano i campi seminati e gli orti, ma anche le Ville Suburbane, cioè fuori delle mura romane, divennero spesso per metà splendide Ville padronali con agi e splendide rifiniture e per metà Ville rustiche con campi e orti, insomma autosufficienti e spesso anche in grado di vendere prodotti all'Urbe.


  1. Tino per mosto e vino
  2. Grande orcio di terracotta con coperchio
  3. Orcio per derrate alimentari
  4. Orcio per liquidi
  5. Secchio per acqua
  6. Anfore
  7. Vaso per mungere


LA PRODUZIONE AGRICOLA

La produzione agricola va distinta in tre grandi settori, agricoltura (soprattutto cereali), orticoltura (coltivazione di leguminose e ortaggi verdi) e arboricoltura (oleicoltura, viticoltura, piante da frutto), differenziati fra loro sia per le modalità di coltivazione che per le caratteristiche e le forme di utilizzazione dei relativi prodotti, nonché per le diverse proprietà nutrizionali di questi.

L’allevamento riguardò ovicaprini, bovini, e suini, in regime brado o pastorale; non legato ad un territorio stabile, e al limite transumante, oppure stanziale, collegata alla singola azienda agricola.
Una forma intermedia fra caccia (o pesca) e allevamento è rappresentata dall’allevamento in aree chiuse (vivaria) di specie animali non domesticate o di pesci marini o d’acqua dolce (piscinae), mentre un’ulteriore e non secondaria integrazione alle disponibilità alimentari era data dall’allevamento di animali da cortile.


CEREALI

In Italia, la base dell’alimentazione era costituita da prodotti di derivazione cereale (orzo, frumento; farro), come focacce non lievitate, pane e pappe. L’80% dell’apporto calorico nell’alimentazione proveniva dal consumo di cereali.
Fra i cereali, quello più conveniente alla coltivazione era l’orzo, che non richiede, a differenza del frumento, abbondanti piogge all’epoca della germinazione.
L’orzo, rispetto al frumento, ha:
- tempi più rapidi di maturazione,
- minore esposizione alle malattie,
- capacità di allignare fino a 1500 m s.l.m.,
- maggior tolleranza sia al freddo che al caldo
- teme meno la siccità.

L’orzo, le cui pianticelle affondano più in profondità le radicicole nel terreno, cresce senza difficoltà anche su suoli calcarei e poco profondi, e richiede minor impegno lavorativo. Si aggiunga che il rischio presunto di perdita del raccolto per siccità interessava il frumento 1 anno su 4, l’orzo solo 1 anno su 20.

Il frumento invece: 
- richiede terreni più ricchi, 
- sufficienti precipitazioni o irrigazioni, 
- è più esposto alle malattie (alla robigo, o ruggine, ecc.). 
Delle due varietà coltivate nell’antichità, il Triticum durum, benché meno pregiato del Triticum aestivum, sopportava meglio il clima semiarido, e si conservava meglio.
Mentre l’orzo si adattava facilmente ad appezzamenti situati nei contesti ecologici più vari, la coltivazione del frumento poteva avvenire solo in aree particolari.

Per Roma, le aree adatte ad una coltivazione granaria su larga scala erano soprattutto la Campania e poi la Pianura Padana. Al crescere della popolazione di Roma, che in età imperiale raggiunse il milione di abitanti, si dovette importare il frumento, oltre che da Sicilia e Sardegna, dall’Egitto, dal Nordafrica e dalla Penisola iberica.

I cereali coltivati in suolo italico erano:
- orzo,
- frumento, 
- farro - (Triticum dicoccum), che ebbe a Roma, specie in età regia e repubblicana, importanza dominante nell’alimentazione. 
- miglio - risorsa estrema in caso di cattivo raccolto, che poteva essere seminato in primavera-estate data la sua resistenza alla siccità, e non richiedeva più di 3-4 mesi per la maturazione. Inoltre si conservava più a lungo, ed era pertanto il cereale più indicato per fornire riserve e scorte. 
- spelta - (Triticum spelta) era un cereale minore. 
- avena e segale non venivano coltivate, l’avena perché considerata pianta infestante, mentre la coltura della segale non era adatta al clima mediterraneo. 

- Il pane confezionato preferibilmente con farina di frumento abburattata, era lievitato prima della cottura e aveva vari tipi:
panis candidus, di sola farina abburattata, pane dei ricchi,
panis sordidus, il pane nero, di farina non setacciata, il pane dei poveri
panis furfureus, di sola crusca – il pane “dei cani”, e dei poverissimi.
- la maza d’orzo era una specie di focaccia impastata e non lievitata (la pasta d’orzo non è soggetta a lievitazione) né cotta, o una specie di pappa lasciata rassodare naturalmente;
- a Roma, invece della maza si usava il puls, una pappa di farina di farro o di spelta, consumata dalle classi inferiori e soprattutto in campagna.



ORTICOLTURA

Molto praticata nel mondo antico, l’orticoltura ha più limitate superfici lavorate, ma maggiore richiesta di irrigazione (con acque fluenti o di pozzo/cisterna) e di lavorazione, a zappa e a mano, e non ad aratro (zappatura, diserbo), per necessità di concimazione (con cenere, sterco d’asino, guano colombino), perchè non richiedevano riposi biennali (maggese), bastando a mantenere la fertilità del suolo l’alternanza delle colture sulle singole parcelle. Gli antichi del resto conoscevano e sfruttavano le potenzialità fertilizzatrici delle leguminose, che consentivano una rotazione delle colture anche su campi aperti.

Le specie coltivate formavano tre categorie: 
- leguminose,
- ortaggi (verdure),
- radici e tuberi.


Leguminose

Le leguminose (lat. legumina), di grande apporto nutritivo, erano anticamente:
- ceci,
- fave,
- lenticchie,
- piselli,
- lupini,
- un’unica specie di fagioli, i fagioli dell’occhio (Vigna unguicolata). 
Ceci e fave, oltre che nell’orto, erano per il grande uso che se ne faceva, coltivate in campi aperti, con aratura a traino bovino;
- lupini, diffusissimi, rappresentavano un alimento “povero” e di ripiego.

  1. Coltello/Machete
  2. Forcone
  3. Cesoie per tosare
  4. Roncola a papillon
  5. Roncone
  6. Falcetto
  7. Seghetto
  8. Tenaglie per la potatura
  9. Falce per la mietitura
  10. Roncola
  11. Pennato con cresta

Ortaggi

Gli ortaggi verdi (lat. olera) comprendevano un ricco assortimento di specie, fra cui le verdure:
- a foglia (lattughe, cavoli, broccoli, bietole),
- a stelo (asparagi, sedani, cardi)
- a frutto (cetrioli, zucche).


Radici e tuberi

Fra le radici e tuberi, si coltivavano:
- cipolle,
- porri,
- aglio,
- pastinache,
- rafani,
- rape (particolarmente apprezzate a Roma),
- ravanelli.


Piante selvatiche

Accanto alla coltivazione orticola, varietà selvatiche delle specie coltivate (bulbi come gli odierni lampasciuni), e specie non coltivate (asfodelo, scorzonera), erano correntemente oggetto di raccolta.

Presso le classi più povere e i piccoli proprietari, l’orticoltura rimpiazzava i cereali: un appezzamento di mezzo ettaro non poteva sostenere l'onere del bove per l’aratura. Pertanto i legumi con il loro grande valore proteico e calorico, potevano rimpiazzare in parte i cereali.

Il vantaggio dell’orto rispetto al campo era anche quello del poter cogliere subito i frutti,  lungo le varie stagioni, di prodotti che non richiedevano trebbiatura, macinatura,  torchiatura ecc.. I prodotti dell’orto richiedevano solo bollitura o tostatura, e nel caso di insalate, cipolle e cetrioli, si mangiavano crudi.


ARBORICOLTURA 

L’arboricoltura riguardava soprattutto olivicoltura e viticoltura, e poi gli alberi da frutto che fruttificavano spontaneamente e non richiedevano lavoro.


Olivi e viti

Avevano ambedue bisogno di terreni asciutti, anche sassosi e montuosi, fino a 600-800 m di altezza per l’olivo, e 800-1000 m per la vite.
Richiedevano pioggia ma senza ristagno d'acqua per cui i terreni scoscesi o i terrazzamenti andavano benissimo. oltre a tutto nei pendii evitavano l’erosione della terra, e vi potevano coltivare anche colture subarboree.

La vite dava frutti 2-3 anni dall’impianto, ma l’olivo invece richiedeva invece almeno 15 anni per produrre. Addirittura l’olivo raggiunge la piena capacità produttiva intorno ai 40 anni dall’impianto.
In pratica si piantava per le generazioni future. Inoltre fruttifica ad anni alterni, per cui solo la metà dei terreni a oliveto era produttiva in un anno.

La coltura dell’olivo fu importata a Roma dalla Grecia, attraverso le colonie della Magna Grecia. In Italia erano diffuse specie di olivi selvatici (oleastri), cui vennero applicate le pratiche di innesto per renderli fruttiferi.

Mentre l’olivicoltura non richiedeva un grande investimento lavorativo, perchè bastava la potatura, la coltura della vite, era molto più complessa. Non solo di doveva curare la pianta e raccogliere l'uva, ma si doveva poi trasformare l'uva in vino, molto più complesso che trasformare le olive in olio. Inoltre, il vino, una volta maturato, facilmente diventava aceto, se non veniva accuratamente trattato.

Sia la viticoltura che l’olivicoltura non solo si provvedeva il consumo italico, ma si esportava anche su lunghe distanze. Infatti essendo il luogo molto adatto alla coltivazione anche per la forte presenza vulcanica, allora come oggi, i prodotti italici erano particolarmente pregiati e apprezzati.

MACCHINARI PER LA SPREMITURA DELLE OLIVE

Altre piante da frutto

Le piante da frutto utilizzate nell’antichità coincidevano in larga parte con quelle attuali:
- mele,
- pere,                                                          
- uva,
- prugne,
- cotogne,
- melograni,
. sorbe,
. carrube,
- pesche,
- ciliegie,
- albicocche,
- cedri,
costituivano la frutta fresca, mentre le frutta secca predominante erano:
- mandorle
- noci.

A parte il consumo fresco, molte varietà potevano venir seccate per l’inverno, come pere, mele, prugne, carrube. A Roma i fichi secchi venivano anzi consumati non come frutta, ma come companatico.

Ma rientrava nell'alimentazione anche lo sfruttamento di varietà selvatiche, come:
-  il castagno (zone collinari e montuose dell’Italia centro-settentrionale);
- la quercia, le cui ghiande non servivano solo al pascolo brado dei suini, ma anche, in caso di necessità o di povertà estrema, come nutrimento umano, tostate e ridotte in farina per farne “pane” e farinate. 



IL LAVORO DEI CAMPI

L'aratro

Mentre l’aratro è soprattutto associato alla cerealicoltura, la zappa è associata all’orticoltura, anche se può riguardare anche la coltivazione dei cereali in campi aperti.
Il vantaggio dell’aratro sulla zappa è che accelera il lavoro, ma data la limitata efficacia dell’aratro antico, che rendeva possibile solo un’aratura poco profonda (intorno ai 20 cm), la zappa consentiva una migliore lavorazione del suolo, ed era comunque indispensabile per la frantumazione delle zolle, e anche per una seconda zappatura del terreno già arato.

Una parte del lavoro, specie il diserbo dei seminativi, andava comunque fatto con la zappa che era era l’“aratro del povero” e del piccolo agricoltore; oppure serviva sulle zone scoscese e negli orti e nelle vigne. L’aratro a coltro, e poi a vomere, (coltello verticale e orizzontale) in Italia si affermò a partire dall’età villanoviana; in età romana, all’aratro tradizionale si affiancò l’aratro a ruote, di provenienza gallica.
Di “invenzione” italica fu invece l’erpice (crates), in uso a partire dal I secolo d.c., usato sui campi seminati non a solchi, allo scopo di sminuzzare le zolle senza usare la zappa, ricoprire i semi e sradicare le erbe infestanti. Malgrado l’efficacia inferiore alla zappa, l’erpice fece risparmiare la manodopera schiavile.


Irrigazione

Mentre nella cerealicoltura (specie nel caso dell’orzo) non era praticata, né praticabile un’efficace irrigazione, questa era indispensabile per l’orticoltura, col ricorso ad acque piovane immagazzinate (cisterne), ovvero a depositi naturali (pozzi), o al sollevamento di acque superficiali e al loro sversamento sui campi coltivati, a mano con la vite d’Archimede, o per mezzo di bilancieri. Là dove, come in Gallia Cisalpina, vi era larga disponibilità di acque fluviali o di risorgiva, veniva anche praticata l’inondazione regolata e permanente del prato irriguo (la futura “marcita” medievale e moderna, oggi non più in uso).

Malgrado le raccomandazioni di Catone (“prima arare, poi concimare”, stercorare), il mondo antico non conobbe concimazioni regolari tali da incrementare in maniera rilevante la produzione. La concimazione nell’agricoltura italica rimase al di sotto del 50% dei minimi dell’età moderna prima dell’introduzione dei concimi artificiali. La mancanza di stallatico veniva compensata, col sovescio (Grecia e Italia), col debbio
(bruciatura delle stoppie: Gallia Cisalpina), o con spandimento di marna (Gallia).

Ostacolava le possibilità di concimazione la limitata pratica dell’allevamento confinato (specie bovino), data l’assenza o l’insufficienza di piante foraggere per l’alimentazione del bestiame stabulato. Il bestiame reperiva il suo nutrimento sui pascoli liberi o nei boschi, quando non transumava durante la stagione estiva. Una limitata concimazione poteva aver luogo nei terreni a maggese, sui quali il pascolo, specie ovino, era liberamente praticato.

La rotazione biennale a maggese era largamente praticata, per la cerealicoltura, sia in Grecia che in Italia, dove la pratica fu probabilmente importata dalla Grecia stessa attraverso la mediazione degli Etruschi (VIII-VI secolo). I campi a riposo andavano ripetutamente arati per impedire l’allignare delle erbe infestanti; ma era anche praticato il “maggese verde”, con avvicendamento fra i cereali e i legumi (esclusi i ceci), che
ricostituivano, come agli antichi era noto, la fertilità del suolo. 
Il riposo a maggese andava bene su proprietà medio-grandi, il piccolo proprietario, con pochi ettari di terreno, non poteva rinunciare ogni anno a metà del prodotto, con la conseguenza di un rapido esaurimento dei terreni.


La mietitura

Il ciclo cerealicolo si concludeva in giugno-luglio con la mietitura e la trebbiatura. La mietitura era praticata a mano, con falcetti, recidendo le piante, o alla base, o a metà stelo, o anche alla spiga; eccezionale fu l’uso della “mietitrice gallica”, una rudimentale “macchina agricola” spinta da asini o muli, che recideva le spighe raccogliendole nel contempo in un apposito cassone. Si trattò di una innovazione tecnologica in uso solo
nelle regioni pianeggianti della Gallia settentrionale, a partire dall’età imperiale.


La trebbiatura

Per la trebbiatura dei cereali ci si avvaleva di un’aia in terra battuta, o lastricata in pietra, su cui avveniva, dapprima la sgranatura delle spighe tramite calpestazione animale (muli, bovini, cavalli) e battitura a mano con flagelli e correggiati; seguiva quindi la spulatura, che allontanava le paglie tramite la ventilazione naturale, o manuale, con vanni e ventilabri.

MAGAZZINI PER LE DERRATE ALIMNTARI

ALLEVAMENTO E PASTORIZIA


I primi animali furono i buoi da lavoro, per l'aratura e per il traino. L’allevamento, specie  itinerante o transumante, era quasi esclusivamente ovicaprino, adatto anche a pascoli poveri e men dispendiosi.

Le pecore erano allevate per latte, formaggi e lana, che veniva filata e tessuta dalle donne. L’allevamento era di rado stanziale anche per gli ovicaprini, il ricovero negli ovili era solo notturno, altrimenti avrebbe richiesto  l’agricoltura per il foraggio.

La stessa superficie agraria, se coltivata a cereali/orti, può sostentare una popolazione anche 10 volte maggiore che se sfruttata per l’allevamento. La grande transumanza in Italia, esercitata fin dai tempi più antichi, in età imperiale passò sotto il diretto controllo del fisco e dell’imperatore.

A Roma, sussisteva un divieto culturale all’abbattimento a scopo alimentare del “bue aratore”, considerato quasi a livello di un membro della famiglia dell’agricoltore, la cui uccisione rasentava il crimine.

Ma la distribuzione e il consumo di carne bovina e ovicaprina non era invece rigidamente ancorata al rito sacrificale, e il commercio di carne, e di animali da macello, aveva a Roma un suo spazio di mercato.

- Del tutto escluso dalla macellazione a fini alimentari (e anche sacrificali) era invece il cavallo, considerato animale “nobile”.

La presenza, specie in Italia centrale, di ricche foreste di querceti e faggeti, favoriva l’allevamento brado dei suini, per la disponibilità di ghiande e faggiole.

Naturalmente c'era l’allevamento di animali da cortile:
- pennuti (oca, anatra, gallina)
- roditori (conigli, a Roma talora anche ghiri).
Una forma particolare di allevamento riguardava le specie semidomesticate:
- palombacei, colombi e anche tortore, dimoranti nei colombari in semilibertà.

In età romana l’allevamento di piccioni per rifornire il mercato della capitale venne praticato su larga scala, con colombai capaci fino a 5000 unità. Le galline venivano allevate soprattutto per le uova e i pulcini, mentre a scopo alimentare si castravano a Roma i pollastri di 4 mesi, ingrassandoli poi come capponi. Anche le oche venivano ingrassate ai fini di sfruttarne le carni e soprattutto il fegato, con modalità simili a quelle oggi praticate (ingabbiamento, alimentazione forzata).

Veniva praticato l’allevamento di specie selvatiche, riducendo gli animali alla dipendenza dall’uomo per l’alimentazione.

Nei vivaria venivano così allevati, a Roma:
- cinghiali, cervi, lepri,
- nelle piscinae,  pesci, sia di mare che d’acqua dolce.



CACCIA - PESCA - RACCOLTA

Da dicembre a marzo, quando si fermava il lavoro nei campi, il contadino si dedicava alla cattura di animali selvatici, specie con reti, trappole, tagliole.
- L’animale più grosso, e anche più pericoloso, era il cinghiale.
- poi c'era la lepre,
- tordi, pernici, beccacce, passeracei, venivano catturati con l’uccellagione a mezzo di reti, panie e zimbelli.
- oche selvatiche, cigni, gru e cicogne, venivano occasionalmente cacciati con arco e frecce.

La pesca era limitata alle zone costiere e lacustri, data l’impossibilità della conservazione, a meno di ricorrere a disseccamento o salagione. La pesca più fruttuosa, anche se periodica, era quella del tonno, con la migrazione dei banchi fra maggio e ottobre.

Oltre al tonno i pesci pregiati erano: dentice e orata,  molluschi, crostacei e cefalopodi (polpi, seppie, calamari), mentre il popolo si nutriva di sardine e alici.

In mare si raccoglievano i molluschi marini (bivalvi e simili), e, sulla terra, il miele, che costituiva l'unico dolcificante, la raccolta di specie animali quali le chiocciole.


Conservazione e preparazione degli alimenti. 

- Per i cereali, i fichi e i legumi secchi (ceci, lenticchie, fagioli) o le radici bulbacee (cipolle, agli) bastava preservarli dall’umidità e dai parassiti,
- per gli ortaggi freschi (cicoria, asparagi, sedani, cardi, lattughe), venivano conservati in salamoia con aggiunta di aromi,
- per radici come le rape (venivano seccate e salate) o per le zucche (tenute in fossa).
- le olive venivano seccate o conservate in salamoia.
- per carni (specie suine) e pesci o cefalopodi; si praticava anche il disseccamento al sole e al vento (ad es. di seppie e calamari), più economico della salagione, che richiedeva la disponibilità di sale.
- Per i cereali, dopo trebbiatura e trasporto nei depositi, tenuti in orci sigillati, era necessaria per alcune specie una tostatura preliminare alla macinazione:
- coi cereali a cariosside vestita come l’orzo, il farro, la spelta, nei quali la torrefazione doveva liberare i chicchi dalle glume.
- La tostatura era praticata anche con i ceci, le ghiande e i fichi da conservare.
- Alla tostatura dell’orzo o del farro seguiva la battitura, eventualmente una immersione in acqua, e quindi la macinazione che preparava la farina.
- Il grano veniva invece macinato direttamente.
- Quanto ai legumi, poiché nessuno di essi, tranne le fave, è consumabile e digeribile crudo, essi richiedevano comunque una preparazione, che potevano essere la tostatura o la bollitura, o ambedue.
- Piselli e fave si consumavano in genere bolliti così da formarne una specie di purée; i lupini, cibo “povero” di largo consumo, andavano tostati e bolliti.

"Produrranno cereali e vino, e si nutriranno ricavando farine dall’orzo e dal frumento, impastandone eccellenti focacce e cuocendone pani. Come companatico avranno sale, olive e formaggio, e faranno bollire cipolle e ortaggi. Avranno fichi secchi, ceci e fave, e abbrustoliranno al fuoco bacche di mirto e di faggio, che accompagneranno con una moderata assunzione di vino..."

(Da Platone, Repubblica)


BIBLIO

- Arnaldo Marcone - Storia dell'agricoltura romana - Carocci - 2004 -
- Carlo Carena - Lucio Giunio Moderato Columella - L'arte dell'agricoltura e Libro sugli alberi - Torino - Einaudi - 1977 -
- Robert Maxwell Ogilvie - De vita Agricolae - 1967 -
- Antonietta Dosi - A tavola con i Romani Antichi” (coautore Francois Schnell) – Quasar - Roma -
- Scriptores rei rusticae, seu Cato, Varro, Columella, Palladius Rutilius Taurus, Venetiis, apud Nicolaum Ienson - editio princeps - 1472 -
- Cristina Bindi - Echi di civiltà alimentari. Profumo di cucina Etrusca - Roma - Nuova Editrice Spada - 1993 - 1985 -



5 comment:

Anonimo ha detto...

Interessantissimo! Non si discostava poi molto dalle coltivazioni attuali. Grazie per L interessantissimo articolo.

Anonimo ha detto...

Bella storia. Complimenti per le ricerche storiche interessanti e istruttive.

Anonimo ha detto...

Molto istruttivo. Tutto internet dovrebbe essere fatto così!

LaTEI on 15 agosto 2023 alle ore 11:58 ha detto...

Cercando informazioni riguardo il giorno di Ferragosto, sono arrivata fino a qui. Grazie per questo grande lavoro di informazione!

Luca ha detto...

Davvero un bel sito, ben fatto, chiaro e vecchia scuola. Ottimo lavoro !

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