MARCO FURIO CAMILLO - FURIUS CAMILLUS




FURIO CAMILLO LIBERA ROMA

Nome originale: Marcus Furius Camillus
Nascita: 446 a.c. circa
Morte: 365 a.c.
Incarico politico: 401-365 a.c.

Marco Furio Camillo, Marcus Furius Camillus, nato circa nel 446 a.c. e morto nel 365 a.c., è stato un Generale e uomo politico romano di famiglia patrizia, che ha esercitato dall’inizio del IV sec., quindi in era repubblicana, fino al 365, anno della sua morte, un’indiscussa autorità sulla repubblica romana.

Fu censore nel 403 a.c., celebrò il trionfo ben quattro volte, cinque volte fu dittatore, quindi in caso di guerra, e fu onorato con il titolo di Pater Patriae, nonchè di Secondo fondatore di Roma. Fu sei volte tribuno militare con potestà consolare tra gli anni 401 a.c. e 381 a.c..

Egli divenne popolare da un atto di guerra, in cui Roma in guerra contro Volsci e Equi sotto il comando del dittatore Tubert Postumio, essendo Camillo comandante della cavalleria, salvò il dittatore, già ferito a una coscia, combattendo da solo contro i diversi nemici che lo attorniavano. Secondo Plutarco ciò gli valse la nomina a censore. Secondo Tito Livio, invece fu eletto tribuno con poteri consolari per la prima volta nell'anno 403 a.c.



I LATINI

I Latini intanto, erano stati invitati ad inviare truppe per Roma, per sostenere l'esercito romano. Essi avrebbero infatti, in base ai patti stipulati con Roma dopo varie guerre, ottemperare agli obblighi della Lega Latina in cui era entrata a far parte anche Roma, ma decisero, riunitisi i capo tribù nel bosco sacro della Dea Ferentina, di prendere le armi contro anzichè a favore dell'Urbe.



I GALLI

" Sunt et belli, sicut pacis, iura." 
"Esiste un diritto di guerra come esiste un diritto di pace".
(Tito Livio) 

Nel 367 a.c., essendo i consoli Publio Scipone ammalato e Marco Popilio ferito, il senato ordinò consoli Marco Furio Camillo e Appio Crasso. Intanto i Galli facevano continue razzie in territorio romano e i pirati greci depredavano le coste laziali. la situazione era molto pericolosa, i nemici premevano da ogni parte.

L'esercito romano era formato da 10 legioni di 4200 fanti e 300 cavalieri ciascuna. Il senato lo pose al comando di Furio Camillo, nominato pertanto Dictator, che, lasciate due legioni a guardia dell'urbe, ne passò quattro al comando del pretore Lucio Pinario per difendere la Maremma e le coste laziali. Con le restanti quattro legioni si recò nel pontico dove si erano accampati i Galli.

La guerra non avveniva in campo aperto perchè i Galli erano abituati alla guerriglia e rifiutavano lo scontro, ma ogni volta che incontravano un drappello romano lo assalivano e la stessa cosa facevano i Romani, ma con gravi perdite.

Evidentemente stanchi i Galli proposero un combattimento tra due eroi, e il romano fu Marco Valerio che, racconta la leggenda, fu aiutato nel combattimento da un corvo che si posò sul suo elmo. I Galli irritati dalla morte del compagno si lanciarono contro Marco Valerio ma i Romani fecero altrettanto. al che i Galli fuggirono verso Falerno. Marco Valerio ottenne in premio una corona d'oro e dieci buoi, e da allora fu soprannominato Corvino.



IL SECONDO ROMOLO

Marco Valerio Corvino aveva sconfitto I Vosci facendo ben 4000 prigionieri e distruggendo Satrico, ma venne il tempo della rivolta degli Aurunci e il senato nominò dittatore Marco Furio Camillo che presto sbaragliò il nemico e si dimise da dittatore lasciando il resto ai nuovi consoli.

Sembra che il nuovo assetto dell'esercito fosse dovuto all'organizzazione di Furio Camillo, per cui la cavalleria, di supporto alla fanteria, aveva il compito di aprire varchi tra i nemici, di aggirare i nemici e di inseguirli, grazie alla velocità dei cavalli, ma all'occorrenza abbandonava i cavalli combattendo a fianco della fanteria.

Un manipolo sulla punta di una lunga pertica era l'insegna dei primi romani nei leggendari tempi di Romolo. Il manipolo, o mannello, era un fascio di spighe, o di erba, issata su una pertica. Da questa insegna derivò il manipolo come unità tattica della legione romana, che si sviluppò dal IV secolo a.c. e durò per tutta la repubblica. Secondo la tradizione, la tattica manipolare fu introdotta nell'esercito romano da Marco Furio Camillo.

Eutropio, Breviarium ab Urbe condita:

"Dal Senato fu inviato in qualità di dittatore contro i Veienti, che dopo vent'anni si erano ribellati, Furio Camillo. Egli li vinse prima in battaglia, quindi conquistò anche la loro città. Presa Veio, vinse anche i Falisci popolo non meno nobile. Ma contro Camillo sorse un'aspra invidia, con il pretesto di un' ingiusta divisione del bottino, e per tale motivo fu condannato ed espulso dalla città. Subito i Galli Senoni calarono su Roma e, sconfitto l’esercito romano a dieci miglia dall'Urbe, presso il fiume Allia, lo inseguirono e occuparono anche la città. 

Nulla poté essere difeso tranne il colle Campidoglio; e dopo averlo a lungo assediato, mentre ormai i Romani soffrivano la fame, in cambio di oro i Galli levarono l'assedio e si ritrassero. Ma Camillo, che viveva da esiliato in una città vicina, portò il suo aiuto e sconfisse duramente i Galli. Ma non solo: Camillo inseguendoli ne fece tale strage che recuperò sia l'oro ch'era stato loro consegnato, sia tutte le insegne militari da essi conquistate. Così riportando il trionfo per la terza volta entrò in Roma e venne chiamato "secondo Romolo" come fosse egli stesso fondatore della patria"



LA DISTRUZIONE DI VEIO

Infatti Furio Camillo fu eletto di nuovo dittatore durante la guerra contro Veio, che assediata, con un'irruzione notturna aveva bruciato l'accampamento dei Romani. A questo punto ci fu una dura reazione e tutti i giovani dell'Urbe chiesero di combattere e di non tornare se Veio non fosse stata distrutta.

"Erano entrati i Volsci e gli Equi con gli eserciti loro ne’ confini romani. Mandossi loro allo incontro i Consoli. Talché, nel travagliare la zuffa, lo esercito de’ Volsci, del quale era capo Vezio Messio, si trovò, ad un tratto, rinchiuso intra gli steccati suoi, occupati dai Romani, e l’altro esercito romano; e veggendo come gli bisognava o morire o farsi la via con il ferro, disse a’ suoi soldati queste parole:
« Ite mecum; non murus nec vallum, armati armatis obstant; virtute pares, quae ultimum ac maximum telum est, necessitate superiores estis ». 


(Venite con me, nè muro nè vallo nè uomini armati sono di ostacolo agli armati; la virtù splende come l'ultimo e il massimo giavellotto, perchè la necessità rende superiori)."

Sì che questa necessità è chiamata da Tito Livio « ultimum ac maximum telum » (ultimo e massimo giavellotto)

Camillo, prudentissimo di tutti i capitani romani, essendo già dentro nella città de’ Veienti con il suo esercito, per facilitare il pigliare quella, e tôrre ai nimici una ultima necessità di difendersi, comandò, in modo che i Veienti udirono, che nessuno offendessi quegli che fussono disarmati; talché, gittate l’armi in terra, si prese quella città quasi sanza sangue. Il quale modo fu dipoi da molti capitani osservato."

Furio Camillo fece voto di riedificare a Roma il tempio della Mater Matuta, e dopo l'assedio e le varie battaglie durati ben 10 anni, riuscì a vincere, scavando tra l'altro un cunicolo che portava dentro la cittadella, e contemporaneamente attaccando le mura per distrarre i Veienti.

Il cunicolo portava direttamente nel tempio di Giunone, da cui irruppero nella città. Conquistata la città, per evitare ulteriori guerre contro gli irriducibili veienti, rase al suolo Veio riportandone grande bottino, tra cui la bellissima statua di Giunone corredata dai sacerdoti auruspici etruschi.



FALERIA VETERE

La storia di Furio Camillo è ricca di aneddoti anche leggendari. Tra questi si narra che durante l'assedio della città di Falerii, capitale del popolo dei Falisci, avvenne un tradimento da parte di un insegnante di scuola che portò alcuni dei suoi alunni, figli di eminenti personaggi di Falerii, nel campo militare romano; ma Furio Camillo, rifiutando di usare i fanciulli come strumento di ricatto, consegnò l'insegnante denudato ai fanciulli che lo bastonarono per il tradimento, poi restituì gli alunni alla città assediata.

"O infame uomo" rispose Camillo "tu con questo dono scelleerato non sei venuto ad un popolo o ad un capitano a te somigliante. Noi non usiamo le armi contro i fanciulli, ai quali si risparmia la vita anche quando si risparmia una città, noi le usiamo contro gli armati e contro quelli che, pur da noi non offesi o molestati, giunsero a Veio a combattere contro il nostro esercito. Tu hai superato i tuoi concittadini con questa tua infamia, e sappi che io vincerò soltanto con i mezzi che di solito usano i Romani: con la virtù, con le munizioni e con le armi."

I Falisci, commossi dal gesto, e forse affamati e stanchi, decisero di arrendersi al comandante romano. Come per la maggior parte delle leggende, probabilmente esse nascono da eventi storici reali su cui la tradizione si è un po' allargata.

Tre anni dopo aver concluso la pace con i Falisci, fu però accusato dal Tribuno della Plebe Lucio Apuleyo (da non confondere con lo scrittore che visse diversi secoli dopo) di aver distribuito in modo ingiusto il bottino bellico, per cui se ne andò in esilio volontario ad Ardea. Forse l'invidia o la sua entrata trionfale in Roma su un carro tirato da cavalli bianchi, furono la causa delle accuse.



IL SACCO DI ROMA

I Romani già attaccati dai Galli Senoni e sconfitti 
nella Battaglia del fiume Allia, videro nel 390 i 
Galli conquistare le parti periferiche di Roma e 
cingere d'assedio il Campidoglio. 

Fu qui che le oche del Campidoglio, sacre a Giunone, avvertirono i Romani, che l'intesero come un aiuto della Dea, innalzando poi un tempio a Giunone Moneta, colei che ammonisce.

Sembra che i Romani fossero costretti a pagare 
molto oro e a consegnare le insegne cittadine per 
far togliere l'assedio. 

Secondo un'altra storia un certo Calcidius, avvertì di un imminente attacco gallico e consigliò di rimettere in sesto le mura della città, ma essendo plebeo, Calcidius non fu creduto.

Ma anche un Dio avvertì, un certo misterioso Aio Locutio. A città saccheggiata da Brenno, Furio Camillo decise di onorare il Dio autore dell' inascoltato avvertimento, erigendo un altare nel luogo ove la voce era stata udita, ai piedi del Palatino, sulla Nova Via, tra il tempio ed il bosco sacro di Vesta.

Successivamente, mentre i Galli tornavano indietro verso i loro territori, i Romani richiamarono Furio Camillo, già esiliato ad Ardea, nominandolo nuovamente dittatore. Per altri fu lui a tornare spontaneamente per liberare la città.

Qui si moltiplicano le storie e forse le leggende, per cui, avendo i Galli saccheggiato Roma, impose alla città un gravoso riscatto per evitare un altro attacco. Fu così costruita una grande bilancia, dove ogni cittadino romano portava l'oro per pagare i Galli. Camillo, travestito, si presentò in città, ma giunto davanti alla bilancia vi gettò sopra la sua spada dicendo:

"Roma si salva con il ferro, non con l'oro!"
 (Non auro sed ferro recuperanda est Patria).
Guidò pertanto l'esercito contro i Galli, sconfiggendoli e liberando la città dal loro giogo nel 390 a.c..

« ...si venne ad un accordo nel corso d'un abboccamento fra il tribuno militare Quinto Sulpicio e Brenno, principe dei Galli, e si fissò in mille libbre d'oro il riscatto del popolo romano, destinato di lì a poco a dominare il mondo intero. Al patto di per sé vergognoso si aggiunse l'oltraggio. Dai Galli furono portati pesi falsi e, poiché il tribuno protestava, un Gallo insolente aggiunse al peso la sua spada, esclamando parole intollerabili per i Romani: "Guai ai vinti!" »

(Tito Livio, Ab Urbe condita, V, 48.)

Per un'altra leggenda infatti i Romani stavano pesando su una bilancia l'oro che avrebbero dovuto versare ai galli come tributo di guerra, quando qualcuno tra loro protestò perché i pesi della bilancia erano truccati. Brenno allora sfoderò la sua pesante spada e la aggiunse sul piatto dei pesi, rendendo il calcolo ancora più iniquo, ed esclamando:

"Vae victis!" cioè "Guai ai vinti!",
per significare che le condizioni di resa le dettano i vincitori sulla sola base del diritto del più forte. E ancora:

"Brenno, capo dei Galli Senoni, conquistata Roma, non riuscendo a tenerla a lungo sotto il suo giogo, patteggiò il ritiro delle truppe galliche, messe peraltro in fuga dallo starnazzare di alcune oche, contro il pagamento di una certa quantità di oro. Ma tale Marco Furio Camillo sfidò il Brenno in ritirata e riuscì a sconfiggerlo. Il Brenno, per la vergogna, si suicidò buttandosi nel fiume che ora si chiama Brembo."

Per altri Camillo, raccolte le truppe romane, inseguì i Galli, li sconfisse facendone grande strage e recuperò le insegne ed il bottino romano. Secondo altri fonti storiche, Furio Camillo riuscì a ricacciare i Galli lontano dal territorio romano, ma essi si ritirarono comunque in possesso del ricco bottino di guerra.




- 390 a.c. Nella leggenda si narra inoltre che nello stesso anno, nel 390 a.c. Camillo dissuase i Romani, scoraggiati dalla devastazione provocata dai Galli, dal migrare a Veio e li indusse a ricostruire la città, poi combatté con successo contro gli Equi, i Volsci e gli Etruschi e respinse un'ulteriore invasione dei Galli nel 367 a.c.

- Nel 384 a.c., eletto tribuno consolare per la quinta volta, Camillo si sarebbe opposto al tentativo di Marco Manlio Capitolino di farsi tiranno; alcune fonti narrano di una dittatura di Camillo, che avrebbe assalito il Campidoglio occupato da Manlio; ma non è attendibile. 

- Nel 381 a.c., eletto tribuno consolare per la sesta volta  egli avrebbe condotto l'esercito contro i Volsci e i Prenestini, rimandando per prudenza la battaglia, forzata però dal giovane collega assetato di gloria Lucio Furio Medullino, che però, a rischio di soccombere, sarebbe stato salvato da Camillo; ma questo racconto sa di invenzione. Sembra reale invece una sua spedizione contro i Tusculani, che avevano prestato aiuto ai Volsci e che egli trovò pacifici; il senato perdonò loro, concesse la pace e poco dopo anche la cittadinanza. 

- Nel 374 a.c. i nuovi tribuni militari con potestà consolare Spurio e Lucio Papirio guidarono le legioni contro Velletri, mentre i loro quattro colleghi Servio Cornelio Maluginense (eletto per la terza volta), Quinto Servilio, Gaio Sulpicio e Lucio Emilio (per la terza volta) rimasero a difendere la città, pronti all'eventualità che nuovi movimenti venissero segnalati dall'Etruria, zona dove ormai tutto era sospetto. Nei pressi di Velletri i Romani affrontarono, con successo, truppe ausiliarie mandate dai Prenestini, il numero delle quali quasi era superiore a quello degli stessi coloni. 

La vicinanza della città fu la causa di una più rapida fuga dei nemici e fu per loro l'unico riparo. I tribuni decisero di evitare l'assedio della piazzaforte sia per l'incertezza dell'esito sia nella convinzione che non fosse giusto mirare alla distruzione di una colonia. Nella lettera al senato per annunciare la vittoria, essi calcarono la mano sui Prenestini più che sui Veliterni, per cui il senato dichiarò guerra ai Prenestini.

Questi ultimi, alleatisi l'anno successivo con i Volsci, attaccarono Satrico, colonia del popolo romano, e, dopo averla espugnata non ostante la strenua resistenza degli abitanti, si comportarono indegnamente nei confronti dei prigionieri. I Romani nominarono per la sesta volta tribuno militare Marco Furio Camillo, cui vennero assegnati come colleghi Aulo e Lucio Postumio Regillense, Lucio Furio, Lucio Lucrezio e Marco Fabio Ambusto. 

Senza rispettare la regola, la guerra contro i Volsci venne affidata con procedura straordinaria a Marco Furio, cui fu assegnato come aiutante - estratto a sorte tra gli altri tribuni - Lucio Furio, affinchè potesse essere motivo di elogio per Marco, sia dal punto di vista pubblico, visto che riuscì a rimettere in piedi la situazione compromessa dalla temerarietà dell'altro, che da quello privato, perché utilizzò l'errore di Lucio per ottenerne la riconoscenza piuttosto che procurarsi della gloria per se stesso. 

Camillo, ormai avanti negli anni, era pronto, al momento dell'elezione, a giurare secondo le formule di rito che ragioni di salute lo obbligavano a rifiutare la carica: ma il popolo si oppose e dovette accettare Così, dopo aver arruolato quattro legioni di quattromila uomini ognuna, partì alla volta di Satrico. I nemici non appena videro i Romani avanzare, si schierarono in assetto di battaglia, ritenendo che il numero ridotto dei nemici avrebbe dato loro la vittoria.

Il nemico imbaldanzito avanzava anche in mezzo alla pianura e si spingeva quasi fino sotto il terrapieno dei romani, ostentando un'orgogliosa fiducia nelle proprie forze. I soldati romani mal tolleravano queste esibizioni, e Lucio Furio li sobillava screditando il prestigio del collega per l'età. Lucio Furio portò le sue proteste al comandante: "Non possiamo, o Marco Furio, frenare più a lungo l'entusiasmo dei soldati, mentre il nemico, di cui abbiamo incrementato il coraggio a forza di indugiare, ormai ci offende con un'intollerabile arroganza. Fatti da parte, visto che sei solo contro tutti, e lasciati vincere dal buon senso, in modo da vincere più rapidamente in guerra.

Camillo replicò che nelle guerre combattute finora, né il popolo romano né lui stesso si erano mai pentiti delle sue risoluzioni o della sua buona sorte; sapeva di avere ora un collega con pari diritti e autorità, ma superiore per il vigore dovuto alla giovane età. Perciò, pur essendo abituato - almeno in ciò che riguardava l'esercito - a comandare e non a essere comandato, non aveva il potere di ostacolare l'autorità del collega. 

Agisse, dunque, lo invitò, come riteneva più vantaggioso per la repubblica: egli, per parte sua, domandava di non andare in prima linea in considerazione dell'età, garantendo però che non sarebbe venuto meno agli obblighi di un anziano in guerra. Lucio schierò la prima linea, mentre Camillo assicurò la copertura delle retrovie, disponendo un solido contingente di fronte all'accampamento. Poi si andò a piazzare su un'altura, osservando le sorti.

Al primo scontro delle armi, i nemici indietreggiarono, non per paura ma per inganno. Alle loro spalle c'era un lieve rialzo del terreno tra il campo di battaglia e l'accampamento. Siccome avevano uomini in eccesso, i nemici avevano schierato nell'accampamento alcune coorti armate, che dovevano uscire a combattere nel caso in cui, durante la battaglia, i Romani si fossero avvicinati alla trincea. Così questi ultimi, all'inseguimento dei nemici in ritirata, vennero attirati in posizione svantaggiosa, dovendo affrontare sia il nuovo nemico, sia il declivio del fondovalle. 

I romani incalzati dalle forze fresche dei Volsci e da quelli che si erano ritirati simulando la fuga corsero all'impazzata in direzione dell'accampamento. Allora Camillo gridò: " E' questo soldati, il tipo di battaglia che volevate? C'è qualcuno tra gli uomini, tra gli dei che ora possiate accusare? Vostra è stata la temerarietà di prima, così come vostra è adesso la viltà. Avete seguito un altro comandante: ora seguite Camillo e, com'è vostra abitudine quando sono io al comando, vincete. Perché fissate la trincea e l'accampamento? Nessuno di voi ci entrerà, se non da vincitore.

Prima la vergogna arrestò le truppe in fuga. Poi, quando videro che gli stendardi si rivolgevano in avanti e che le schiere puntavano contro il nemico, e che il loro comandante, famoso per i molti trionfi ottenuti e venerando per età, si esponeva al pericolo in mezzo ai vessilliferi, cioè là dove il rischio e l'intensità della battaglia erano elevatissimi, lanciando il vessillo romano oltre le schiere nemiche, per spronare i romani al combattimento, cominciarono a incitarsi reciprocamente, e il grido di mutuo incoraggiamento si diffuse per tutto l'esercito con animoso clamore. Lucio Furio scongiurò gli uomini di evitargli l'incriminazione come responsabile dell'infausta sorte di quel giorno. 

"Nonostante l'opposizione e la resistenza del mio collega, ho preferito associarmi all'imprudenza di tutti piuttosto che all'assennatezza di un solo uomo. Camillo, qualunque sia l'esito della vostra battaglia, ne avrà gloria. Io invece, se la situazione non si ristabilisce, avrò modo di sperimentare quanto di più infelice vi può essere, e cioè dividere con voi tutti la sconfitta, ma subire da solo il peso dell'infamia.

Siccome la linea del fronte ondeggiava, sembrò che la cosa più opportuna fosse abbandonare i cavalli e attaccare il nemico a piedi. Rifulgendo per le armi e il coraggio, i cavalieri appiedati si diressero dove le schiere di fanti erano sottoposte alla massima pressione. Nè i comandanti nè i soldati si concessero un attimo di tregua in quello scontro durissimo, e l'apporto offerto dai loro sforzi valorosi si fece sentire nell'esito finale. I Volsci vennero sbaragliati e costretti stavolta a una fuga autentica. 

Non solo i romani conquistarono l'accampamento nemico ma vi fecero tanti prigionieri che superarono il numero dei caduti nemici. A Furio Camillo, tornato a Roma per ottenere il permesso di attaccare Anzio, il Senato affidò il comando delle operazioni belliche contro gli Etruschi che, approfittando dell'impegno romano contro i Volsci, avevano attaccato le città alleate di Sutri e Nepi.



LE LEGGI LICINIE

Secondo alcuni Camillo avrebbe rivestito per la quarta volta la dittatura per opporsi alle rogazioni Licinie-Sestie che consentiva anche ai plebei di adire al consolato; ma non avendo ottenuto nulla, abdicò. Questa dittatura è tuttavia da molti ritenuta falsa. 

- 367 a.c. Sembra invece che, sebbene patrizio, comprese la necessità di dare maggiori diritti alla plebe per cui si adoperò far approvare le Leggi licinie sestie. Infatti la tradizione attribuisce a Furio Camillo la realizzazione del Tempio della Concordia nel 367 a.c. per celebrare il termine degli scontri tra i patrizi e i plebei, conclusesi in quell'anno grazie alla promulgazione delle leggi Lacinie Sestie caldeggiate da Furio.

Queste leggi ebbero il merito di portare sullo stesso livello, per quanto riguarda la politica, le due principali classi sociali presenti a Roma. Si deve a lui anche la ricostruzione del Tempio della Fortuna nel Foro Boario.

- Ancora nel 367 a.c., vecchio di ottant'anni e dittatore per la quinta volta egli avrebbe combattuto contro i Galli sull'Aniene o sui colli Albani e avrebbe trionfato (cfr. Livio, VI, 42, 4 segg.); ma poiché Polibio. II, 18, 6, dice che i Galli marciarono su Roma per la seconda volta trent'anni dopo l'Allia, la notizia è dalla maggior parte dei critici respinta. 



LA MORTE

Camillo sarebbe morto nel 365 a.c. durante una pestilenza. Sui rostri nel Foro v'era una statua in bronzo molto antica di Camillo, forse con iscrizione, onore straordinario nella Roma del sec. IV, per un eroe che la tradizione proclamò "secondo fondatore di Roma" (Plutarco, Camillo, 1, 1). 

MARCO FURIO CAMILLO


TITO LIVIO

Discorso di Camillo al senato perchè non abbandonassero Roma:


"Gli scontri con i tribuni della plebe sono per me, o Quiriti, così dolorosi che durante il mio tristissimo esilio l'unico sollievo, per tutto il tempo che ho vissuto ad Ardea, era l'essere lontano da queste controversie,  per le quali non sarei mai tornato nemmeno se mi aveste richiamato migliaia di volte con delibera del senato o con il consenso unanime del popolo. Ciò che adesso mi ha indotto a ritornare non è stato un cambiamento d'animo, ma il mutamento della vostra sorte. 

Poiché proprio di questo si trattava, che la patria rimanesse nella sua sede e non che io ad ogni costo vivessi in patria. E adesso me ne starei ugualmente al mio posto e tacerei volentieri, se anche questa non fosse una battaglia a favore della patria. Se il non prendervi parte finché c'è vita sarebbe per altri una vergogna, per Camillo è un gesto sacrilego. 

Ma allora perché abbiamo cercato di riprenderci la patria, perché l'abbiamo strappata dalle mani del nemico quand'era in stato d'assedio, se, dopo averla recuperata, siamo noi ad abbandonarla di nostra volontà? 

Quando i Galli vincitori avevano occupato la città, ciò nonostante la cittadella e il Campidoglio erano in mano agli dèi e agli uomini romani, ora che sono i romani ad avere la meglio e la città è ritornata interamente nostra, verranno abbandonati anche la cittadella e il Campidoglio, e la nostra buona sorte regalerà a questa città più desolazione di quanta non ne abbia portata la cattiva? 

Anche se non avessimo obblighi religiosi nati insieme a Roma e tramandati di mano in mano nel corso dei secoli, oggi l'appoggio degli Dei alla causa romana è stato così evidente da credere inammissibile per gli uomini un'incuria nei confronti degli Dei. 

Considerate  gli avvenimenti positivi e negativi di questi ultimi anni: vi renderete conto che tutto il bene è venuto finché ci siamo lasciati guidare dagli Dei, il male invece quando li abbiamo trascurati. Prendiamo  la guerra contro Veio (per quanti anni si è trascinata e con quanta sofferenza!): non se ne venne a capo fino a quando non drenammo, su invito degli Dei, il lago Albano. 

Che dire poi del disastro senza precedenti toccato di recente alla nostra città? È forse successa prima che noi trascurassimo quella voce proveniente dal cielo che annunciava l'arrivo dei Galli, o prima che il diritto delle genti venisse violato dai nostri ambasciatori, o ancora prima che noi, invece di punire tale violazione, la passassimo sotto silenzio sempre per quella stessa trascuratezza nei confronti degli Dei? 

Perciò, vinti, fatti prigionieri e riscattati a peso d'oro, siamo stati puniti dagli Dei e dagli uomini in maniera così severa da servire d'esempio a tutto il mondo. In seguito le avversità ci hanno richiamato agli obblighi religiosi. Siamo andati a rifugiarci sul Campidoglio presso gli Dei, nella sede di Giove Ottimo Massimo. 

Degli oggetti sacri, alcuni, quando la nostra situazione era precipitata, li abbiamo nascosti sotto terra, altri, dopo averli rimossi, li abbiamo trasferiti in città vicine perché fossero lontani dagli occhi dei nemici. Pur essendo stati abbandonati dagli Dei e dagli uomini, ciò non ostante non abbiamo mai tralasciato il culto degli Dei. 

Per questo essi ci hanno restituito la patria, la vittoria e l'antico splendore militare che avevamo perduto. E contro i nemici, rei, perché accecati dall'avidità, di avere violato il trattato e la parola data pesando l'oro, gli Dei hanno rivolto la paura, la fuga e la disfatta.

Vedendo quanto valga nelle cose umane seguire la divinità o trascurarla, non cominciate, o Quiriti, a intuire che empietà ci avviamo a commettere pur essendo appena scampati dal naufragio di una sconfitta che è la conseguenza della nostra colpa? Abbiamo una città fondata secondo i dovuti auspici ed augùri. 

In essa non vi è un solo angolo che non sia permeato dall'idea di religione e dalla presenza divina. Per i sacrifici solenni sono fissi non meno dei giorni i luoghi nei quali devono essere offerti. Avete dunque, o Quiriti, intenzione di abbandonare tutte queste divinità dello stato e delle famiglie? 

Come può esserci una qualche somiglianza tra la vostra condotta e quella del nobile giovane di nome Gaio Fabio che durante il recente assedio è stata ammirata non meno dai nemici che da voi, quando scendendo dalla cittadella tra le armi dei Galli si recò a compiere il rito prescritto alla famiglia Fabia sul colle Quirinale? 

Siete disposti a non trascurare gli atti di culto gentilizi nemmeno in tempo di guerra, e a abbandonare quelli di stato e gli Dei romani anche in tempo di pace? Accettereste che i pontefici e i flamini abbiano per i culti di stato minor cura di quanta non ne abbia avuta un privato cittadino per un rito della propria famiglia? 

Qualcuno potrebbe forse dire che questi culti li praticheremo a Veio oppure che di là invieremo qui a Roma dei nostri sacerdoti col compito di praticarli. Nessuna delle due soluzioni rispetta il rituale. 

E senza enumerare cerimonie e divinità, sarebbe possibile che durante il banchetto in onore di Giove il lettisternio venga allestito in un altro punto al di fuori del Campidoglio? Che dire poi del fuoco eterno di Vesta o della statua conservata all'interno del suo tempio come pegno del nostro potere? 

Che dire dei vostri scudi sacri, o Marte Gradivo, o tu, padre Quirino? Sareste dunque disposti ad abbandonare su suolo non consacrato tutti questi oggetti che sono coevi alla città e che in alcuni casi risultano ancora più antichi della sua stessa origine? 

Considerate quale sia la differenza tra noi e i nostri antenati: essi ci hanno tramandato alcuni riti da compiere sul monte Albano e a Lavinio. Ma se essi considerarono sacrilego trasferire dei riti da città straniere qui da noi a Roma, sarà mai possibile trasferirli di qui in una città nemica, senza che se ne debba pagare le conseguenze? 

Cercate, ve ne prego, di ricordare quante volte si sono rinnovate le cerimonie perché qualcosa del rito dei padri, vuoi per incuria o vuoi per fattori accidentali, era stato omesso. Poco tempo fa, dopo il prodigio del lago Albano, cosa fu d'aiuto alla città travagliata dalla guerra contro Veio se non il ripristino dei riti sacri e il rinnovamento degli auspici? 

Ma oltre a ciò, dimostrandoci memori del passato fervore religioso, non solo abbiamo introdotto a Roma delle divinità straniere, ma ne abbiamo anche istituito delle nuove. 

A Giunone Regina, trasferita di recente da Veio sull'Aventino, con che grandiosa magnificenza è stato dedicato un tempio grazie alla cura zelante delle matrone! 
Abbiamo ordinato di costruire un tempio in onore di Aio Locuzio per la voce udita nella Via Nuova e proveniente dal cielo. 
Abbiamo aggiunto i Ludi Capitolini alle altre manifestazioni solenni e per volere del senato abbiamo costituito a tal fine un collegio speciale. 

Che bisogno c'era di introdurre queste novità, se avevamo intenzione di abbandonare Roma insieme ai Galli, e se non per nostra volontà siamo rimasti sul Campidoglio per tanti mesi d'assedio, ma perché trattenuti dai nemici con la paura? Parliamo di riti e di templi. 

Ma che dire dei sacerdoti? Non pensate mai al grave sacrilegio che si commetterebbe? Per le Vestali non c'è che un'unica sede, e niente le ha mai costrette ad abbandonarla se non la presa della città; per il flamine Diale è un sacrilegio trascorrere anche una sola notte fuori da Roma; e voi avete intenzione di far diventare questi sacerdoti Veienti anziché Romani? 

Possibile che le tue Vestali vogliano, o Vesta, abbandonarti, e che il flamine, abitando lontano da Roma, attiri notte dopo notte su se stesso e sulla repubblica una simile empietà? Che dire poi di tutti gli altri atti che realizziamo all'interno del pomerio dopo aver preso gli auspici? A quale sorta di oblio o di incuria li abbandoniamo? 

I comizi curiati che si occupano delle questioni militari, e i comizi centuriati nei quali eleggete i consoli e i tribuni militari, dove si possono tenere, in maniera conforme agli auspici, se non nei luoghi tradizionali delle sedute? Li trasferiremo a Veio? Oppure il popolo, in occasione dei comizi, si radunerà con grande disagio in questa città abbandonata dagli Dei e dagli uomini?

Ma, voi mi direte, così facendo tutto risulterebbe contaminato senza alcuna possibilità di purificazione; tuttavia lo stato delle cose in sé e per sé ci obbliga ad abbandonare una città trasformata in un deserto dagli incendi e dalle rovine, e a trasferirci a Veio dove tutto è intatto, evitando così di vessare la povera plebe con la ricostruzione qui della città. 


Eppure che questo sia un semplice pretesto più che il motivo reale credo vi sia chiaro, o Quiriti, senza che debba venirvelo a dire io; vi ricordate infatti benissimo di come, prima dell'arrivo dei Galli (quando cioè gli edifici pubblici e privati erano intatti e la nostra città era sana e salva), era già stata discussa questa stessa proposta di trasferirci a Veio. 

E considerate quale sia il divario tra il mio e il vostro modo di vedere le cose. Voi ritenete che anche se allora la cosa non doveva essere messa in pratica, adesso lo dev'essere. Io al contrario, anche se allora fosse stato giusto emigrare quando Roma era intatta, penso che adesso non dovremmo abbandonare queste rovine. 

Perché allora la vittoria sarebbe stata per noi e per i nostri discendenti un motivo glorioso per emigrare in una città conquistata, mentre adesso questa emigrazione risulterebbe per noi una umiliante vergogna, e un vanto per i Galli. 

Sembrerà infatti non che abbiamo abbandonato il nostro paese da vincitori, ma che l'abbiamo perduto da vinti; che la rotta presso l'Allia, la presa di Roma e l'assedio del Campidoglio ci abbiano imposto di abbandonare i nostri penati, condannandoci volontariamente all'esilio e alla fuga da quella terra che non eravamo in grado di difendere. 

Bisognerà lasciar credere che i Galli siano riusciti a distruggere Roma e che i Romani non siano stati capaci di ricostruirla? E cosa vi resta da fare, qualora debbano ripresentarsi con nuove truppe, si sa che il loro numero è sterminato, e decidano di stabilirsi in questa città conquistata da loro e da voi abbandonata, se non rassegnarvi? 

Se invece non i Galli ma i vostri nemici di un tempo, Equi e Volsci, dovessero emigrare a Roma, vi piacerebbe che essi diventassero Romani e voi Veienti? Oppure non preferite che questo sia un deserto vostro piuttosto che una città dei nemici? Non vedo cosa possa esserci di più abominevole. E voi sareste disposti a tollerare queste scelleratezze e queste vergogne solo perché vi infastidisce mettervi a ricostruire? 

Se in tutta la città non si riuscirà a tirare su nessuna casa che sia più bella o più ampia della famosa capanna del nostro fondatore, non sarebbe meglio abitare in capanne alla maniera di pastori e contadini, ma in mezzo ai nostri penati e ai nostri riti piuttosto che andare in esilio tutti insieme di comune accordo? 

I nostri antenati, degli stranieri, dei pastori, anche se da queste parti c'erano solo foreste e paludi, edificarono una città dal nulla in pochissimo tempo. E a noi, anche se il Campidoglio e la cittadella sono intatte e i templi degli Dei ancora in piedi, dà fastidio ricostruire ciò che è stato distrutto dagli incendi? E ciò che ciascuno di noi avrebbe fatto se fosse bruciata la sua casa, ci rifiutiamo di farlo insieme in questo incendio che ha coinvolto tutti?

Un'altra cosa. Se per motivi dolosi o per circostanze fortuite scoppiasse un incendio a Veio e le fiamme portate dal vento dovessero, come facilmente succede, divorare buona parte dell'abitato, emigreremo di lì a Fidene o a Gabi o in un'altra qualsiasi città? Siamo dunque così poco attaccati al suolo della nostra patria e a questa terra che chiamiamo madre, e il nostro amore verso la patria si riduce alle travi e ai tetti? 

E ve lo confesso in tutta sincerità - anche se non fa bene richiamare alla memoria il male che mi avete fatto -, ma quando ero lontano, ogni volta che andavo col pensiero alla mia terra, mi venivano in mente tutte queste cose: i colli, le campagne, il Tevere, la regione familiare alla vista e questo cielo sotto il quale ero nato e cresciuto. 

E vorrei, o Quiriti, che queste cose vi spingessero adesso, per il loro potere affettivo, a rimanere nella vostra terra, piuttosto che tormentarvi in futuro col desiderio nostalgico, quando le avrete abbandonate. 

Non senza una ragione gli Dei e gli uomini scelsero questo luogo per fondare la città: colli più che salubri, un fiume adatto per trasportare il frumento dalle regioni dell'entroterra e per ricevere i prodotti da quelle costiere, un mare vicino quanto basta per goderne i vantaggi e nel contempo non esposto, al pericolo di flotte nemiche, una posizione nel centro dell'Italia, insomma un luogo destinato esclusivamente allo sviluppo della città. 

Cosa questa di cui fanno fede le dimensioni stesse di un centro tanto recente. Siamo adesso, o Quiriti, nel 365° anno di vita della città. Voi è da moltissimo tempo che combattete in mezzo a popoli antichissimi: eppure, in tutto questo periodo né i Volsci insieme agli Equi, con tutte le loro formidabili fortezze, né l'intera Etruria potente com'è per mare e per terra e pur estendendosi per tutta l'ampiezza dell'Italia tra i due mari, riescono a tenervi testa in guerra. 

Siccome le cose stanno in questi termini, quale ragione vi spinge, dico io, dopo esperienze di tal genere, a cercarne altre, dato che, se anche il vostro valore potrà essere trasferito altrove, certo non lo potrà la fortuna di questo luogo? Il Campidoglio è qui, dove un tempo, quando venne ritrovato un cranio umano, gli indovini vaticinarono che sarebbe sorta la capitale del mondo e il comando supremo. 

Qui, quando il Campidoglio doveva essere liberato dagli altri culti secondo quanto stabilito dai riti augurali, Iuventa e Termine, con grandissima gioia dei vostri antenati, non permisero di essere rimossi. Qui c'è il fuoco sacro di Vesta, qui ci sono gli scudi mandati dal cielo, qui abitano tutti gli Dei a voi propizi se decidete di rimanere."

Pare che il discorso di Camillo, sia nell'insieme, sia soprattutto nella parte attinente alla sfera religiosa, suscitasse grande commozione. A dissipare ogni dubbio residuo furono però delle parole pronunciate in maniera tempestiva: mentre, poco dopo, il senato era riunito nella curia Ostilia per deliberare circa questo problema, e alcune coorti, di ritorno dai posti di guardia, attraversavano per puro caso a passo di marcia il foro, un centurione gridò nella piazza del comizio:
"O alfiere, pianta l'insegna: qui staremo benissimo."

Udita questa frase, i senatori uscirono dalla curia e gridarono all'unisono di voler accettare l'augurio e la plebe, accorsa tutta intorno, approvò. Respinta quindi la proposta di legge, si iniziò a riedificare la città senza un preciso progetto. Le tegole per i tetti vennero fornite a spese dello stato. Ognuno venne autorizzato a prender pietre e tagliar legname dovunque avesse voluto, a patto però di completare gli edifici entro la fine dell'anno.

La fretta liberò dalla preoccupazione di tracciare vie diritte, e tutti, non essendoci più alcuna distinzione tra le proprie e le altrui proprietà, costruivano là dove trovavano spazi liberi. Ecco la ragione per cui le vecchie cloache, un tempo condotte sotto le pubbliche vie, oggi passano in più punti sotto le case private, e la pianta di Roma somiglia a quella di una città nella quale il terreno sia stato occupato a casaccio più che diviso secondo un piano determinato.
Furio Camillo morì di peste all'età di 81 anni nel 365 a.c.


BIBLIO

- Tito Livio - Ab Urbe Condita Libri - libro V -
- Eutropio - Breviarium ab Urbe condita -
- G. Dumézil - Camillus - A story of Indo-European Religion as Roman History, Berkeley - Los Angeles - London 1980 -
- C. Dognini, I cavalli bianchi di Camillo in Guerra e diritto nel mondo greco e romano - vol. 28 - a cura di M. Sordi - 2002 -


6 comment:

Anonimo ha detto...

E' il mio eroe e lo adoro, grazie infinite siete dei grandi!

Anonimo ha detto...

credo ci sia un errore perchè nel 349 a.C come faceva ad essere console se morì nel 365 a.C?

Unknown on 12 gennaio 2019 alle ore 11:31 ha detto...

Non conoscevo molto bene questa figura. MI auguro che la sua statua fosse riprodotta tra i "Grandi uomini", le statue esposte nel Foro di Augusto. La sua frase "Non auro sed ferro recuperanda est patria" è piuttosto attuale... oggi che governano i "sacri vincoli" di bilancio. Grazie per questo articolo molto dettagliato e lunga gloria e memoria a Marco Furio Camillo.

idea sul nascere on 26 ottobre 2019 alle ore 15:44 ha detto...

Perche la storia fino alla nascita di Gesù viene datata andando indietro fino all'anno zero.

Angelo Pucci on 4 gennaio 2022 alle ore 20:10 ha detto...

Polibio non fa cenno a Camillo quando parla del sacco di Roma. Si limita a dire che i Galli temevano un intervento dei Veneti, alleati dei romani. E pertanto si ritirarono nelle loro terre (più o meno il nord delle Marche. Sena Gallica = Senigallia).

Auriane Camillo on 2 febbraio 2022 alle ore 04:47 ha detto...

Devido a contahem regressiva da epoca

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