LA DEVOTIO ROMANA



LA DEVOTIO
Nella religione romana esisteva una pratica magico-religiosa particolare, chiamata Devotio, il cui termine deriva da De Vovere, dove il termine "de" significa "da" e il termine "vovere" significa consacrare, che aveva a che fare sia col "promettere in voto" sia coi termini "De Vocare" cioè "chiamare da".

La Devotio infatti si rivolgeva nei casi più gravi e importanti agli Dei Mani (per cui"chiamare dall'oltretombe, dal Mundus"), nei meno gravi anche ad altri Dei, per cui la persona "devota" non aveva il senso attuale (di dedica particolare alla Madonna, ai Santi ecc.), ma indicava esclusivamente chi si era prefisso di chiamare delle divinità per ottenere un beneficio offrendo in cambio qualcosa di prezioso, equiparato nel valore a ciò che era stato richiesto.

E' da distinguersi dal voto, in cui si chiedeva qualcosa di importante agli Dei, ma la cui offerta era subordinata all'esaudimento della richiesta, e non prima. Nella Devotio invece il richiedente offriva qualcosa senza aver ottenuto, e senza la certezza di ottenere qualcosa in cambio.

RITUALE DELLA DEVOTIO

DEVOTIO E FIORETTO

La Chiesa Cattolica l'ha rieditato cambiandogli nome, nel cosiddetto "fioretto", dove il fedele fa una rinuncia dolorosa (altrimenti non ha senso) chiedendo alla divinità di ottenere un risultato in cambio.
In genere i romani non ritenevano di doversi sacrificare agli Dei, il senso della rinuncia era sconosciuto ai romani che non erano affatto sacrificali, perchè quando sacrificavano, lo facevano sugli altri: gli animali o i nemici in battaglia.

I loro Dei, nella religione romana, non godevano delle sofferenze dei seguaci, nè delle loro rinunce, i romani erano molto razionali e così immaginavano i loro Dei, che non volevano sofferenza ma la devoluzione, o consacrazione, di beni preziosi.

C'era inoltre la credenza che se qualcosa veniva spezzato, distrutto, in modo che nessuno potesse più farne uso, poteva essere utilizzato dagli Dei. Quando i romani sacrificavano un animale non era l'uccisione ad appagare gli Dei, ma la carne che veniva bruciata, perchè solo quella arrivava fino al regno dei divini. Infatti solitamente si bruciavano le viscere e gli organi interni in generale, mentre il resto veniva distribuito e mangiato come cibo benedetto, ma che non arrivava agli Dei.

Infatti solo in casi molto gravi l'animale sacrificato veniva bruciato completamente, quindi regalato per intero agli Dei, perchè per il resto le carni del sacrificato venivano mangiate dai sacerdoti, se il sacrificio implicava un piccolo animale, come un piccione, un coniglio ecc. ma se l'animale era grande, tipo un bovino, la carne veniva distribuita (ovviamente cotta) al popolo che assisteva al sacrificio, insieme a focacce e vino se il rito era pubblico e importante.

I romani da un lato credevano che gli atti sacrificali attirassero la benevolenza divina sulle vicende umane; dall'altro, ritenevano i sacrifici indispensabili per la stessa sopravvivenza degli Dei. Insomma gli Dei dovevano essere nutriti. Con tutti gli Dei e i relativi templi che c'erano a Roma, facendosi un  po' di giri, un romano poteva quasi ogni giorno ottenere un pasto gratuito.

LARI E PENATI

PII E DEVOTI

Il romano ideale aveva dei doveri fondamentali a cui doveva ottemperare:

- Roma, cioè la patria, quindi combattere per essa o fare tutto ciò che si poteva per aiutare i combattenti.

- Gli Dei, quindi andare una volta all'anno nei templi delle maggiori divinità di Roma e fare offerte per i sacrifici. In casa poi attendere al culto dei Lari e dei Penati.
Se si faceva qualcosa in più per una o più divinità a cui si era particolarmente affezionati, o che servivano in quel momento o in quella particolare circostanza (guerra, affari, matrimonio ecc.) il cittadino in questione era senz'altro un uomo pio.

- La famiglia, cui doveva ottemperare nell'educazione e il sostentamento dei figli, con il sostentamento e il rispetto della moglie e con la cura dei servi e degli schiavi con i quali ugualmente occorreva esse dei buoni "pater familias"

Al contrario però, se un cittadino romano si dedicava oltre al dovuto ai templi e alle preghiere, veniva considerato di carattere strambo e poco stabile, insomma uno che aveva problemi, e veniva giudicato un "fanaticus", appunto un fanatico, quindi un tipo poco serio e affidabile. Il culto di Iside venne più volte abrogato a Roma perchè i suoi accoliti erano eccessivamente fanatici.

Pertanto il concetto di Pio era ben lungi dall'odierno concetto di devoto, dove non c'è limite alla dedizione del seguace alla divinità. per il Dio monoteista la dedizione non ha limite, più ci si sacrifica e meglio è. Il Pio cercava di essere equilibrato e per lui un devoto odierno sarebbe stato definito un "fanaticus".



I TIPI DI DEVOTIO

Esistevano vari tipi di devotio:


DEVOTIO DUCIS

- la Devotio come sacrificio supremo di se stessi per la vittoria in battaglia e quindi per il bene di Roma, detta Devotio Dux.
« In questo momento di smarrimento, il console Decio chiamò Marco Valerio a gran voce e gli gridò: "Abbiamo bisogno dell'aiuto degli Dei, Marco Valerio. Avanti, pubblico pontefice del popolo romano, dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita in sacrificio per salvare le legioni." »
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VIII, 9)

- la Devotio Ducis come sacrificio del comandante supremo, più raro ma molto spettacolare. Il dux, che doveva essere un "magistratus cum imperio" cioè un console, un pretore o un dittatore, si votava agli Dei Ctonii e alla Dea Terra (Diis manes e Tellus Mater), da un lato perchè si offriva come "piaculum omnis Deorum irae", dall'altro offriva agli Dei un dono prezioso perchè un eroico soldato romano, come disse decio mure, era di quanto più prezioso avesse la sua patria.

Quando un rito coinvolgeva la morte spesso di ricorreva agli Dei Mani, ma i romani non amavano rivolgersi a questi riti per il non confessato timore che, una volte scatenati, questi Dei andassero un po' oltre coinvolgendo nella morte qualcun'altro, magari lo stesso richiedente. non a caso nei due giorni in cui a Roma veniva aperto il mundus tutte le attività pubbliche venivano bloccate, trattandosi di un giorno nefas (non-fare - nefasto).

In alcuni casi il Dux poteva chiedere a un certo cives di sacrificare se stesso, ma questi doveva farlo di sua spontanea volontà senza pressione alcuna, bensì solo per amor di patria. Se il cives non moriva nonostante le buone intenzioni (non veniva ucciso dai nemici per puro caso) era sufficiente il rito di espiazione del piaculum e il cives era salvo. non andava così per il Dux, egli non poteva più compiere cerimonie religiose agli Dei, (perchè sacer o execratus), ma poteva solo consacrare le sue armi e preferibilmente a Vulcano.

La Devotio Ducis comunque non poteva prescindere dall'auto "consecrazio" del "magistratus cum imperium", dalla "Devotio Hostium", per la quale si sacrificavano tre pecore nere (ai mani), e dalla richiesta invece di salvezza sia per l'esercito che per il popolo romano. Si trattava pertanto di un voto particolare, in cui l'offerta anticipava la soddisfazione della richiesta, con l'idea che essendo l'offerta agli Dei assolutamente eccezionale, questi non potessero praticamente rifiutarla. Era come mettere le divinità in questione davanti al fatto compiuto.

STELE DI DECIO MURE

Decio Mure

E’ il nome di tre comandanti romani che si consacrarono agli Dei infernali, Dei Manes, per assicurare la vittoria ai loro eserciti. Era il rito della devotio, in cui si offriva la propria vita cercando la morte in battaglia, per la salvezza della patria.
Il primo fu Publio, nel 340 a.c., durante una battaglia contro i Latini alle falde del Vesuvio.
Il secondo fu suo figlio a Sentino, ove, insieme a Fabio Rulliano, vinse i Sanniti, i Galli, gli Etruschi e gli Umbri coalizzati contro Roma.
Il terzo Decio Mure, figlio di questo, secondo una tradizione piuttosto discussa, si sarebbe sacrificato nella battaglia d'Ascoli Satriano del 279 a.c., durante la quale però i Romani furono sconfitti da Pirro.

IL SACRIFICIO DI DECIO MURE
Quindi Publio Decio Mure, vestita la toga pretesta, montò a cavallo tutto bardato per la battaglia, gridò le parole di rito e si lanciò furioso tra i nemici, bene in vista di fronte ad entrambi gli schieramenti combattenti. Dopo aver ucciso molti nemici, cadde a terra, abbattuto dai dardi e dalle schiere latine. Ma questo gesto, che i Romani consideravano rituale, diede ai suoi una tale fiducia ed un tale vigore che essi si gettarono tutti assieme nella battaglia ottenendo la vittoria.

Fu così che Decio si sacrificò per la vittoria, uno dei migliori della gioventù romana, dal momento che la sua schiera era incalzata maggiormente dai nemici. Pagando il prezzo della sua giovane vita lasciò la vittoria e la vita ai suoi compagni.

"Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Diui Nouensiles, Di Indigetes, Diui, quorum est potestam nostrorum hostiumque, Dique Manes, uos precor ueneror, ueniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium uim uictoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut uerbis nuncupaui, ita pro re publica populi Romani Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus Tellurique deuoueo."

Traduzione:

"Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dei Indigeti, Dei che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici."

Il poeta Accio lo fece protagonista di una sua "pretesta" che contribuì ad immortalarne la fama. La Pretexta era una tragedia in cui l'attore, data la solennità dell'argomento, indossava, al posto della solita toga, una toga paetexta, cioè bordata di porpora, come indossavano i re o i senatori, ma in realtà il protagonista della Dux Devotio indossava realmente una praetexta, la toga dei senatori, nessuno più di lui ne avrebbe avuto diritto.

DELENDA CARTHAGO

DEVOTIO HOSTIUM

- la Devotio Hostium come sacrificio del territorio nemico, in genere una città, con beni mobili e immobili, civili e militari compresi. In genere si procedeva prima con una Evocatio, cioè un rito in cui si invitava la divinità che proteggeva il territorio nemico ad acconsentire ad essere trasferita nella città di Roma, dove sarebbe stata locata in un tempio degno ed onorata come e più di prima. La Devotio Hostium di solito prescindeva dalla Devotio Ducis.

Offrire una città significava una grande perdita per i romani, perchè la città conquistata:
- avrebbe devoluto a Roma delle tasse annuali,
- avrebbe fornito un grande bottino tratto dall'erario di quel popolo,
- avrebbe fornito i "thesauri" suoi templi, in gioielli e monete,
- avrebbe poi fornito le proprie migliori opere d'arte per adornare Roma nonchè le case dei generali, - in più avrebbe fornito soldati in ausilio delle legioni romane in caso di guerra,
- inoltre avrebbe dato una parte dei suoi cittadini come schiavi da vendere al mercato di Roma.
- infine c'era l'ingrata operazione (in genere i romani non erano molto crudeli) di dover uccidere tutti i capi della città e chiunque avesse avuto mansioni di rilievo che potessero dargli un seguito tra i concittadini mettendogli in testa una qualche riscossa di tipo guerriero. Era una vera e propria carneficina.

Quindi consacrando alla devotio una città i romani rinunciavano a molto per cui dovevano avere buone ragioni per farlo:
- la prima di queste ragioni doveva essere che questo popolo aveva mosso più volte guerra ai romani mettendo l'urbe in serio pericolo,
- la seconda di queste ragioni era che la città avversaria era una potente concorrente nel commercio togliendo quindi a Roma molti guadagni,
- la terza era che trattandosi di un popolo coraggioso e bellicoso, per quanto venisse punito poteva sempre risollevarsi e costituire un problema per Roma.
Non a caso sia Cartagine che Veio vennero sottoposte alla Devotio e vennero cosparse di sale perchè non venissero ricostruite.

LA DEVOTIO DI CARTAGO

DEVOTIONES

- Un altro tipo di Devotio, ma in chiave minore, erano le devotiones, definite in genere come pratiche magiche affini alle defixiones, con cui un offerente si rivolgeva ad una divinità, non necessariamente infera, per domandare, in forma di preghiera, giustizia per qualche torto subito o che supponeva di subire.

Nel rito il patto includeva:
- il nome della divinità,
- il nome del questuante,
- l'esposizione del fatto,
- la promessa di una ricompensa alla divinità.
Si trattava in realtà di chiamare gli Dei ad intervenire su un grave torto subito o che si stava per subire, un torto che nè le autorità giudiziarie nè altri erano in gradi di ricomporre. Si chiedeva alla divinità, non necessariamente, ma in genere infera, di ricomporre la giustizia turbata da un uomo sommamente ingiusto.

L'idea era che il questuante fosse ben certo della sua innocenza ed ingiusta persecuzione, perchè se così non era gli Dei potevano ripiegare la loro collera sullo stesso questuante. Naturalmente l'offerta doveva essere congrua, non tanto di per se stessa, quanto rapportata alle possibilità del richiedente. Pertanto la richiesta era, ed era sentita, anche per questo, molto impegnativa e non veniva usata con leggerezza.


BIBLIO

- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - VIII - IX -
- Alison E. Cooley - "History and Inscriptions, Rome" -  The Oxford History of Historical Writing - ed. A. Feldherr & G. Hardy - Oxford University Press - Oxford - 2011 -
-  Aurelio Vittore - De Viris Illustribus Romae - XXVIII -
- Marcel Mauss, Henri Hubert - Essai sur la nature et la fonction du sacrifice - 1899 -
- Gerardus van der Leeuw - Phanomenologie der Religion - 1933 -
- René Girard - La violence et le sacré - 1972 -



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