TITO LIVIO (Ab Urbe Condita - Libro VI)




Ho esposto in cinque libri le gesta che i Romani hanno compiuto, dai tempi della fondazione della loro città fino alla sua presa, prima sotto i re e poi sotto consoli e dittatori, decemviri e tribuni consolari, nonché le guerre esterne e gli scontri interni. Si tratta di vicende poco chiare non soltanto per il fatto di essere successe in tempi antichissimi (e quindi simili a quegli oggetti che si riescono a malapena a distinguere per la grande distanza a cui si trovano), ma anche perché in quei tempi era raro e limitato l'uso della scrittura, il solo sistema affidabile per conservare il ricordo degli eventi passati, e anche perché, pur trovandosene accenni nei registri dei pontefici e in altri tipi di documenti pubblici e privati, la maggior parte dei dati esistenti andò distrutta nell'incendio di Roma. 

Da questo punto in avanti, verranno esposti avvenimenti più chiari e certi relativi alla storia civile e militare di Roma, che, dal momento in cui nacque per la seconda volta, fu come se fosse risorta più fiorente e rigogliosa dalle sue antiche radici. Ora Roma si resse in un primo tempo su quello stesso supporto che le aveva permesso di rialzare la testa, e cioè su Marco Furio, il suo cittadino più in vista, cui la gente non permise di abdicare dalla dittatura se non allo scadere dell'anno. 

Il fatto che presiedessero le elezioni per l'anno successivo quei tribuni sotto la cui magistratura la città era stata presa non sembrò cosa molto saggia: si tornò così all'interregno. Mentre la cittadinanza era occupata nelle incessanti e faticose opere di ricostruzione della città, Quinto Fabio, non appena uscito di carica, venne citato in giudizio dal tribuno della plebe Gneo Marcio con l'accusa di aver violato il diritto delle genti per aver combattuto contro i Galli ai quali era stato inviato in qualità di ambasciatore; la morte gli fece evitare però il processo e fu così tempestiva da far pensare alla maggior parte della gente che si fosse trattato di suicidio. 

L'interregno cominciò: interrè fu Publio Cornelio Scipione e dopo di lui Marco Furio Camillo. Questi nominò tribuni militari con potere consolare Lucio Valerio Publicola (per la seconda volta), Lucio Verginio, Publio Cornelio, Aulo Manlio, Lucio Emilio e Lucio Postumio. Entrati in carica immediatamente dopo l'interregno, essi diedero la precedenza assoluta alla discussione in senato delle questioni di natura religiosa. Uno dei primi provvedimenti presi fu quello di ordinare la raccolta dei trattati e delle leggi (quelle, cioè, delle dodici tavole e alcune leggi di età monarchica) ancora reperibili. 

Alcune di esse vennero rese accessibili anche al pubblico: quelle che però riguardavano la sfera cultuale furono tenute segrete dai pontefici, più che altro per soggiogare l'animo della massa con i vincoli religiosi. Poi si iniziò a discutere dei giorni nefasti. Il 18 luglio, giorno famigerato per una duplice sciagura, ossia il massacro dei Fabi presso il Cremera e il disastro militare dell'Allia con la conseguente distruzione di Roma, da quest'ultima disfatta venne chiamato Alliense e †distinto dagli altri come non adatto allo svolgimento di ogni tipo di attività pubblica e privata†. 

Ma siccome il giorno successivo alle Idi di giugno il tribuno militare Sulpicio non aveva offerto adeguati sacrifici e tre giorni dopo l'esercito romano era stato opposto al nemico senza aver ottenuto l' approvazione divina, alcuni ritengono che per questo motivo venne imposto di tralasciare i riti religiosi anche il giorno successivo alle Idi. Di lì si ritiene che divenne patrimonio tradizionale osservare lo stesso divieto anche nei giorni successivi alle Calende e alle None. 


II

Ma ai Romani non venne concesso di riflettere a lungo con serenità sui progetti di ricostruzione del paese dopo un disastro tanto grave. Da una parte i Volsci, nemici di vecchia data, avevano infatti preso le armi determinati a cancellare dalla faccia della terra il nome di Roma. Dall'altra, stando a quanto riferivano certi mercanti, i capi di tutti i popoli dell'Etruria si erano riuniti presso il santuario di Voltumna e avevano stretto un patto di guerra. Un nuovo motivo di allarme venne poi aggiunto dalla defezione di Latini ed Ernici, che per quasi cent'anni, cioè dai tempi della battaglia combattuta presso il lago Regillo, avevano mantenuto sempre una leale amicizia con il popolo romano. 

Così, visto il gran numero di minacce provenienti da ogni dove, ed essendo chiaro a tutti che ormai il nome di Roma non era soltanto oggetto di odio da parte dei nemici, ma anche di disprezzo da parte degli alleati, si decise di difendere il paese sotto gli auspici dello stesso personaggio che ne aveva propiziato la riconquista, e di nominare perciò dittatore Marco Furio Camillo. Questi, nella sua veste di dittatore, scelse come proprio maestro di cavalleria Gaio Servilio Aala e, dopo aver proclamato la sospensione dell'attività giudiziaria, organizzò una leva militare di giovani, facendo in modo però di distribuire in centurie, dopo un giuramento di obbedienza, anche i veterani dotati di un certo vigore fisico. 

Dopo aver così arruolato ed armato l'esercito, lo suddivise in tre parti. La prima, la stanziò nel territorio di Veio col cómpito di fronteggiare gli Etruschi. Alla seconda diede ordine di accamparsi di fronte a Roma, e ne affidò il comando al tribuno militare Aulo Manlio, mentre pose a capo delle truppe inviate contro gli Etruschi Lucio Emilio. La terza parte dell'esercitò la guidò lui in persona contro i Volsci e poco distante da Lanuvio - in un punto che si chiama Mecio - ne attaccò l'accampamento. 

I Volsci, che si erano buttati nella guerra spinti dal disprezzo e dalla convinzione che quasi tutta la gioventù romana fosse stata distrutta dai Galli, non appena seppero che il comandante era Camillo, si spaventarono a tal punto da proteggere se stessi con una palizzata e la palizzata con una barriera di tronchi d'albero, in maniera che il nemico non potesse penetrare da nessuna parte all'interno dei loro dispositivi di difesa. Quando Camillo se ne rese conto, ordinò ai suoi uomini di dar fuoco allo sbarramento di tronchi. 

Si era levato, per caso, un forte vento in direzione dei nemici, ed esso non solo aprì la strada all'incendio, ma spingendo verso le tende le fiamme miste al vapore, al fumo e al crepitio del legno verde che bruciava spaventò a tal punto i nemici che i soldati romani trovarono minore difficoltà nel superare la trincea fortificata dei Volsci di quanta non ne avessero avuta nell'attraversare la barriera divorata dal fuoco. 

Sbaragliati e fatti a pezzi i nemici, dopo aver assaltato vittoriosamente l'accampamento, il dittatore concesse il bottino ai soldati, cosa che risultò tanto più gradita alle truppe quanto meno attesa giunse, vista la scarsa abitudine del comandante a tali largizioni. Quindi, dopo aver dato la caccia ai fuggitivi devastando nel contempo l'intera campagna volsca, Camillo costrinse finalmente i Volsci alla resa dopo settant'anni di guerra. Vittorioso sui Volsci, Camillo si rivolse contro gli Equi che erano ugualmente impegnati in preparativi di guerra. Piombò a sorpresa sul loro esercito nei pressi di Bola e al primo assalto ne catturò non solo l'accampamento ma anche la città. 


III

Mentre le cose andavano più che bene in quel settore dove c'era Camillo, pilastro dello Stato romano, un altro settore era minacciato da un grosso pericolo. Quasi l'intera Etruria in armi assediava Sutri, città alleata del popolo romano. Ambasciatori di Sutri si erano presentati di fronte al senato con la richiesta d'aiuto in un momento tanto critico, e si era decretato che il dittatore intervenisse al più presto in loro soccorso. Ma gli assediati versavano in tali condizioni da non poter attendere che questa speranza si realizzasse e i pochi difensori erano ormai esausti per la fatica, per i turni di guardia e per le ferite che toccavano sempre agli stessi uomini; così, patteggiata la resa, avevano consegnato la città ai nemici, e stavano abbandonando disarmati le loro case in una colonna straziante ciascuno con il solo vestito che indossava. Proprio in quel momento, per puro caso arrivò Camillo con l'esercito romano. 

Quella triste massa di profughi gli si gettò ai piedi e i personaggi più influenti della città gli rivolsero parole di supplica dettate dall'amara necessità e accompagnate dal pianto delle donne e dei bambini che essi si trascinavano dietro come compagni del proprio esilio, Camillo ordinò ai Sutrini di smettere di lamentarsi, dicendo che erano gli Etruschi quelli a cui egli era venuto a portare lacrime e lutti. Ordinò ai suoi di deporre i bagagli, ai Sutrini di fermarsi lì, sotto la protezione di un modesto presidio, alle proprie truppe di portare con sé le sole armi. Così, con l'esercito libero da impacci, partì alla volta di Sutri dove trovò ciò che aveva supposto e cioè tutto incustodito, come di solito accade dopo un successo: nessun uomo di guardia davanti alle mura, le porte aperte, e i vincitori dispersi alla caccia di bottino nelle case. 

Pertanto Sutri venne presa per la seconda volta nel corso di quello stesso giorno. Gli Etruschi vincitori vennero trucidati qua e là dal nuovo nemico, senza che venisse loro dato il tempo di inquadrarsi e di raccogliere le forze o di prendere le armi. Quando tentarono, ciascuno per conto proprio, di raggiungere le porte per vedere se mai riuscissero a fuggire per i campi, le trovarono sbarrate (era stato quello il primo ordine di Camillo). Così alcuni afferrarono le armi, mentre altri, casualmente sorpresi dall'attacco improvviso con ancora le armi addosso, cercarono di chiamare a raccolta i propri compagni per combattere. 

E lo scontro sarebbe stato anche accanito vista la disperazione dei nemici, se degli araldi inviati in giro per la città non avessero ingiunto di deporre le armi e di risparmiare quelli che erano disarmati: nessuno, salvo quelli con le armi addosso, doveva subire alcuna violenza. E allora, anche quanti avevano deciso come estrema prospettiva di lottare sino alla morte, ora che veniva loro offerta la speranza di salvarsi la vita, buttarono le armi dove capitava e si presentavano disarmati al nemico (perché la sorte volle fosse questa la soluzione meno pericolosa). Una grande quantità di prigionieri venne distribuita tra i diversi posti di guardia. Prima del calar della notte la città venne restituita ai Sutrini, intatta e del tutto priva di tracce di guerra, perché non era stata presa con la forza ma aveva capitolato. 


IV

Camillo tornò a Roma in trionfo per le sue vittorie in tre guerre simultanee. La stragrande maggioranza di prigionieri che fece marciare davanti al proprio carro erano etruschi. Dalla loro vendita all'asta venne ricavata una tale quantità di denaro che, dopo aver ripagato le matrone per l'oro offerto allo Stato, quanto restava bastò per la costruzione di tre coppe d'oro sulle quali - come è noto a tutti - venne inciso il nome di Camillo e che fino all'incendio del Campidoglio furono conservate nella cella del tempio di Giove ai piedi della statua di Giunone. 

Nel corso di quell'anno fu concessa la cittadinanza a quanti, tra i Veienti, i Capenati e i Falisci, erano passati dalla parte dei Romani durante quelle guerre e a questi nuovi cittadini furono assegnati degli appezzamenti di terra. Con un decreto del senato vennero richiamati in città anche coloro che, essendo troppo pigri per ricostruire in Roma, si erano trasferiti a Veio andando ad occupare delle case trovate vuote. Dapprima si levarono gli strepiti di chi respingeva l'ingiunzione. Ma poi la designazione di una data precisa e la minaccia di pena di morte per chi si fosse rifiutato di rientrare a Roma piegò all'obbedienza, uno per uno, i recalcitranti in massa, non appena ciascuno di essi cominciò a temere per se stesso. 

E non solo Roma cresceva in numero di abitanti, ma dovunque sorgevano contemporaneamente nuovi edifici: lo Stato contribuiva a coprire le spese di costruzione, mentre gli edili sovrintendevano alle costruzioni come se si fosse trattato di lavori pubblici e i privati cittadini stessi - spinti dal desiderio di farne uso - si sbrigavano a portare a termine l'opera. Così nell'arco di un anno, venne tirata su una nuova città. A fine anno si tennero le elezioni di tribuni militari con potestà consolare. L'incarico lo ottennero Tito Quinzio Cincinnato, Quinto Servilio Fidenate (per la quinta volta), Lucio Giulio Iulo, Lucio Aquilio Corvo, Lucio Lucrezio Tricipitino e Servio Sulpicio Rufo. 

Essi guidarono un esercito contro gli Equi, non con intenzioni belliche - gli Equi si definivano vinti - ma spinti dall'odio a devastarne il territorio per non lasciar loro alcuni risorsa da impiegare in nuovi progetti di guerra. Con un secondo esercito, invasero invece il territorio di Tarquinia, dove presero con la forza le città etrusche di Cortuosa e Contenebra. A Cortuosa non vi fu lotta: con un attacco a sorpresa la presero al primo urlo di guerra e al primo assalto, per poi saccheggiarla e quindi darla alle fiamme. 

Contenebra resse invece l'assedio per alcuni giorni, ma l'incessante impegno armato, giorno e notte, senza alcuna tregua ebbe ragione dei suoi abitanti. Siccome l'esercito romano era stato diviso in sei contingenti ciascuno dei quali combatteva per sei ore a turno mentre gli assediati erano così pochi che toccava sempre agli stessi uomini stremati il cómpito di opporsi a forze sempre fresche, alla fine questi ultimi cedettero, e i Romani furono in grado di irrompere in città. 

L'intenzione dei tribuni sarebbe stata quella di destinare il bottino alle casse dello stato, ma furono meno pronti nell'impartire gli ordini che nel decidere: mentre tardavano, il bottino era già in mano ai soldati e non poteva più esser loro sottratto se non suscitandone il risentimento. Quello stesso anno, per evitare che Roma crescesse soltanto nell'edilizia privata, il Campidoglio venne munito di una sottostruttura di blocchi squadrati, un'opera che merita di essere vista anche in mezzo agli attuali splendori della città.

 

V

Mentre la popolazione era impegnata nelle opere di ricostruzione, i tribuni della plebe cercavano di attirare quanta più gente possibile alle loro riunioni puntando sulle proposte di leggi agrarie. Facevano balenare la speranza di avere l'agro pontino, del quale allora - dopo cioè la vittoria di Camillo sui Volsci - Roma ebbe per la prima volta pieno e indiscusso possesso. I tribuni formulavano l'accusa che quelle terre erano minacciate dai nobili più di quanto non lo fossero state dai Volsci. 

Questi ultimi, infatti, finché avevano avuto forze e armi, si erano limitati a compiervi delle incursioni, mentre i nobili anelavano al possesso dell'agro pubblico e, a meno che le terre non venissero divise in lotti prima dell'occupazione da parte degli ottimati, lì non ci sarebbe stato spazio per i plebei. Non riuscirono però a fare grande presa sulla plebe perché essa non era molto numerosa nel foro a causa delle preoccupazioni edilizie, sia perché era schiacciata dalle spese di costruzione, e perciò non stava a pensare alla terra, mancandole i mezzi per dotarla delle attrezzature necessarie. 

La città era piena di scrupoli religiosi. Ma in quel periodo, complice la recente sconfitta, essi si comunicarono anche ai più alti magistrati e così si tornò all'interregno per rinnovare gli auspici. La carica toccò in successione a Marco Manlio Capitolino, a Servio Sulpicio Camerino e a Lucio Valerio Potito. Quest'ultimo, alla fine, tenne i comizi per le elezioni di tribuni militari con potere consolare. Furono eletti Lucio Papirio, Gaio Cornelio, Gneo Sergio, Lucio Emilio (per la terza volta), Licinio Menenio e Lucio Valerio Publicola (per la terza volta). 

Questi uomini entrarono in carica alla fine dell'interregno. Nel corso di quell'anno il duumviro addetto ai riti sacri Tito Quinzio consacrò il tempio promesso a Marte durante la guerra contro i Galli. Vennero create quattro nuove tribù formate coi nuovi cittadini: la Stellatina, la Tromentina, la Sabatina e la Arniense, grazie alle quali il numero totale delle tribù raggiunse la quota di venticinque. 


VI

La questione dell'agro Pontino venne riproposta dal tribuno della plebe Lucio Sicinio al popolo ormai più numeroso nelle assemblee e sempre più pronto che in precedenza a cedere al desiderio di possedere la terra. In senato si accennò a una guerra contro Ernici e Latini, ma la preoccupazione di un conflitto di ben altre proporzioni (gli Etruschi erano infatti in armi) fecero differire l'iniziativa. La faccenda fu di nuovo rimessa a Camillo, tribuno militare con potestà consolare. Gli vennero assegnati cinque colleghi: Servio Cornelio Maluginense, Quinto Servilio Fidenate (per la sesta volta tribuno militare), Lucio Quinzio Cincinnato, Lucio Orazio Pulvillo e Publio Valerio. 

All'inizio dell'anno l'attenzione di tutti venne distolta dalla guerra con gli Etruschi perché una turba di gente fuggita dall'agro Pontino arrivò all'improvviso in città riferendo che gli Anziati erano in armi e che le comunità latine avevano inviato i propri giovani a questa guerra, negando però che l'iniziativa fosse il prodotto di una decisione ufficiale, visto che si erano limitati a non impedire ai volontari di militare dove volevano. Ma i Romani avevano ormai smesso di prendere alla leggera qualunque guerra. Così i senatori ringraziarono gli dèi per il fatto che Camillo fosse in quel momento in carica: in caso contrario, se cioè fosse stato un privato cittadino, avrebbero dovuto nominarlo dittatore. 

I suoi colleghi riconoscevano che, nel caso di una qualche incombente minaccia di guerra, la guida dello Stato toccava a un uomo solo: si dicevano quindi pronti a sottomettere il loro potere a quello di Camillo e ritenevano che qualunque concessione avessero dovuto fare all'autorità di quell'uomo non sarebbe stata una riduzione della propria. I senatori elogiarono i tribuni e Camillo stesso, profondamente commosso, ebbe parole di ringraziamento per loro. Poi disse che eleggendolo per la quarta volta il popolo romano lo aveva gravato di un'enorme responsabilità. E se da parte del senato, con il suo lusinghiero giudizio, si trattava di una grossa responsabilità, grossissima lo era per la deferenza manifestata verso di lui da colleghi così degni di stima. 

Di conseguenza, se gli era possibile aggiungere ancora altre fatiche e altre veglie, avrebbe gareggiato con se stesso per conservare stabilmente l'altissima stima che i suoi concittadini, unanimi, avevano dimostrato di possedere nei suoi riguardi. Quanto alla guerra con gli abitanti di Anzio, a sua detta si trattava più di minacce che di reali pericoli. Tuttavia, pur consigliando di non temere nulla, invitava anche a non prendere nulla alla leggera. La città di Roma era circondata dall'invidia e dal risentimento dei suoi vicini. 

Pertanto lo Stato aveva bisogno dell'opera di più generali e di più eserciti. «Il mio volere», disse, «è che tu, Publio Valerio, divida con me l'autorità e le decisioni e mi affianchi alla guida dell'esercito contro gli Anziati; quanto a te, Quinto Servilio, desidero che tu organizzi e tenga pronto un secondo esercito, e che ti accampi vicino a Roma, stando continuamente allerta, nel caso ci siano nel contempo dei movimenti sia da parte dell'Etruria, come è successo poto tempo fa, sia dalla zona di questo nuovo allarme, cioè Latini ed Ernici. Sono certo che condurrai l'operazione in maniera degna di tuo padre, di tuo nonno, di te stesso e dei tuoi sei tribunati. Lucio Quinzio arruoli poi un terzo esercito, composto di riformati e veterani, col cómpito di presidiare la città e le mura. Lucio Orazio si occupi invece di provvedere ad armi, proiettili, viveri e a tutto quanto si richiede in tempo di guerra. Quanto a te, Servio Cornelio, io e i tuoi colleghi ti preponiamo a questo consiglio di Stato, ti nominiamo custode dei riti religiosi, delle elezioni, delle leggi e di tutte le questioni relative alla città». 

Dopo che tutti ebbero garantito lealmente di fare del proprio meglio nei rispettivi incarichi assegnati, Valerio, che era stato associato al comando supremo, aggiunse che avrebbe considerato Marco Furio in qualità di dittatore e che per quest'ultimo egli stesso sarebbe stato alla stregua di un maestro di cavalleria. Di conseguenza le speranze di vincere la guerra avrebbero dovuto essere in proporzione alla fiducia nutrita nei confronti di quell'unico comandante. 

A quel punto i senatori, al colmo dell'entusiasmo, dichiararono di avere la massima fiducia circa l'esito della guerra, la pace e il benessere dell'intera comunità, aggiungendo che il paese non avrebbe avuto più bisogno di un dittatore se le magistrature avessero continuato a detenerle personalità di quel calibro, unite in un accordo armonioso di intenti, pronte tanto ad obbedire quanto a comandare, e capaci di riferire gli elogi alla collettività piuttosto che a sottrarli a quest'ultima per attribuirli a se stesse. 


VII

Dopo aver proclamato la sospensione di ogni attività giudiziaria e indetto una leva militare, Furio e Valerio partirono alla volta di Satrico, dove gli Anziati avevano raccolto non soltanto la gioventù dei Volsci, tratta dalla nuova generazione, ma anche un massiccio contingente di Latini ed Ernici, popoli pieni di vigore per via della lunga pace. Di conseguenza, l'aggiungersi di questo nuovo nemico a quelli di un tempo fu motivo di apprensione per i soldati romani. 

Quando i centurioni si presentarono a Camillo che stava già schierando le truppe in ordine di battaglia riferendogli che gli uomini erano demoralizzati, che avevano preso le armi senza entusiasmo, che erano usciti dal campo esitanti e riluttanti, e che anzi si era anche sentito qualcuno dire che in battaglia sarebbero stati uno contro cento e che una massa simile di nemici la si sarebbe potuta a stento contenere se disarmata e figurarsi con le armi in pugno, Camillo balzò in sella e cavalcando in mezzo alle file davanti alle insegne si rivolse ai suoi uomini in questi termini: 

«Che cosa significano queste facce tetre e questa insolita titubanza? Non conoscete il nemico, o me, o voi stessi? I nemici che altro sono per voi se non fonte inesauribile di gloria e di valore sul campo? Lasciamo da parte la conquista di Faleri e di Veio, il massacro inflitto alle legioni dei Galli quando Roma era in loro mano: sotto il mio comando, voi avete poco tempo fa celebrato un triplice trionfo per tre vittorie contemporanee ottenute su questi stessi Volsci ed Equi e sull'Etruria. 

O forse non mi riconoscete come vostro comandante solo perché non vi ho dato il segnale di battaglia in qualità di dittatore ma di tribuno? Ma io non desidero avere la massima autorità su di voi, Nè voi dovreste vedere nella mia persona nient'altro che me stesso. E infatti non è mai stata la dittatura a infordermi coraggio, come non me l'ha tolto l'esilio. 

Noi siamo quelli di prima, tutti, e siccome in questa guerra impiegheremo le stesse qualità utilizzate nelle precedenti campagne, dobbiamo attenderci gli stessi risultati. Non appena vi butterete all'assalto, ciascuno di voi farà ciò che ha imparato ed è abituato a fare: voi vincerete e loro si daranno alla fuga.» 


VIII

Dopo aver quindi suonato la carica, scese da cavallo e prendendo per mano l'alfiere più vicino lo trascinò con sé verso il nemico gridando: «Avanti l'insegna, o soldato!». Quando gli uomini videro Camillo in persona, ormai inabile alle fatiche per l'età avanzata, procedere verso il nemico levarono l'urlo di guerra e si buttarono all'assalto tutti insieme, ciascuno gridando per proprio conto «Seguite il generale!». 

Si racconta anche che Camillo ordinò di lanciare un'insegna tra le linee nemiche, e che gli antesignani furono incitati a riprenderla. Allora gli Anziati cominciarono a ripiegare e il panico non si diffuse soltanto tra le prime linee, ma anche tra le truppe di riserva. Ciò che li turbava non era unicamente l'impeto dei Romani accresciuto nella sua violenza dalla presenza del comandante, ma il fatto che per i Volsci non c'era niente di più inquietante dell'apparire qua e là di Camillo in persona. E per questo dovunque egli si rivolgeva, portava con sé la vittoria sicura. 

Ciò fu chiaro soprattutto quando, essendo l'ala sinistra ormai prossima a cadere, egli afferrò all'improvviso un cavallo e dirigendosi al galoppo in quella direzione armato di uno scudo da fanteria, ristabilì le sorti della battaglia con la sua sola presenza, mostrando che il resto dell'esercito stava avendo la meglio. L'esito della battaglia era già scontato, ma la grande massa dei nemici rappresentava di per sé un ostacolo alla fuga e i Romani, stremati dalla fatica, avrebbero dovuto compiere un lungo massacro per sterminare una simile moltitudine, quando all'improvviso i rovesci d'acqua di una violentissima tempesta interruppero quella che più di una semplice battaglia era ormai una vittoria sicura. 

Venne quindi dato il segnale della ritirata e la notte che seguì fu per i Romani immersi nel sonno la fine della campagna. Infatti Latini ed Ernici abbondonarono i Volsci e se ne tornarono nei rispettivi paesi, conseguendo un risultato all'altezza dei loro perfidi progetti. E i Volsci, quando si resero conto di essere stati abbandonati da coloro che li avevano indotti a ribellarsi e sui quali contavano, sgombrarono l'accampamento e si andarono a barricare all'interno delle mura di Satrico. Camillo sulle prime li fece isolare con la costruzione di una palizzata e di un fossato, pensando di cingerli d'assedio. 

Quando però vide che dall'interno non veniva effettuata alcuna sortita per impedire la costruzione in atto, pensando che il nemico fosse così scoraggiato da non giustificare una vittoria procrastinata nel tempo, esortò i suoi uomini a non sprecare troppe energie in lunghi lavori di fortificazione come se si fosse trattato dell'assedio di Veio, dato che ormai avevano in mano la vittoria; grazie infatti all'enorme ardore dei soldati, assalì le mura da ogni direzione e con l'uso di scale riuscì a catturare la città. I Volsci gettarono le armi e si arresero. 


IX

Ma i pensieri del comandante erano rivolti a una questione di ben altre proporzioni, e cioè ad Anzio, capitale dei Volsci, e causa della recente guerra. Ma siccome una città tanto potente non la si poteva prendere se non con l'impiego di un massiccio spiegamento di macchine da guerra e di ordigni da lancio, Camillo, dopo aver lasciato il comando dell'esercito al collega, partì alla volta di Roma per spingere il senato a distruggere Anzio. Mentre egli stava parlando - ho l'impressione che agli dèi stesse a cuore che la potenza di Anzio durasse più a lungo - da Nepi e da Sutri arrivarono ambasciatori per chiedere aiuto contro gli Etruschi, insistendo sull'urgenza del soccorso. 

Così la sorte rivolse in quella direzione la forza di Camillo allontanandola da Anzio. Siccome quelle due città si trovavano sul confine con l'Etruria e ne costituivano, per così dire, la chiave e le porte, gli Etruschi facevano di tutto per occuparle, quando macchinavano qualcosa di nuovo, mentre i Romani si preoccupavano di riprenderle e proteggerle. Pertanto il senato decise di convincere Camillo a lasciar perdere Anzio e ad occuparsi della guerra contro gli Etruschi, assegnandogli quelle legioni urbane che erano state agli ordini di Quinzio. 

Camillo avrebbe preferito l'esercito esperto e abituato al suo comando che al momento si trovava nel territorio dei Volsci, ciò non ostante non fece alcuna obiezione, chiedendo soltanto che gli venisse associato al comando Valerio. Quinzio e Orazio vennero inviati a sostituire Valerio nella campagna contro i Volsci. Partiti da Roma alla volta di Sutri, Furio e Valerio trovarono però che parte della città era già finita in mano degli Etruschi, e che nell'altra parte gli abitanti, dopo aver sbarrato tutte le vie d'accesso, riuscivano a stento a contenere gli assalti del nemico. 

L'arrivo di aiuti da Roma e in particolare la grandissima fama di cui Camillo godeva presso nemici e alleati permisero di ristabilire momentaneamente la situazione già compromessa e concessero il tempo necessario per organizzare il soccorso. Diviso in due l'esercito, Camillo diede disposizione al collega di operare una manovra di accerchiamento e di dare l'assalto alle mura nel settore occupato dai nemici. La sua speranza non era tanto di poter prendere la città con l'uso di scale, quanto di richiamare i nemici in quel punto (concedendo così agli abitanti, ormai stremati dal continuo combattere, un attimo di tregua), e di avere l'opportunità di entrare in città senza combattere. 

Entrambe le operazioni vennero messe in pratica simultaneamente: gli Etruschi sentendosi minacciati da ambo le parti e vedendo che le mura erano attaccate con estrema violenza e che i nemici erano ormai in città, colti da terrore si gettarono in massa fuori dalla sola porta che casualmente non era assediata. La fuga nei campi e all'interno della città finì comunque in un bagno di sangue. La maggior parte di essi venne fatta a pezzi dai soldati di Furio all'interno delle mura. Gli uomini di Valerio furono più veloci nell'inseguimento e posero fine al massacro solo quando il calar della notte tolse la visibilità. Dopo aver riconquistato e riconsegnato Sutri agli alleati, l'esercito marciò alla volta di Nepi, che essendosi ormai arresa era ora in completa balìa degli Etruschi. 


X

La riconquista di quella città sembrava fatica molto più dura, e non solo perché era interamente in mano nemica, ma anche perché una fazione di Nepesini aveva tradito il proprio paese pattuendo la capitolazione. Si decise comunque di mandare a dire alle autorità cittadine di staccarsi dagli Etruschi e di dar prova di quella stessa lealtà che avevano implorato dai Romani. Quando essi risposero dicendo che non potevano far nulla, perché gli Etruschi controllavano le mura e vigilavano alle porte, in un primo tempo i Romani misero a ferro e fuoco le campagne per terrorizzare la gente in città. 

Poi, quando fu evidente che la resa era per loro un legame più vincolante di quanto non fosse l'alleanza, dopo aver raccolto nei campi dei rami secchi e averne fatto fascine, le truppe romane vennero condotte sotto le mura e lì, una volta riempiti i fossati, vi appoggiarono le scale e presero la città alla prima carica sostenuta dal grido di guerra. Agli abitanti di Nepi venne ingiunto di deporre le armi, e ai soldati di risparmiare quelli che erano disarmati. Per gli Etruschi non furono fatte differenze: vennero massacrati sia che fossero armati sia che non lo fossero. 

I Nepesini responsabili della capitolazione vennero giustiziati: la popolazione che non aveva colpe da scontare ebbe indietro le proprie cose, mentre in città venne lasciato un presidio armato. Così, dopo aver ritolte al nemico due città alleate, i tribuni ricondussero a Roma con grande gloria l'esercito vincitore. Nel corso di quello stesso anno vennero avanzate richieste di riparazione a Latini ed Ernici e fu loro domandato per quale ragione, negli ultimi anni, essi non avessero fornito i contingenti armati contemplati dai patti. 

L'assemblea plenaria di entrambi i popoli fece sapere che lo stato non aveva colpe né responsabilità attive nel fatto che alcuni dei loro giovani avessero militato nelle file dei Volsci. Comunque, quei ragazzi avevano scontato caramente la loro pessima iniziativa e nessuno di essi era tornato indietro. Quanto poi al non aver fornito soldati, questo era dovuto alla costante paura nutrita nei confronti dei Volsci (una maledizione sempre così alle calcagna da non essere riusciti a liberarsene nemmeno con quella continua successione di guerre). Questa risposta fu riferita ai senatori: e sembrò ad essi che offrisse sì un motivo, ma non l'opportunità per scatenare un conflitto. 


XI

L'anno successivo, quando cioè erano tribuni militari con potere consolare Aulo Manlio, Publio Cornelio, Tito e Lucio Quinzio Capitolino, Lucio Papirio Cursore e Gneo Sergio (entrambi alla loro seconda esperienza), ci furono all'esterno una guerra di una certa gravità e in patria dei disordini ben più gravi. Alla guerra scatenata dai Volsci si aggiunse la defezione di Latini ed Ernici; mentre i disordini scoppiarono là dove meno lo si sarebbe previsto, e il responsabile fu Marco Manlio Capitolino, un patrizio che godeva di larga rinomanza. Pieno di superbia, disprezzava il resto dei capi e ne invidiava uno solo, Marco Furio, insigne per onori e meriti. 

Egli non riusciva a tollerare che Camillo avesse raggiunto tanto tra i magistrati quanto presso gli eserciti un tale grado di assoluta preminenza da considerare al rango di servitori e non di colleghi quelli che erano stati eletti sotto i suoi stessi auspici, quando - se uno avesse considerato la questione in maniera obiettiva - Marco Furio non avrebbe mai potuto strappare la patria dall'assedio nemico, se lui, Manlio, non avesse prima salvato il Campidoglio e la rocca. Mentre Camillo aveva attaccato i Galli nel momento in cui ricevevano l'oro e non stavano in guardia, pensando alla pace, lui invece li aveva respinti quando armi in pugno erano sul punto di impossessarsi della rocca. 

Buona parte della gloria di Camillo apparteneva ai soldati che avevano conquistato la vittoria insieme a lui, mentre tutti sapevano che Manlio non doveva dividere con nessun essere mortale la propria vittoria. Imbaldanzito da queste idee ed essendo anche impetuoso e violento di carattere, quando si rese conto di non riuscire a emergere tra i senatori come egli riteneva di meritare, fu il primo tra tutti i patrizi a passare dalla parte del popolo e ad accordarsi coi magistrati plebei. 

Lanciando accuse ai senatori e cercando di attirarsi il favore della plebe, non si lasciava più guidare dal raziocinio ma dall'umore incostante della massa, e preferiva che la sua fama fosse grande piuttosto che buona. E non contento delle leggi agrarie che ai tribuni della plebe avevano sempre fornito materia per scatenare disordini, cominciò un attacco sul pubblico credito: a suo dire i debiti erano un tormento ben più fastidioso perché facevano rischiare non soltanto la povertà e il disonore, ma terrorizzavano gli uomini di condizione libera col pensiero della frusta e delle catene. 

E infatti c'era stato un grande accumulo di debiti contratti con le opere di ricostruzione, che anche ai ricchi avevano procurato enorme danno. E così la guerra contro i Volsci, già di per sé preoccupante ma resa ancora più preoccupante dalla defezione di Latini ed Ernici, venne utilizzata allo scopo di ottenere maggiore potere. Ma soprattutto le rivoluzionarie idee di Manlio furono la causa principale della nomina, voluta dal senato, di un dittatore. Venne scelto per l'incarico Aulo Cornelio Cosso, il quale nominò maestro di cavalleria Tito Quinzio Capitolino. 


XII

Pur rendendosi conto che la minaccia di uno scontro interno era ben più preoccupante di quella proveniente dall'estero, ciò nonostante il dittatore - sia perché la guerra esigeva tempestività e sia perché pensava che con una vittoria e un conseguente trionfo avrebbe potuto rinforzare la propria dittatura, appena effettuata la leva militare, partì alla volta dell'agro Pontino, dove, stando alle informazioni ricevute, i Volsci avevano concentrato l'esercito. A forza di leggere in questi libri di tutte le guerre combattute in continuazione con i Volsci, sono sicuro che i lettori - noia a parte - si domanderanno meravigliati (com'è successo a me quando esaminavo le opere degli storici più vicini ai tempi di questi avvenimenti) dove mai Volsci ed Equi, che subivano una sconfitta dietro l'altra, trovassero i rimpiazzi per le file dei loro eserciti. 

Ma visto che gli antichi hanno passato la questione sotto silenzio, posso avanzare soltanto una semplice opinione personale, alla quale ciascuno può arrivare per congettura? È probabile sia che negli intervalli tra i vari conflitti essi utilizzassero per riprendere le guerre sempre nuove generazioni di giovani - come oggi si verifica nelle leve militari qui a Roma - oppure non arruolavano gli eserciti attingendo sempre alle stesse genti, anche se poi il popolo che faceva la guerra risultava sempre lo stesso; o ancora non è escluso che la quantità di uomini liberi fosse estremamente elevata in zone che oggi non hanno più alcun peso quale vivaio militare e solo grazie agli schiavi romani non sono ridotte a deserti. 

Di certo è che tutti gli storici concordano nel definire enorme l'esercito dei Volsci, non ostante avesse poco tempo prima subìto un notevole ridimensionamento numerico sotto il comando e gli auspici di Camillo. A questa forza si erano aggiunti Latini ed Ernici, un certo numero di abitanti di Circei e alcuni coloni romani provenienti da Velletri. Quel giorno il dittatore si accampò. Il successivo, dopo aver tratto gli auspici, uscì dalla tenda augurale e invocò il favore degli dèi con l'offerta di una vittima sacrificale. Quindi si presentò con volto lieto ai soldati che alle prime luci del giorno si stavano già armando, come era stato loro ordinato di fare non appena avessero visto il segnale convenuto per la battaglia. 

«O soldati», disse, «la vittoria è nelle nostre mani, se gli dèi e i loro interpreti profetici sanno leggere nel futuro. Perciò, come si conviene a uomini che sono sul punto di affrontare con sicura fiducia nei propri mezzi degli avversari di forza impari, deponiamo i giavellotti e armiamoci soltanto con le spade. Vorrei che nessuno uscisse dai ranghi, ma che sosteneste l'impeto dei nemici resistendo a pie' fermo. Quando i loro colpi saranno andati a vuoto ed essi si getteranno in disordine contro di voi ben attestati al vostro posto, allora brillino le spade e ciascuno si ricordi che gli dèi stanno dalla parte dei Romani, e che sono stati gli dèi a mandarci in battaglia con auspici favorevoli. 

Tu, Tito Quinzio, bada a tener ferma la cavalleria e aspetta che inizi lo scontro. Quando vedrai le due schiere già impegnate nel corpo a corpo, allora con i cavalieri aggiungi nuovo terrore alla paura che già possiede i nemici e caricandoli semina lo scompiglio tra le loro fila.» Tanto i cavalieri quanto i fanti combatterono com'era stato loro ordinato. Né il generale venne meno alle sue legioni, né la fortuna al generale. 


XIII

La massa dei nemici, confidando esclusivamente nel numero e valutando a occhio entrambi gli schieramenti, si buttò alla cieca in battaglia e alla cieca ne uscì. Esaurita la loro irruenza nell'urlo di battaglia, nel lancio di proiettili e nel primo urto, essi non riuscirono a sostenere le spade, lo scontro corpo a corpo e gli sguardi dei nemici nei quali brillava l'ardore di autentici guerrieri. La loro linea frontale venne sùbito sgranata e lo scompiglio andò a ripercuotersi sulle retrovie. Anche i cavalieri fecero la loro parte nel terrorizzare i nemici. Le file vennero sbaragliate in molti punti, tutto era in movimento e l'intero schieramento somigliava a un fluttuare di onde. Poi quando, caduti i soldati della prima fila, ciascuno si rese conto che la morte non avrebbe tardato a raggiungerlo, fu una fuga generale. I Romani incalzavano. Finché i nemici indietreggiavano con le armi in pugno e in file serrate, l'inseguimento venne affidato alla fanteria. 

Ma quando si vide che buttavano le armi dove capitava e che l'esercito si disperdeva per i campi cercando la fuga, allora venne dato il via libera agli squadroni di cavalleria con l'ordine di non indugiare nell'eliminazione dei singoli, per non offrire al grosso delle forze nemiche il modo di evitare il massacro. Già solo lanciando proiettili li avrebbero terrorizzati ostacolandone la corsa: poi, cavalcandogli intorno, li avrebbero potuti tenere sotto controllo, fino a quando non fossero sopraggiunti i fanti a completare l'annientamento. La fuga e l'inseguimento proseguirono fino al calar della notte. Dopo aver catturato e distrutto quello stesso giorno l'accampamento dei Volsci, ai soldati venne concesso tutto il bottino tranne gli uomini di condizione libera. 

La maggior parte dei prigionieri erano Latini ed Ernici, e non tutti di estrazione plebea (che si poteva credere avessero combattuto in qualità di mercenari), ma vi si trovarono anche dei giovani delle famiglie più illustri, prova questa che i rispettivi paesi avevano ufficialmente supportato il nemico volsco. Alcuni vennero invece riconosciuti come provenienti da Circei e dalla colonia di Velletri. Furono tutti inviati a Roma e lì, ai senatori più eminenti che li interrogavano, rivelarono apertamente le stesse cose già dette al dittatore, e cioè la defezione dei rispettivi popoli. 


XIV

Il dittatore teneva i suoi uomini nell'accampamento, non nutrendo il minimo dubbio sul fatto che i senatori avrebbero dichiarato guerra a questi popoli, quando in patria una questione di ben altra gravità li costrinse a richiamarlo a Roma, mentre la gravità dei disordini cresceva di giorno in giorno, e chi ne era responsabile rendeva la cosa più preoccupante del solito. Infatti ormai non solo i discorsi, ma anche le azioni di Marco Manlio, all'apparenza volte ad appoggiare il popolo, erano in realtà sediziose se si considerava quale ne era il principio ispiratore. Vedendo che stavano portando via un centurione, famoso per le sue prodezze di soldato, ma condannato per debiti, Manlio si precipitò in pieno foro con la sua banda di sostenitori. 

Lì, dopo averlo afferrato con le mani per riscattarlo, ed essersi messo a urlare frasi sull'arroganza dei patrizi, sulla crudeltà degli usurai, sulle sofferenze della plebe e sulle qualità e sulle disgrazie di quell'uomo, disse: «Allora non è proprio servito a nulla per me aver salvato la rocca e il Campidoglio con questa destra, se adesso devo vedere un mio concittadino e commilitone messo in catene e ridotto in schiavitù come se fosse prigioniero dei Galli vincitori!». 

Poi pagò davanti a tutti la somma dovuta al creditore, restituì la libertà al commilitone riscattato, il quale implorava gli dèi e gli uomini affinché ringraziassero Marco Manlio, suo liberatore e padre della plebe romana. Accolto immediatamente in mezzo a quella massa turbolenta di gente, il commilitone contribuiva di suo ad aumentare il disordine mostrando le cicatrici delle ferite riportate nella guerra contro Veio, in quella contro i Galli e nelle successive. Mentre stava combattendo, mentre era impegnato nella ricostruzione della sua casa ridotta in macerie, era stato schiacciato dall'usura, perché, pur avendo già più volte risarcito il debito, gli interessi continuavano a divorarsi il capitale di partenza. Se ora vedeva la luce, il foro e i volti dei concittadini, lo doveva all'intervento generoso di Marco Manlio. 

Da lui aveva anche sperimentato tutto il bene che può provenire dai genitori, a lui consacrava quanto gli restava di forza, di vita e di sangue. Tutti i vincoli che lo legavano alla patria e agli dèi Penati pubblici e privati, ora lo avrebbero legato a un uomo solo. Infiammati da queste parole, i plebei pendevano dalle labbra di un unico individuo, quand'ecco che Manlio tirò fuori un'altra iniziativa studiata in maniera ancora più mirata al fine di creare disordine generale. 

Mise infatti all'asta un fondo che egli possedeva nella zona di Veio e che rappresentava la parte più consistente del suo patrimonio. Accompagnò il gesto con questa frase: «Perché io non debba vedere che qualcuno di voi, o Quiriti, finché mi resti qualcosa di mio, sia condannato come debitore insolvente e ridotto alla condizione di schiavo!». 

Queste parole infiammarono gli animi a tal punto da sembrare evidente che essi avrebbero seguito il difensore della loro libertà in qualunque impresa, lecita o illecita che fosse. Al di là di questo, Manlio teneva a casa sua dei discorsi molto simili a comizi politici, pieni di accuse ai danni dei patrizi. Tra l'altro, senza però curarsi minimamente se si trattasse di affermazioni vere o false, egli insinuò il sospetto che i patrizi tenessero nascosto l'oro dei Galli e che non contenti di possedere l'agro pubblico, miravano a utilizzare a loro profitto il denaro delle casse statali. Se la cosa fosse venuta alla luce, con quel denaro si sarebbe potuta affrancare la plebe dai debiti contratti. 

Non appena venne fatta balenare questa speranza, sembrò una vera vergogna il fatto che, quando si era dovuto raccogliere oro per riscattare Roma presso i Galli, lo si fosse messo insieme imponendo un tributo a tutti. E adesso quell'oro, una volta sottratto ai nemici, era diventato preda di pochi. Per questo essi non smettevano di chiedere dove fosse nascosta una così grande refurtiva. Ma siccome Manlio rimandava sempre e diceva che l'avrebbe rivelato a tempo debito, i patrizi lasciando da parte ogni altro pensiero, la gente era concentrata esclusivamente su quella questione, ed era evidente che, a seconda della fondatezza o meno della sua accusa, Manlio si sarebbe guadagnato enorme riconoscenza o non minore risentimento. 


XV

Siccome la situazione era così critica, il dittatore venne richiamato dal fronte e arrivò a Roma. Il giorno successivo convocò una seduta del senato. Qui, dopo aver ben saggiato lo stato d'animo generale, e dopo aver ingiunto ai senatori di non allontanarsi, attorniato da un gran numero di essi, sistemò la sua sedia curule nel comizio e inviò un messo a Marco Manlio. Questi, convocato dal dittatore, dopo aver fatto segno ai suoi che lo scontro era imminente, si presentò in tribunale accompagnato da un codazzo di sostenitori. Schierati come su un campo di battaglia, il senato da una parte e la plebe dall'altra tenevano gli occhi puntati sui rispettivi capi. Allora il dittatore, dopo aver intimato il silenzio, disse: 

«Magari io e i senatori romani riuscissimo a trovare un accordo con la plebe su tutte le altre questioni, così come sono sicuro che ci accorderemo per quanto ti riguarda e per la richiesta che sto per rivolgerti. So che tu hai fatto sperare alla cittadinanza di poter pagare i debiti, senza attentare ai contratti, attingendo a quei tesori dei Galli che alcuni tra i patrizi più in vista starebbero nascondendo. Sono così lontano dall'ostacolare questa proposta che ti esorto, o Marco Manlio, a liberare dall'usura la plebe romana e a smascherare quelli che covano i tesori dello Stato, strappando loro la preda nascosta. Se non lo farai, o perché hai tu stesso parte alla rapina o perché la tua denuncia non ha alcun fondamento, io darò ordine di arrestarti e non permetterò che tu possa sobillare più a lungo la massa con false promesse.» 

A queste parole Manlio rispose che non gli era sfuggito come il dittatore fosse stato nominato non tanto contro i Volsci, considerati nemici ogni qualvolta conveniva ai patrizi, né contro Latini ed Ernici, che con false accuse i nobili stavano spingendo ad entrare in guerra, quanto piuttosto contro la propria persona e contro la plebe romana. Ormai essi, dopo aver messo da parte il conflitto che era stato un semplice pretesto, si accingevano ad attaccare lui: il dittatore si professava già apertamente difensore degli usurai contro la plebe e già si cercava di trovare nel favore popolare un motivo di accusa per rovinare lui. 

«A te, o Aulo Cornelio, e a voi, o senatori», disse, «dà forse fastidio la massa di persone che mi circonda? Perché non la allontanate da me facendo del bene a ciascuno di essi, intervenendo a favore dei debitori, sciogliendo i vostri concittadini dai ceppi, impedendo che essi vengano processati e ridotti in schiavitù o impiegando il superfluo delle vostre sostanze per venire incontro alle necessità altrui? Ma perché chiedervi di spendere del vostro denaro? Accontentatevi di quanto resta del debito, scalando dal capitale di partenza ciò che è già stato interamente pagato in interessi, e vedrete che il mio seguito non darà nell'occhio più di quanto non faccia quello di chiunque altro. 

Ma perché io sono l'unico che si prende a cuore la sorte dei concittadini? La mia risposta sarebbe identica a quella che darei se mi si domandasse perché sono stato il solo a salvare il Campidoglio e la rocca. E come allora ho fatto del mio meglio per aiutare tutta la comunità, così adesso cercherò di aiutare dei singoli individui. Per quel che riguarda poi il tesoro dei Galli, si tratta di una questione di per sé semplice ma resa difficile dalle tue domande. Perché chiedete di una cosa che già sapete? 

Perché ci ordinate di strapparvelo dalle tasche, invece di tirarlo fuori spontaneamente, se non c'è sotto qualche inganno? Quanto più voi ci imponete di smascherare i vostri giochi di prestigio, tanto più temo che vogliate cavare gli occhi a chi vi osserva. Dunque non sono io che devo denunciare a voi le vostre appropriazioni, ma siete voi che dovete renderle di pubblico dominio.» 


XVI

Il dittatore gli ordinò allora di lasciar da parte i giri di parole e lo costrinse o ad attribuire un fondamento di verità alla sua denuncia oppure ad ammettere di aver accusato il senato con una falsa imputazione e di avergli addossato l'odiosità di un furto inesistente. Ma siccome Manlio disse che non avrebbe parlato ad arbitrio dei propri avversari, il dittatore ordinò di arrestarlo. Mentre veniva trascinato in prigione dall'ufficiale di servizio «Giove Ottimo Massimo», disse, «e tu Giunone Regina e Minerva e voi, gli altri dèi e dee che abitate sul Campidoglio e sulla rocca, dunque permettete che il vostro campione e difensore sia così maltrattato dai suoi avversari? Questa destra, con la quale ho cacciato i Galli dai vostri santuari, sarà dunque stretta in ceppi e catene?». 

Quell'infame spettacolo era intollerabile per le orecchie e gli occhi di ognuno. Ma c'erano certe regole che i cittadini, profondamente sottomessi alla legittima autorità, consideravano intoccabili. E né i tribuni della plebe, né la plebe stessa osavano alzare gli occhi o proferire verbo di fronte all'autorità del dittatore. Tuttavia, dopo che Manlio venne messo in carcere - lo si sa con certezza - buona parte dei plebei si vestirono a lutto, molti uomini si lasciarono crescere barba e capelli e una mesta folla cominciò ad aggirarsi di fronte all'entrata della prigione. 

Il dittatore celebrò il trionfo sui Volsci, ma il trionfo gli procurò più odio che gloria: la gente infatti mormorava che egli l'aveva conquistato non sul campo di battaglia ma in patria e non contro un nemico ma contro un cittadino. Una sola cosa gli era venuta a mancare in quell'eccesso di superbia: Marco Manlio non era stato fatto marciare davanti al suo carro. Ormai la situazione stava per degenerare in una sommossa: per placare gli animi, senza però che nessuno ne avesse fatto richiesta, il senato divenne all'improvviso generoso e ordinò che due mila coloni romani fondassero una colonia a Satrico. 

A ciascuno di essi vennero assegnati due iugeri e mezzo di terra. Ma siccome il gesto venne interpretato come una donazione limitata in quantità e ristretta a un àmbito di pochi e come ricompensa per l'abbandono di Marco Manlio, il rimedio non fece che aggravare la tensione in atto. I sostenitori di Manlio si facevano notare ancora più di prima per gli abiti a lutto e per l'aspetto che assumevano di imputati, mentre la gente, liberata dalla paura da quando il dittatore aveva rinunciato alla carica súbito dopo il trionfo, si era rinfrancata nell'animo e nel dire. 


XVII

Di conseguenza si cominciarono a sentire le opinioni di chi criticava apertamente la massa poiché riteneva che il favore popolare innalzasse i suoi campioni fino a vertici inauditi, ma che poi, nel momento critico, li abbandonasse al loro destino. Così era successo con Spurio Cassio (che aveva invitato la plebe a prender possesso dei campi), con Spurio Mecilio (che tentava di allontanare a proprie spese la fame dalla bocca dei concittadini) e ora succedeva con Marco Manlio, consegnato agli avversari dopo essersi prodigato nel tentativo di portare alla luce della libertà quella parte di cittadinanza sommersa e schiacciata dai debiti. 

La plebe ingrassava i suoi campioni perché finissero al macello. Era dunque questo che toccava a un ex - console se non rispondeva a un cenno del dittatore? Supponessero pure che aveva mentito in precedenza e che proprio per questo non sapesse poi cosa rispondere: quale schiavo era mai stato condannato alla prigione per una bugia? Non se la ricordavano quella notte che per poco non era stata l'ultima, eterna notte del nome di Roma? Non era ancora vivo in loro il ricordo delle schiere dei Galli che saliva su per la rupe Tarpea? Non quello dello stesso Marco Manlio, così come l'avevano visto, quando armi in pugno, coperto di sudore e di sangue aveva strappato Giove stesso, per così dire, dalle mani dei nemici? Si era ringraziato il salvatore della patria con mezza libbra di farro? 

Avevano intenzione di permettere che l'uomo da loro innalzato a rango quasi divino e reso, almeno nel soprannome, pari a Giove Capitolino, incatenato in carcere trascinasse i suoi giorni al buio in balia di un carnefice? Lui, da solo, aveva aiutato tutti: e ora in tanti non sapevano soccorrere lui solo? Ormai la folla non si allontanava da quel luogo nemmeno di notte e anzi minacciava di voler forzare le porte della prigione, quando all'improvviso, concedendo ciò che essi stavano per strappare a forza, il senato decretò che Manlio venisse rimesso in libertà (iniziativa questa che non pose certo fine alla sedizione, ma fornì un capo ai sediziosi). 

In quegli stessi giorni arrivarono Latini ed Ernici, insieme ai coloni di Circei e di Velletri, a discolparsi dall'accusa di essersi associati in guerra coi Volsci e a chiedere la consegna dei prigionieri per poterli punire con le proprie leggi. Le risposte furono dure, specialmente per i coloni in quanto, pur essendo cittadini romani, avevano preso la decisione di combattere contro la patria. Perciò non fu loro soltanto negata la restituzione dei prigionieri, ma - misura risparmiata agli alleati - il senato ingiunse loro di allontanarsi al più presto dalla città, dalla vista e dagli occhi del popolo romano, per timore che non trovassero protezione nelle prerogative concesse agli ambasciatori, prerogative previste per gli stranieri e non per i cittadini. 


XIIX

Mentre i disordini causati da Manlio si stavano aggravando, verso la fine dell'anno ci furono delle elezioni nelle quali risultarono eletti tribuni militari con potere consolare Servio Cornelio Maluginense, Publio Valerio Potito, Servio Sulpicio Rufo, Gaio Papirio Crasso, Tito Quinzio Cincinnato (tutti per la seconda volta) e Marco Furio Camillo (per la quinta). La pace esterna della quale si godette all'inizio di quell'anno fu estremamente vantaggiosa sia per la plebe che per la nobiltà. E se per i plebei lo fu perché, non dovendo prestare servizio militare, finché avevano dalla loro un capo prestigioso come Marco Manlio, nutrivano la speranza di eliminare i debiti, per i patrizi lo fu in quanto non desideravano che preoccupazioni provenienti dall'esterno distogliessero gli animi dal pensiero di risanare i mali interni. 

E così, visto che entrambe le parti si erano buttate nella contesa con maggiore accanimento, l'ora dello scontro era ormai vicina. Manlio invitava i plebei a casa sua e discuteva coi loro capi giorno e notte progetti rivoluzionari, era più arrogante e irato di quanto non fosse stato prima. L'umiliazione subìta di recente aveva infiammato la rabbia in un animo non abituato agli affronti: il suo orgoglio era risvegliato dal fatto che il dittatore non aveva osato agire nei suoi confronti come Quinzio Cincinnato aveva agito contro Spurio Melio, e che non solo il dittatore con la rinuncia alla dittatura si era voluto sottrarre all'ondata di sdegno suscitata dal suo arresto, ma anche che neppure il senato aveva potuto sostenerla. 

Nel contempo infiammato ed esacerbato da questi pensieri, Manlio istigava gli animi già di per sé eccitati della plebe. «Fino a quando», chiedeva, «continuerete a ignorare la vostra forza, cosa che la natura non consente nemmeno alle fiere di ignorare? Fate almeno il conto del vostro numero e del numero dei vostri avversari. Infatti quanti eravate in qualità di clienti intorno a un solo patrono, altrettanti adesso sarete contro un solo nemico. Se doveste affrontarli uno contro uno, anche così credo che combattereste con maggiore accanimento voi per la libertà di quanto non farebbero loro per il potere. Minacciate la guerra e avrete la pace. Fatevi vedere che siete pronti a ricorrere alla forza, essi rinunceranno ai loro diritti. Bisogna osare qualcosa tutti insieme. Oppure dovrete a uno a uno sopportare tutto. Fino a quando starete a guardare me? Lo sapete benissimo, io non abbandonerò mai nessuno di voi. Ma badate che la buona sorte non abbandoni me. 

Io, il vostro difensore, quando è parso opportuno ai miei nemici, sono stato annientato all'improvviso. E voi tutti avete visto trascinare in prigione l'uomo che aveva allontanato le catene da ciascuno di voi. Che cosa potrei sperare, se i nemici osassero di più nei miei confronti? Una fine come quella di Cassio e di Melio? Fate bene a pronunziare scongiuri. «Gli dèi non lo permetteranno!». Ma per me non scenderanno mai dall'alto del cielo. Devono infondere a voi il coraggio di impedirlo, così come a me hanno dato, in pace e in guerra, il coraggio necessario per difendervi dalla barbarie dei nemici e dall'arroganza dei concittadini. Questo grande popolo ha così poco carattere che per contrastare i vostri nemici continuate ancora ad accontentarvi del diritto di ausilio e non conoscete nessun altro tipo di lotta contro i patrizi, se non in quali limiti permettere che spadroneggino su di voi? Anche questa non è in voi una caratteristica congenita, ma vi lasciate dominare per abitudine. 

Perché, vi domando, con i popoli stranieri combattete con tanta animosità da ritenere giusto di ridurli in vostro potere? Perché con loro siete abituati da sempre a combattere per la supremazia, mentre contro i senatori siete avvezzi a combattere più per cercare di ottenere la libertà che per difenderla. Tuttavia, qualunque sia stato il valore specifico vostro e degli uomini che vi hanno guidato, fino a oggi avete ottenuto, vuoi con la violenza, vuoi con l'aiuto della vostra buona stella, tutto ciò che avete voluto. Ma ora è tempo di aspirare anche a qualcosa di più grande. Mettete solo alla prova la vostra buona sorte e me (che, lo spero, avete 144 già messo alla prova con esiti felici). Vi costerà meno fatica imporre ai patrizi qualcuno che li comandi di quanta non ve ne sia costata l'imporre qualcuno che si opponesse al loro potere. 

Bisogna fare tabula rasa del consolato e della dittatura, perché la plebe di Roma possa alzare la testa. Perciò siate pronti: impedite che si pronuncino le sentenze nelle cause per debiti. Io mi dichiaro protettore della plebe, titolo del quale sono stato investito per il mio zelo e il mio leale attaccamento alla causa: se voi deciderete di attribuirne al vostro capo uno più prestigioso per autorità e dignità, egli avrà maggiore potere per ottenere ciò che volete.» Fu allora, pare, che si cominciò a parlare di monarchia. Ma dalla tradizione non risulta molto chiaro né chi fosse implicato nel complotto, né fino a che stadio esso fosse stato portato avanti. 


XIX

Dall'altra parte i senatori stavano discutendo di quelle riunioni segrete della plebe in una casa privata (una casa che, per puro caso, si trovava anche sulla rocca) e del grave pericolo che minacciava la libertà. La maggior parte di essi gridava che c'era bisogno di un Servilio Aala, che non esasperasse i nemici pubblici mettendoli in prigione, ma che con la soppressione di un solo cittadino ponesse fine alla guerra civile. Si ricorse tuttavia a una decisione che, pur risultando nei fatti ugualmente energica, dava l'impressione di essere più moderata: venne ordinato ai magistrati di provvedere che la repubblica non subisse alcun danno dai perniciosi progetti di Marco Manlio. 

Allora i tribuni con potestà consolare e i tribuni della plebe (messisi anch'essi a disposizione del senato in quanto consci del fatto che la fine della libertà di tutti avrebbe coinciso con la fine del loro potere) si consultarono collegialmente sulle misure da prendere. Siccome nessuno era in grado di suggerire soluzioni che non prevedessero il ricorso alla violenza e al sangue - il che avrebbe comportato, evidentemente, uno scontro durissimo - allora i tribuni della plebe Marco Menenio e Quinto Publilio dissero: 

«Perché mai dobbiamo trasformare in uno scontro tra patrizi e plebei quello che dovrebbe essere una lotta tra la città e un solo, pericoloso cittadino? Perché lo affrontiamo spalleggiati dalla plebe, quando sarebbe più sicuro attaccarlo servendoci della plebe stessa per farlo crollare schiacciato dalle sue stesse forze? Non c'è nulla di meno popolare che la monarchia. Non appena tutta quella gente si renderà conto che non si combatte contro di loro, da sostenitori si trasformeranno in giudici: quando l'accusa sarà sostenuta da plebei contro un imputato patrizio, e ci sarà di mezzo il reato di voler restaurare la monarchia, la plebe penserà prima di tutto a difendere la propria libertà.» 


XX

Tutti approvarono all'unanimità la proposta e decisero di citare Manlio in giudizio. L'applicazione di questo provvedimento suscitò commozione tra i plebei, specialmente quando essi videro che Manlio era in gramaglie e che ad accompagnarlo non solo non c'era nemmeno un senatore ma mancavano tanto i parenti e i congiunti quanto addirittura i fratelli Aulo e Tito Manlio: non era mai accaduto fino a allora che in simili circostanze i parenti più stretti non vestissero a lutto. Quando era finito in carcere Appio Claudio, Gaio Claudio, che pure gli era ostile, e tutta la famiglia Claudia si erano messi in lutto. C'era, dunque, un accordo per schiacciare l'amico del popolo, perché era stato il primo patrizio a passare dalla parte della plebe. 

Arrivò il giorno del processo, ma non ho trovato in nessun autore quali accuse gli siano state mosse in diretta connessione al reato di tentata restaurazione della monarchia, se si eccettuano le riunioni di massa, i discorsi sediziosi, le sue elargizioni di denaro e la falsa denunzia. Comunque non doveva trattarsi di cose di poco peso, perché la plebe tardò a condannarlo non tanto per motivi riguardanti la causa, quanto per il luogo dove si teneva il processo. È un particolare che mi sembra degno di essere menzionato, perché la gente sappia quali e quanto grandi meriti siano diventati odiosi e spregevoli a causa di una vergognosa brama del regno. Si dice che Manlio portò di fronte alla corte circa quattrocento individui ai quali egli aveva prestato denaro senza pretendere interessi, salvando così i loro beni dalla vendita all'asta, e le loro persone dalla schiavitù. 

Inoltre, Manlio non si limitò a richiamare alla memoria le proprie glorie militari, ma ne produsse l'evidenza di fronte agli occhi di tutti, mostrando addirittura le spoglie di trenta nemici uccisi, e quaranta decorazioni ottenute da generali, tra le quali spiccavano due corone murali e otto civiche. Come se non bastasse, Manlio avrebbe poi citato i concittadini da lui salvati, menzionando all'interno di essi il nome del maestro di cavalleria Gaio Servilio che però non era presente al processo. 

E dopo aver ripercorso le proprie gesta militari con un discorso magnifico, degno dell'altezza dell'impresa, ponendo sullo stesso piano i fatti e le parole, si sarebbe denudato il petto segnato dalle cicatrici ricevute in battaglia; poi, guardando fisso il Campidoglio e invocando Giove e gli altri dèi, li avrebbe pregati di intervenire in suo aiuto e di ispirare - in quel momento tanto critico - nel popolo romano quella stessa disposizione d'animo che essi avevano ispirato in lui quando aveva difeso la cittadella e il Campidoglio per la salvezza del popolo romano; infine si sarebbe rivolto ai singoli e alla comunità tutta, chiedendo loro di fissare lo sguardo in direzione del Campidoglio e della rocca e di giudicare il suo caso con il pensiero rivolto agli dèi immortali. 

Mentre nel campo Marzio il popolo veniva chiamato a votare per centurie e l'imputato, con le mani tese verso il Campidoglio, stava rivolgendo le sue preghiere agli dèi dopo averle rivolte agli uomini, ai tribuni apparve chiaro che, se non avessero allontanato dagli occhi della gente il ricordo di una gloria così grande, le giuste accuse rivolte contro Manlio non avrebbero mai fatto presa in animi riconoscenti per il bene ricevuto in passato. Così, dopo aver aggiornato la seduta, essi convocarono un'assemblea del popolo nel bosco Petelino, fuori dalla porta Flumentana, da dove non era possibile vedere il Campidoglio. Lì le accuse risultarono efficaci e, facendo forza a se stessi, i cittadini pronunciarono una sentenza che risultò dura e dolorosa anche per chi l'aveva emessa. 

Alcuni autori sostengono che Manlio venne condannato da una commissione di duumviri nominata per far luce sul reato di alto tradimento. I tribuni lo fecero gettare giù dalla rupe Tarpea, e così lo stesso luogo fu per uno stesso uomo il ricordo perenne di una straordinaria fama e dell'estremo supplizio. Dopo la sua morte, gli furono inflitti due marchi di infamia: uno di natura pubblica, perché, siccome la sua casa era dove adesso sorgono il tempio e la zecca di Giunone Moneta, fu presentata al popolo una legge in base alla quale nessun patrizio potesse più andare ad abitare sulla rocca o sul Campidoglio; l'altro fu invece di natura gentilizia, perché i membri della famiglia Manlia decretarono che in futuro nessuno portasse più il nome di Marco Manlio. 

Fu questa la fine di un uomo che, se non fosse nato in una città libera, avrebbe lasciato traccia duratura di sé. E in breve tempo il popolo - dato che adesso Manlio non era più una fonte di pericolo - cominciò a rimpiangerlo ricordandone soltanto le qualità. Poco dopo scoppiò una pestilenza che causò un numero massiccio di decessi per i quali non si riuscivano a trovare ragioni plausibili e che alla maggior parte della gente sembravano una conseguenza dell'esecuzione di Manlio: si pensava infatti che il Campidoglio fosse stato contaminato dal sangue del suo salvatore e che gli dèi non avessero gradito che fosse stato punito quasi di fronte ai loro stessi occhi l'uomo che aveva strappato i loro templi dalle mani del nemico. 


XXI

Alla pestilenza tenne dietro una carestia di frumento e - quando, nel corso dell'anno successivo, si diffuse la notizia delle due calamità abbattutesi su Roma - scoppiò una serie di guerre. I tribuni militari con potere consolare erano Lucio Valerio (per la quarta volta), Aulo Manlio, Servio Sulpicio, Lucio Emilio (tutti e tre per la terza volta), Lucio Lucrezio e Marco Trebonio. Fatta eccezione per i Volsci, che parevano destinati dalla sorte a tenere in costante attività l'esercito romano, oltre le colonie di Circei e di Velletri che stavano ormai da tempo meditando la ribellione, e il Lazio di cui si sospettava, si levarono all'improvviso come nemici i Lanuvini, che fino a quel momento avevano dato prove di assoluta fedeltà.

Ritenendo che il motivo di questo comportamento fosse il disprezzo (dovuto al fatto che il tradimento dei loro concittadini di Velletri era rimasto tanto a lungo impunito), i senatori decisero di presentare di fronte al popolo, alla prima occasione possibile, la proposta di dichiarare guerra a Lanuvio. Perché la plebe fosse meglio disposta nei confronti di questa campagna, essi affidarono a cinque commissari il cómpito di dividere l'agro Pontino e ad altri tre quello di fondare una colonia a Nepi. Poi venne chiesto al popolo di dichiarare la guerra e fu vana l'opposizione da parte dei tribuni: tutte le tribù votarono a favore. La guerra venne preparata nel corso di quell'anno, ma a causa della pestilenza le truppe non lasciarono Roma. 

Questo ritardo avrebbe così concesso ai coloni l'opportunità di supplicare il senato di desistere. Buona parte di essi era favorevole all'invio di una delegazione a Roma con il cómpito di implorare il perdono del senato: ma, come succede di solito, il pericolo cui erano esposti pochi, personalmente, coinvolse la comunità: i responsabili della rivolta - spaventati all'idea di risultare gli unici colpevoli e di venir consegnati come capro espiatorio all'ira dei Romani - convinsero i coloni ad abbandonare il progetto di pace. 

E non si limitarono esclusivamente ad opporsi nel loro senato all'idea della delegazione, ma incitarono buona parte del popolo a uscire dalla città e ad andare a razziare le campagne romane. Questo nuovo affronto fece cadere ogni speranza di pace. Nel corso di quell'anno cominciarono ad arrivare voci di una ribellione da parte degli abitanti di Preneste. Non ostante Tuscolani, Gabini e Labicani, i cui territori erano stato invasi dai Prenestini, li accusassero apertamente, la reazione del senato fu così moderata da far pensare che si credeva poco a simili accuse e non si voleva ritenerle vere. 


XXII

L'anno seguente i nuovi tribuni militari con potestà consolare Spurio e Lucio Papirio guidarono le legioni contro Velletri, mentre i loro quattro colleghi Servio Cornelio Maluginense (eletto per la terza volta), Quinto Servilio, Gaio Sulpicio e Lucio Emilio (per la terza volta) rimasero a difendere la città, pronti all'eventualità che nuovi movimenti venissero segnalati dall'Etruria, zona dove ormai tutto era sospetto. Nei pressi di Velletri i Romani affrontarono, con successo, le truppe ausiliarie mandate dai Prenestini, il numero delle quali quasi era superiore a quello degli stessi coloni. La vicinanza della città fu la causa di una più rapida fuga dei nemici e fu per loro l'unico riparo. 

I tribuni decisero di evitare l'assedio della piazzaforte sia per l'incertezza dell'esito sia nella convinzione che non fosse giusto mirare alla distruzione di una colonia. Nella lettera che fecero pervenire al senato per annunciare la vittoria, essi usarono espressioni di maggiore durezza nei confronti dei Prenestini che dei Veliterni. Così, per decreto del senato e per ordine del popolo, venne dichiarata guerra ai Prenestini. Questi ultimi, alleatisi l'anno successivo con i Volsci, attaccarono Satrico, colonia del popolo romano, e, dopo averla espugnata con la forza non ostante la strenua resistenza degli abitanti, abusarono della vittoria comportandosi indegnamente nei confronti dei prigionieri. 

La cosa indignò i Romani che decisero di nominare per la sesta volta tribuno militare Marco Furio Camillo, cui vennero assegnati come colleghi Aulo e Lucio Postumio Regillense, Lucio Furio, Lucio Lucrezio e Marco Fabio Ambusto. Senza rispettare la regola, la guerra contro i Volsci venne affidata con procedura straordinaria a Marco Furio, cui fu assegnato come aiutante - estratto a sorte tra gli altri tribuni - Lucio Furio, non tanto per il bene del paese quanto piuttosto perché potesse essere origine di ogni tipo di elogio per il collega sia dal punto di vista pubblico, visto che riuscì a rimettere in piedi la situazione compromessa dalla temerarietà dell'altro, che da quello privato, perché utilizzò l'errore di Lucio per ottenerne la riconoscenza piuttosto che procurarsi della gloria per se stesso. 

Camillo, ormai avanti negli anni, era pronto, al momento dell'elezione, a giurare secondo le formule di rito che ragioni di salute lo obbligavano a rifiutare la carica: ma il popolo, unanimemente, si oppose. In quel petto fervido albergava un carattere energico e le sue facoltà vitali erano perfettamente intatte. Oltretutto, pur non occupandosi più molto di politica, le cose della guerra lo infiammavano ancora. Così, dopo aver arruolato quattro legioni di quattromila uomini ciascuna, le convocò per il giorno successivo presso la porta Esquilina e quindi partì alla volta di Satrico. 

Lì quelli che avevano espugnato la colonia lo stavano aspettando senza il minimo timore reverenziale, fiduciosi com'erano nella netta superiorità numerica che vantavano. Non appena videro i Romani avanzare verso di loro, si schierarono súbito in assetto di battaglia, decisi a non rimandare più oltre uno scontro decisivo. Così facendo essi ritenevano che il numero ridotto dei nemici non avrebbe trovato alcun supporto nell'abilità militare del loro generale, che al momento ne rappresentava il solo punto di forza. 


XXIII

Lo stesso ardore animava l'esercito romano e il secondo comandante, e le sole cose che ritardassero il rischio di uno scontro immediato erano l'assennatezza e l'autorità di un unico uomo, che, sforzandosi di prolungare la campagna, cercava l'occasione per supplire all'inferiorità delle forze con qualche mossa tattica. Per questo il nemico aumentava ancora di più la pressione e non si limitava soltanto a spiegare le truppe di fronte all'accampamento, ma avanzava anche in mezzo alla pianura e si spingeva quasi fino sotto il terrapieno dei romani, ostentando un'orgogliosa fiducia nelle proprie forze. 

I soldati romani mal tolleravano queste esibizioni, ma la cosa costava ancora più fatica al secondo comandante, Lucio Furio, uomo impetuoso per ragioni di età e di carattere, ed esaltato dalla speranza della massa, cui la grande incertezza della situazione infondeva coraggio. Anche se i soldati erano già di per sé infiammati, egli li sobillava screditando il prestigio del collega nell'unico modo possibile, e cioè sul piano dell'età. Continuava infatti a ripetere che le guerre sono fatte per i giovani e che gli animi prendono vigore e sfioriscono con il corpo. 

Il più accanito dei combattenti si stava trasformando in un temporeggiatore, uno solito in passato a impadronirsi al primo assalto degli accampamenti e delle città presso le quali arrivava, adesso se ne stava a perder tempo, inerte, dentro al vallo. Cosa sperava? Di accrescere le proprie forze o che diminuissero quelle nemiche? Quale occasione propizia, quale momento favorevole stava attendendo, e quale imboscata stava preparando? Le idee del vecchio erano fredde e lente. Camillo aveva avuto lunga vita e gloria: ma allora perché permettere che le forze di un paese destinato all'immortalità deperissero insieme col corpo mortale di un unico uomo? Dopo essersi conquistato con discorsi di questo tipo la simpatia di tutto l'accampamento, e poiché da ogni parte si invocava la battaglia, Lucio Furio aggiunse: 

«Non possiamo, o Marco Furio, frenare più a lungo l'entusiasmo dei soldati, mentre il nemico, di cui abbiamo incrementato il coraggio a forza di indugiare, ormai ci offende con un'intollerabile arroganza. Fatti da parte, visto che sei solo contro tutti, e lasciati vincere dal buon senso, in modo da vincere più rapidamente in guerra.» 

A queste parole Camillo replicò che nelle guerre combattute fino a quel giorno sotto i suoi soli auspici, né il popolo romano né lui stesso si erano mai pentiti delle sue risoluzioni o della sua buona sorte; sapeva di avere ora un collega con pari diritti e autorità, ma superiore per il vigore dovuto alla giovane età. Perciò, pur essendo abituato - almeno in ciò che riguardava l'esercito - a comandare e non a essere comandato, non aveva il potere di ostacolare l'autorità del collega. Agisse, dunque, con l'aiuto degli dèi, come riteneva più vantaggioso per la repubblica: egli, per parte sua, domandava di non andare in prima linea in considerazione dell'età, garantendo però che non sarebbe venuto meno agli obblighi di un anziano in guerra. 

Agli dèi immortali chiedeva solo questo: che un disgraziato caso non facesse rimpiangere i suoi piani. Ma né gli uomini dettero ascolto a queste parole di salvezza, né gli dèi esaudirono una preghiera così pia. Il fautore dello scontro schierò la prima linea, mentre Camillo assicurò la copertura delle retrovie, disponendo un solido contingente di fronte all'accampamento. Poi si andò a piazzare su un'altura, osservando con attenzione i risultati dell'altrui strategia. 


XXIV

Appena risuonarono al primo scontro le armi, i nemici indietreggiarono, non tanto per paura quanto per una calcolata astuzia. Alle loro spalle c'era un lieve rialzo del terreno tra il campo di battaglia e l'accampamento. Siccome avevano uomini in eccesso, avevano schierato nell' accampamento alcune coorti armate, il cui cómpito sarebbe stato quello di uscire allo scoperto nel caso in cui, a battaglia già in pieno svolgimento, i nemici si fossero avvicinati alla trincea. I Romani, essendosi buttati in maniera disordinata all'inseguimento dei nemici in ritirata, vennero attirati in una posizione svantaggiosa, esponendosi così a quel tipo di sortita. 

Il terrore investì chi si credeva vincitore: sia per la comparsa del nuovo nemico, sia per il declivio del fondovalle, la schiera romana cominciò a cedere, incalzata dalle forze fresche dei Volsci che avevano operato la sortita, alle quali si andarono ad aggiungere di rincalzo anche gli altri che si erano ritirati simulando la fuga. I soldati romani non riuscivano più a riprendersi. Dimentichi della baldanza di poco prima e delle antiche glorie, volgevano le spalle da ogni parte e correvano all'impazzata in direzione dell'accampamento. In quel preciso istante Camillo, fattosi mettere in sella da quelli che gli stavano intorno, dopo aver buttato frettolosamente nella mischia i riservisti ai suoi ordini: 

«È questo,» gridò, «soldati, il tipo di battaglia che volevate? C'è qualcuno tra gli uomini, tra gli dèi che ora possiate accusare? Vostra è stata la temerarietà di prima, così come vostra è adesso la viltà. Avete seguito un altro comandante: ora seguite Camillo e, com'è vostra abitudine quando sono io al comando, vincete. Perché fissate la trincea e l'accampamento? Nessuno di voi ci entrerà, se non da vincitore

Prima la vergogna arrestò le truppe in fuga. Poi, quando videro che gli stendardi si rivolgevano in avanti e che le schiere puntavano contro il nemico, e che il loro comandante, famoso per i molti trionfi ottenuti e venerando per età, si esponeva al pericolo in mezzo ai vessilliferi, cioè là dove il rischio e l'intensità della battaglia erano elevatissimi, cominciarono a incitarsi reciprocamente, e il grido di mutuo incoraggiamento si diffuse per tutto l'esercito con animoso clamore. Non venne a mancare l'apporto neppure dell'altro tribuno. 

Anzi, inviato a incitare la cavalleria dal collega impegnato nel frattempo a riordinare la fanteria, Lucio Furio, senza ricorrere ai rimproveri - visto che la sua corresponsabilità nella loro colpa avrebbe privato di efficacia un atteggiamento di quel tipo -, ma passando dagli ordini alle preghiere, li scongiurò uno per uno e tutti insieme di evitargli l'incriminazione come responsabile dell'infausta sorte di quel giorno. «Nonostante», disse, «l'opposizione e la resistenza del mio collega, ho preferito associarmi all'imprudenza di tutti piuttosto che all'assennatezza di un solo uomo. Camillo, qualunque sia l'esito della vostra battaglia, ne avrà gloria. Io invece, se la situazione non si ristabilisce, avrò modo di sperimentare quanto di più infelice vi può essere, e cioè dividere con voi tutti la sconfitta, ma subire da solo il peso dell'infamia.» 

Siccome la linea del fronte ondeggiava, sembrò che la cosa più opportuna fosse abbandonare i cavalli e attaccare il nemico a piedi. Rifulgendo per le armi e il coraggio, i cavalieri appiedati si diressero dove le schiere di fanti erano sottoposte alla massima pressione. Né i comandanti né i soldati si concessero un attimo di tregua in quello scontro durissimo, e l'apporto offerto dai loro sforzi valorosi si fece sentire nell'esito finale. 

I Volsci vennero sbaragliati e costretti a una vera fuga in quel punto dove prima avevano finto di ritirarsi per paura. Gran parte di essi fu uccisa sia nel corso della battaglia, sia durante la successiva fuga. Gli altri vennero ammazzati nell'accampamento, conquistato a séguito di quella stessa carica. Tuttavia il numero dei prigionieri superò quello dei caduti. 


XXV

Durante la rassegna alcuni prigionieri vennero riconosciuti come Tuscolani: furono separati dagli altri e condotti di fronte ai tribuni, alle cui domande risposero di aver preso parte a quella guerra a séguito di una deliberazione pubblica. Preoccupato da una guerra con una popolazione così vicina, Camillo dichiarò che avrebbe immediatamente portato i prigionieri a Roma, affinché i senatori venissero informati che i Tuscolani avevano rotto l'alleanza. Nel frattempo il collega, se non aveva nulla in contrario, assumesse il comando dell'accampamento e dell'esercito. 

Un solo giorno era bastato per insegnare a Lucio Furio a non anteporre la propria decisione a progetti più assennati. Tuttavia né lui né nessun altro all'interno dell'esercito supponeva che Camillo gli avrebbe tranquillamente lasciato passare l'errore per cui il paese si era trovato in una situazione tanto disperata. E non solo nell'esercito, ma anche a Roma tutti erano d'accordo nell'affermare che, nella varia fortuna dell'azione contro i Volsci, la colpa dell'insuccesso momentaneo e della fuga era di Lucio Furio, mentre l'intero merito per la vittoria toccava a Camillo. 

Ma quando i prigionieri vennero introdotti in senato e i senatori, dopo aver deciso di punire i Tuscolani con la guerra, ne affidarono il comando a Camillo, questi chiese di poter avere un collaboratore per quell'impresa, ed essendogli stato concesso di scegliere il collega che preferiva, contro le previsioni di tutti egli optò per Lucio Furio. E se con questo gesto di moderazione Camillo cancellò il disonore del collega, nel contempo procurò a se stesso grande gloria. Ma coi Tuscolani non si arrivò alla guerra: grazie a una condotta stabilmente pacifica, essi evitarono la violenza dei Romani a cui non avrebbero potuto resistere con le armi. 

Quando i Romani fecero ingresso nel loro territorio, essi non fuggirono dalle zone vicine alla direzione di marcia, non interruppero i lavori nei campi, e lasciando aperte le porte della città, andarono incontro ai comandanti in gran folla e vestiti in abiti civili. Dalla città e dalle campagne vennero generosamente portati nell'accampamento viveri per l'esercito. Posto il campo di fronte alle porte, Camillo, desiderando sapere se anche all'interno delle mura appariva la stessa aria di pace che si ostentava nelle campagne, entrò in città. 

Lì vide le porte delle case spalancate, le botteghe aperte, con tutta la mercanzia bene in vista, gli artigiani impegnati ciascuno nel proprio lavoro, le scuole che risuonavano per le voci degli scolari, le strade piene di gente con donne e bambini mescolati tra la folla e diretti là dove i rispettivi impegni li chiamavano, il tutto senza avvertire da nessuna parte non solo alcun segno di paura ma nemmeno di stupore. Camillo si guardava intorno con attenzione, cercando di scoprire le tracce tangibili di una guerra imminente. Ma non c'era alcun segno di cose spostate o preparate per l'occasione. Anzi tutto era così immerso in una quiete pacifica e costante, che sembrava impossibile vi fosse anche solo arrivata una qualche notizia della guerra. 


XXVI

Vinto così dall'atteggiamento passivo dei nemici, ordinò che venisse convocata una seduta del loro senato. «Cittadini di Tuscolo,» disse, «fino a oggi voi siete stati i soli ad aver scoperto quali siano le vere armi e le vere risorse con cui proteggere le vostre cose dall'ira dei Romani. Andate a Roma e presentatevi al senato: i senatori valuteranno se abbiate meritato più la punizione in passato che non il perdono adesso. Io non voglio anticipare un beneficio che dev'essere concesso dallo Stato. Ciò che potrete avere da me è l'opportunità di chiedere perdono al senato, che si riserverà di esaudire le vostre preghiere nella maniera che gli sembrerà più opportuna.» 

Quando i Tuscolani arrivarono a Roma e i senatori di un popolo un tempo alleato fedele si presentarono mesti nell'ingresso della curia, i membri del senato, colpiti da quella vista, ordinarono di farli entrare immediatamente più come ospiti che come nemici. Il dittatore di Tuscolo si rivolse a loro con queste parole: 

«Noi, ai quali voi avete dichiarato e portato guerra, o padri coscritti, siamo andati incontro alle vostre legioni e ai vostri comandanti con le stesse armi e la stessa preparazione con le quali adesso ci vedete qui in piedi nel vestibolo della vostra curia. Questa è sempre stata e continuerà a essere la caratteristica nostra e del nostro popolo, salvo i casi in cui si prendano le armi su vostra richiesta e in vostra difesa. Ringraziamo i vostri comandanti e le vostre truppe per essersi fidati più degli occhi che delle orecchie, e per non aver dimostrato ostilità là dove non ce n'era nei loro stessi confronti. A voi chiediamo quella pace di cui noi abbiamo dato prova. 

La guerra vi preghiamo di rivolgerla là dove ci sia. Se è destino che a noi tocchi sperimentare ciò di cui sono capaci le vostre armi, allora lo sperimenteremo da disarmati. Queste sono le nostre intenzioni, e vogliano gli dèi ch'esse siano tanto fortunate quanto sincere. Per quel che poi concerne le accuse che vi hanno spinto a dichiararci guerra, pur non servendo a nulla confutare a parole ciò che i fatti hanno già smentito, tuttavia, anche se fossero state vere, siamo dell'avviso che, di fronte a un pentimento tanto evidente quanto il nostro, non sarebbe pericoloso dichiararsi colpevoli. Si commettano pure delle mancanze nei vostri confronti, purché continuate a esser degni di ricevere richieste di perdono quali la nostra.» 

Il discorso dei Tuscolani fu più o meno di questo tenore. Per il momento venne loro garantita la pace, mentre non molto tempo dopo ottennero anche la cittadinanza. Le legioni vennero richiamate da Tuscolo.


XXVII

Camillo, copertosi di gloria sia per il coraggio e il senno dimostrati nella guerra contro i Volsci nonché il fortunato esito della spedizione contro Tuscolo, sia per l'indulgenza e la moderazione avute nei confronti del collega in entrambe le occasioni, abbandonò la propria carica quando vennero eletti tribuni militari per l'anno successivo Lucio e Publio Valerio (il primo per la quinta e il secondo per la terza volta), Gneo Sergio (per la terza volta), Licinio Menenio, Publio Papirio e Servio Cornelio Maluginense. 

Quell'anno si rese anche necessaria l'opera dei censori, soprattutto sulla base di incerte voci circolanti sull'entità dei debiti, con i tribuni della plebe che esageravano per accrescere il malcontento, mentre la sminuiva chi aveva interesse a far sembrare la concessione di prestiti messa in pericolo più dalla scarsa affidabilità dei debitori che dalla loro indigenza. Vennero eletti censori Gaio Sulpicio Camerino e Spurio Postumio Regillense, ma il censimento già iniziato venne interrotto per la morte di Postumio, perché gli scrupoli religiosi vietavano di nominare un collega in sostituzione. 

Così, avendo Sulpicio rinunziato alla carica, vennero eletti dei nuovi censori, ma essendoci un vizio nell'elezione, non entrarono in funzione. Gli scrupoli religiosi, fondati sulla convinzione che gli dèi non volessero la censura per quell'anno, impedirono una terza elezione. Ma i tribuni della plebe sostenevano di non poter tollerare che li si prendesse in giro in quella maniera. A loro detta, il senato voleva evitare che le tavole esposte in pubblico documentassero il censo individuale, per impedire così che si venisse a conoscenza dell'ammontare del debito, cosa questa destinata a dimostrare come metà del paese fosse stata affossata dall'altra metà, mentre la plebe oberata dai debiti veniva nel frattempo mandata allo sbaraglio contro un nemico dopo l'altro. 

Ormai non c'era più alcun limite nel ricercare focolai di guerra dappertutto: da Anzio le legioni erano state condotte a Satrico, da Satrico a Velletri e di lì a Tuscolo. Adesso minacciavano di guerra i Latini, gli Ernici e i Prenestini più per odio verso i cittadini romani che verso i nemici, nell'intento di logorare i plebei con campagne militari impedendo loro di tirare il fiato in città o di pensare con calma alla libertà, o ancora di partecipare alle assemblee popolari, dove ogni tanto potessero sentire la voce dei tribuni che reclamavano l'abolizione dell'usura e la fine delle altre ingiustizie perpetrate nei loro confronti. 

Ma se i plebei fossero stati in grado di ricordarsi della libertà dei padri, non avrebbero permesso che alcun cittadino romano fosse aggiudicato come schiavo per motivi di denaro preso in prestito, né che venissero organizzate leve militari fino a quando, accertato l'importo dei debiti e adottato qualche criterio per diminuirlo, ciascuno non sapesse cosa apparteneva a lui e cosa agli altri, e se la sua persona era ancora libera o se anche essa risultava destinata al carcere. Il premio proposto per i disordini li fece scoppiare immediatamente. 

Infatti, mentre erano molti i debitori assegnati come schiavi, e mentre i senatori avevano votato l'arruolamento di nuove legioni sulla base di voci circa una guerra da parte di Preneste, si cercò di ostacolare contemporaneamente questi due provvedimenti con l'aiuto dei tribuni e il consenso della plebe: i tribuni infatti non permettevano che i debitori insolventi venissero trascinati via, e i più giovani non andavano a arruolarsi. 

Anche se i senatori si preoccupavano per il momento meno di far valere la legge sul debito che non della leva militare - e non a torto, visto che stando alle notizie pervenute i nemici erano già partiti da Preneste e si erano accampati nel territorio di Gabi -, questa stessa voce era stata per i tribuni della plebe più un incentivo per la lotta intrapresa che un vero deterrente; perché i disordini scoppiati in città si placassero fu necessario che la guerra arrivasse a pochi passi dalle mura stesse di Roma. 


XXVIII

Non appena i Prenestini vennero informati che a Roma non era stato arruolato alcun esercito, che non era stato designato un comandante e che patrizi e plebei erano in lotta gli uni contro gli altri, i loro capi ne dedussero che si trattava dell'occasione buona e, dopo aver messo rapidamente in movimento le truppe, devastarono le campagne incontrate durante la marcia di avvicinamento e avanzarono fino alla porta Collina. Grande fu il panico in città. Venne dato l'allarme e si corse verso le mura e le porte. Poi, passati finalmente dai disordini interni ad occuparsi della guerra, elessero dittatore Tito Quinzio Cincinnato, che scelse come maestro di cavalleria Aulo Sempronio Atratino. 

Appena la notizia si diffuse - tanto era il terrore che questa magistratura riusciva a incutere -, immediatamente i nemici si allontanarono dalle mura e i giovani romani in età militare risposero alla leva senza più opporre resistenza. Mentre a Roma veniva arruolato l'esercito, i nemici si andarono ad accampare non lontano dal fiume Allia. Da quel punto saccheggiando in lungo e in largo le campagne dei dintorni, si vantavano fra di loro di aver occupato una posizione fatale alla città di Roma: a loro detta lì ci sarebbe stata un'altra rotta spaventosa, simile a quella verificatasi durante la guerra contro i Galli. 

Se infatti i Romani temevano quel giorno maledetto e reso celebre dal nome della località, quanto più del giorno Alliense avrebbero essi temuto l'Allia stesso, che era il ricordo tangibile di una così grande disfatta? Erano sicuri che in quel luogo i Romani si sarebbero visti davanti agli occhi i volti truci dei Galli e ne avrebbero riudito le urla con le orecchie. A forza di perdersi in queste vacue riflessioni su vacui argomenti, i Prenestini avevano riposto ogni loro speranza nella fortuna del luogo. 

I Romani al contrario avevano l'assoluta certezza che, dovunque si trovasse il nemico latino, si trattava pur sempre di quello stesso nemico battuto presso il lago Regillo e costretto a una disonorevole pace per un periodo di cent'anni. Un luogo la cui fama era legata al ricordo di una disfatta li avrebbe stimolati a cancellare la memoria di quella vergogna, piuttosto che a temere l'esistenza di un qualche infausto terreno che negava la vittoria ai Romani. Non c'erano dubbi: se anche i Galli stessi si fossero presentati lì, avrebbero combattuto come quando avevano combattuto a Roma per riconquistare la patria o come il giorno successivo a Gabi, quando avevano fatto in modo che nessun nemico entrato all'interno delle mura di Roma potesse riportare in patria la notizia della buona e della cattiva sorte. 


XXIX

Gli stati d'animo delle due parti erano questi, quando si giunse all'Allia. Il dittatore romano, non appena apparvero alla vista i nemici inquadrati in ordine di battaglia e pronti a combattere, disse: «Non vedi, Aulo Sempronio, che si sono fermati lungo l'Allia riponendo ogni loro speranza nella fortuna del luogo? Ma gli dèi immortali non concedano loro nessun altro più sicuro motivo di sicurezza né un aiuto più valido di questo! Tu confida invece nelle armi e nel valore, e carica con la cavalleria il centro del loro schieramento. Quanto a me, li attaccherò quando saranno sconvolti e spaventati. O dèi, testimoni dei patti, assisteteci e fate scontare la pena dovuta a coloro che hanno offeso 149 empiamente voi e ingannato noi nel vostro sacro nome.» 

I Prenestini non riuscirono a reggere l'urto né della cavalleria né della fanteria. Le loro file vennero sbaragliate al primo scontro accompagnato dall'urlo di guerra. Poi, visto che il loro schieramento cedeva in ogni punto, si voltarono dandosi alla fuga. Nello scompiglio lo spavento li spinse a superare addirittura l'accampamento e non riuscirono a frenare la loro corsa disordinata se non quando giunsero alla vista di Preneste. 

Lì i resti sparpagliati della rotta occuparono una posizione con l'intento di fortificarla in fretta e furia, per evitare che, andandosi a barricare all'interno delle mura, le campagne venissero messe a ferro e fuoco e che dopo aver devastato ogni cosa, i Romani assediassero la città. Ma appena apparvero i Romani reduci dalla distruzione dell'accampamento nemico presso l'Allia, i Prenestini abbandonarono anche quella posizione e, convinti che le mura garantissero ben poca protezione, si barricarono all'interno della cittadella. 

Altre otto città si trovavano sotto il dominio di Preneste. I Romani allargarono la guerra contro questi centri e, dopo averli conquistati uno dopo l'altro senza eccessivi sforzi, marciarono contro Velletri e la conquistarono nella stessa maniera. Fu allora che tornarono a Preneste, vero centro del conflitto, conquistandola però non con la forza ma a séguito di volontaria capitolazione. Tito Quinzio, dopo aver trionfato in una battaglia campale, catturato due accampamenti nemici, conquistato con la forza nove città, e accettato la resa di Preneste, ritornò a Roma, dove portò in trionfo sul Campidoglio la statua di Giove Imperatore da lui sottratta a Preneste e che fu collocata all'interno del tempio, tra le celle di Giove e di Minerva. 

Al di sotto della statua venne poi affissa una tavoletta che a commemorazione delle sue gesta recava un'iscrizione contenente più o meno queste parole: «Giove e tutti gli altri dèi concessero al dittatore Tito Quinzio di conquistare nove città». A venti giorni di distanza dall'elezione, egli rinunciò alla dittatura. 


XXX

Si tennero poi le elezioni dei tribuni militari con potestà consolare, nelle quali patrizi e plebei ebbero un numero uguale di eletti. Tra i patrizi ottennero la nomina Publio e Gaio Manlio insieme a Lucio Giulio; la plebe fornì invece come magistrati Gaio Sestilio, Marco Albinio e Lucio Antistio. I due Manli erano superiori ai colleghi plebei per nobiltà di natali e a Lucio Giulio per autorevolezza. Così, con una procedura straordinaria, venne loro affidata la campagna contro i Volsci, senza fare ricorso al sorteggio o all'accordo preventivo tra i colleghi (assegnazione questa di cui in séguito si dovettero pentire sia loro stessi sia i senatori che l'avevano concessa). 

Essi inviarono delle coorti a fare rifornimento di foraggio senza però aver prima effettuato delle ricognizioni. Giunta la falsa notizia che le coorti erano state accerchiate, si affrettarono a portare loro aiuto, e, senza nemmeno tener sotto sorveglianza l'informatore (si trattava di un nemico latino che li aveva ingannati facendosi passare per un soldato romano), caddero in un'imboscata. Mentre lì, resistendo, anche se attestati in una posizione svantaggiosa, grazie al solo coraggio degli uomini, subivano grosse perdite ma ne infliggevano altrettante, dalla parte opposta i nemici attaccarono l'accampamento romano situato in pianura. 

Nell'uno e nell'altro episodio, la causa romana venne tradita dall'avventatezza e dall'inesperienza dei comandanti. Ciò che restava della buona sorte del popolo romano, venne salvato dal sicuro valore dei soldati che continuavano a battersi non ostante fossero privi di una guida. Non appena giunse a Roma la notizia di questi avvenimenti, la prima reazione fu quella di nominare un dittatore. Poi però, quando si venne a sapere che nel territorio dei Volsci la situazione era sotto controllo e risultò evidente che il nemico non aveva saputo sfruttare la vittoria e l'occasione favorevole, vennero richiamate le truppe e i comandanti che si trovavano in quella zona e da qual momento in poi non ci furono più problemi almeno per quel che riguardava i Volsci. 

L'unico motivo di allarme - verso la fine dell'anno - fu rappresentato da una ribellione dei Prenestini che spinsero i popoli latini alla rivolta. Nel corso di quello stesso anno vennero iscritti dei nuovi coloni per la città di Sezia, visto che i suoi abitanti si lamentavano della penuria di popolazione. Gli insuccessi in campo militare vennero compensati dalla pace interna, ottenuta grazie all'influenza e al prestigio di cui i tribuni militari plebei godevano presso la plebe. 


XXXI

All'inizio dell'anno successivo, sotto il tribunato militare di Spurio Furio, Quinto Servilio (per la seconda volta), Lucio Menenio (per la terza), Publio Clelio, Marco Orazio e Lucio Geganio, scoppiarono gravi disordini, il cui oggetto e la cui causa erano rappresentati dai debiti. Spurio Servilio Prisco e Quinto Clelio Siculo vennero nominati censori per poterne accertare l'entità, ma la guerra impedì loro di accingersi al cómpito. Infatti prima dei messaggeri spaventati, poi i villici in fuga dalle campagne riferirono che le legioni dei Volsci avevano superato il confine e stavano dovunque mettendo a ferro e fuoco la campagna romana. 

Nonostante questa situazione d'allarme, la minaccia proveniente dall'esterno fu tanto lontana dal frenare gli scontri interni, che al contrario i tribuni della plebe ostacolarono la leva con ancora maggiore determinazione, fino a quando furono imposte ai patrizi queste condizioni, che per tutta la durata del conflitto nessuno avrebbe pagato il tributo di guerra né avrebbe potuto essere processato per questioni di debiti contratti. Dopo aver ottenuto per la plebe queste concessioni, cessò l'ostruzionismo alla leva. 

Una volta arruolate le nuove legioni, si decise di inviare due eserciti nel territorio dei Volsci, dividendo però le forze: Spurio Furio e Marco Orazio marciarono verso destra, in direzione della costa e di Anzio, mentre Quinto Servilio e Lucio Geganio si portarono a sinistra, verso le montagne ed Ecetra. In nessuna delle due parti il nemico si fece incontro. Pertanto si buttarono a saccheggiare le campagne, ma non in fretta e disordinatamente, da banditi, come avevano fatto i Volsci, i quali contavano sulle discordie degli avversari, ma ne temevano il valore, bensì come un esercito legittimo, mosso da ira legittima e più devastante negli effetti per il fatto di impiegare più tempo nell'operazione. 

Infatti i Volsci avevano fatto scorrerie al limite estremo del territorio romano, per paura che nel frattempo l'esercito avversario potesse uscire da Roma. Al contrario i Romani si trattenevano in territorio nemico per attirare i Volsci allo scontro. Così, dopo aver incendiato tutte le fattorie sparse nei campi e anche alcuni villaggi, senza lasciare in piedi nemmeno un albero da frutto e distruggendo i seminati che ancora potessero far sperare nel raccolto, i due eserciti si portarono via come bottino tutti gli uomini e gli animali catturati al di fuori delle mura e quindi tornarono a Roma. 


XXXII

Ai debitori era stato dato un po' di tempo per tirare il fiato. Ma non appena cessarono le ostilità, i tribunali cominciarono di nuovo a funzionare a pieno ritmo, e la speranza di essere alleggeriti dai vecchi debiti era così lontana che se ne dovettero contrarre di nuovi per pagare una tassa imposta per la costruzione di un muro di blocchi squadrati, opera appaltata dai censori. La plebe fu costretta a piegarsi a questo onere fiscale perché i tribuni non avevano alcuna leva militare da ostacolare. I nobili, grazie ai loro potenti mezzi, riuscirono a costringere il popolo a eleggere tribuni militari tutti patrizi. 

I loro nomi erano: Lucio Emilio, Publio Valerio (eletto per la quarta volta), Gaio Veturio, Servio Sulpicio, Lucio e Gaio Quinzio Cincinnato. Sempre grazie ai loro mezzi, i patrizi riuscirono - senza che nessuno si opponesse - a far prestare giuramento a tutti i giovani in età militare e ad arruolare così tre eserciti da opporre a Latini e Volsci che avevano unito le proprie truppe e si erano accampati nei pressi di Satrico. Un esercito era destinato alla difesa della città. Il secondo doveva tenersi pronto per ogni improvvisa emergenza di guerra, nel caso si fossero verificati da qualche parte dei movimenti ostili. 

Il terzo, che era di gran lunga il più forte, fu fatto marciare alla volta di Satrico agli ordini di Publio Valerio e di Lucio Emilio. Avendo lì trovato il nemico schierato a battaglia in un luogo pianeggiante, si venne súbito alle armi. E anche se la vittoria non era ancora sicura, ciò non ostante lo scontro faceva nutrire buone speranze, quando venne interrotto da violenti scrosci di pioggia scatenatisi a séguito di un grosso temporale. Venne ripreso il giorno dopo e per qualche tempo soprattutto le legioni latine, abituate dalla lunga alleanza alla tecnica militare romana, riuscirono a resistere con pari coraggio e fortuna. 

Ma l'arrivo della cavalleria gettò lo scompiglio tra le file nemiche, e nel pieno del disordine ci fu l'attacco della fanteria. Non appena le sorti della lotta volsero in loro favore, l'impeto dei Romani divenne insostenibile. I nemici, una volta sbaragliati, invece di ritirarsi nell'accampamento, cercarono di raggiungere Satrico, che distava due miglia da quel punto, e vennero massacrati soprattutto dai cavalieri. Il loro accampamento fu preso e saccheggiato. Nel corso della notte successiva alla battaglia, i nemici raggiunsero Anzio da Satrico con una marcia che assomigliava molto a una fuga. 

E non ostante l'esercito romano seguisse da vicino le loro tracce, la paura dimostrò di essere più veloce dell'ira. Così i nemici riuscirono a entrare all'interno delle mura prima che i Romani potessero agganciare o bloccare la loro retroguardia. Alcuni giorni furono poi dedicati al saccheggio delle campagne dei dintorni, perché i Romani non erano sufficientemente equipaggiati per attaccare le mura e i nemici per affrontare il rischio di una battaglia. 


XXXIII

Allora tra Anziati e Latini sorse una contesa, perché i primi, schiacciati dalle proprie disgrazie e logorati da una guerra che li aveva visti nascere e invecchiare, aspiravano alla resa, mentre i secondi, ribellatisi di recente dopo un lungo periodo di pace e interiormente ancora pieni di energie, erano quanto mai decisi a continuare la guerra con accanimento. La contesa terminò quando entrambe le parti si resero conto che nessuna delle due parti poteva impedire in alcun modo all'altra di attuare le proprie decisioni. 

I Latini se ne andarono, evitando di partecipare a quella che consideravano una pace vergognosa. Gli Anziati, invece, una volta liberati da scomodi arbitri dei loro salutari progetti, consegnarono la città e le campagne ai Romani. La rabbia e il risentimento dei Latini, che non erano riusciti né a danneggiare i Romani con la guerra né a convincere i Volsci a restare in armi, esplosero con tale violenza da dare alle fiamme Satrico, la città che era stata il loro primo rifugio dopo la sconfitta. 

Siccome lanciarono le loro torce incendiarie senza distinzione alcuna tanto sugli edifici profani quanto su quelli sacri, la sola costruzione di Satrico che rimase in piedi fu il tempio della Madre Matuta. Stando alla leggenda, ciò che li tenne lontani da questo edificio non fu né lo scrupolo religioso né la reverenza nei confronti degli dèi, ma una voce spaventosa uscita dal tempio che li minacciava di funeste conseguenze, nel caso in cui non avessero tenuto il fuoco sacrilego a debita distanza dal santuario. 

Accesi da quella feroce rabbia, i Latini rivolsero la propria furia contro Tuscolo e i suoi abitanti, perché dopo aver abbandonato la comune unione dei Latini, avevano accettato non solo di essere alleati, ma anche cittadini di Roma. Trattandosi di un attacco del tutto imprevisto, le porte erano aperte e così, al primo urlo di battaglia, la città venne conquistata interamente, tranne la rocca. Lì si andarono a rifugiare i cittadini con mogli e figli e di lì inviarono a Roma dei messaggeri per informare il senato della loro situazione. 

Con una tempestività degna della lealtà del popolo romano, venne inviato a Tuscolo un esercito agli ordini dei tribuni militari Lucio Quinzio e Servio Sulpicio. Essi trovarono le porte di Tuscolo chiuse e i Latini contemporaneamente nello stato d'animo sia di assediati che di assedianti: da un lato proteggevano le mura della città, dall'altro ne assediavano la rocca, e insieme minacciavano e temevano. 

L'arrivo dei Romani aveva modificato l'umore di entrambe le parti: i Tuscolani erano passati dalla disperazione più totale al culmine della gioia, i Latini, dalla certezza quasi assoluta di prender presto la rocca, in quanto si erano già impadroniti della città, a una ben scarsa speranza di salvare se stessi. Dalla rocca i Tuscolani alzarono un grido di guerra cui fece eco uno ancora più forte da parte dell'esercito romano. 

Pressati da entrambe le parti, i Latini non riuscirono né a sostenere la carica dei Tuscolani che si abbatterono su di loro calando dall'alto della rocca, né a resistere ai Romani che stavano invece scalando le mura e cercando di sfondare le porte sbarrate. Prima furono prese le mura, con l'ausilio di scale. Poi furono spezzate le sbarre delle porte. Siccome i Latini erano pressati sia alle spalle che di fronte e non avevano più forza per combattere né spazio per darsi alla fuga, vennero presi nel mezzo e massacrati dal primo all'ultimo. Dopo aver strappato Tuscolo al nemico, l'esercito venne ricondotto a Roma. 


XXXIV

Quanto più l'esito favorevole delle guerre di quell'anno aveva assicurato la tranquillità esterna, tanto più aumentavano in città giorno dopo giorno la violenza dei patrizi e le sofferenze della plebe, poiché proprio l'obbligo di pagare i debiti alla scadenza rendeva ancora più difficile la possibilità di estinguerli. E così, siccome la gente non poteva più far fronte ai pagamenti ricorrendo al proprio patrimonio, i debitori dichiarati colpevoli e assegnati ai creditori come schiavi soddisfacevano i creditori con la perdita dell'onore e della libertà, e la pena aveva rimpiazzato il pagamento. 

Di conseguenza, non solo le persone più umili, ma anche i capi erano così abbattuti e sottomessi che tra di loro non c'era più un solo uomo che avesse la determinazione e l'intraprendenza necessarie non solo per contendere il tribunato militare ai patrizi (privilegio questo per il quale avevano lottato con così tanto accanimento), ma anche per aspirare alle magistrature plebee ed esigerle. Sembrava che i patrizi avessero ripreso per sempre possesso di una carica detenuta dai plebei soltanto per qualche anno. 

Ma a non permettere che esultasse troppo una sola delle due parti, un motivo da nulla, come spesso succede, ingenerò conseguenze di grossa portata. Le due figlie di Marco Fabio Ambusto, uomo di notevole influenza non solo all'interno del proprio gruppo ma anche presso la plebe (i cui membri non lo consideravano assolutamente uno che li disprezzava), erano andate in moglie la maggiore a Servio Sulpicio, mentre la minore a Gaio Licinio Stolone, personaggio molto in vista anche se di estrazione plebea. 

E il fatto stesso che Fabio non avesse disdegnato questa parentela gli aveva acquisito il favore del popolo. Per puro caso successe che, mentre le sorelle Fabie si trovavano in casa di Servio Sulpicio allora tribuno militare e stavano chiacchierando, come spesso succede alle donne, per far passare il tempo, un littore di Sulpicio, tornando a casa dal foro, bussò alla porta - secondo l'usanza - con la sua verga. Fabia, la minore, che non era abituata a quest'usanza, si spaventò, e la sorella scoppiò a ridere, sorpresa di questa ignoranza. 

Ma quella risata, dato che gli stati d'animo delle donne si lasciano influenzare da cose da nulla, punse al vivo la giovane. Ma forse anche la grande folla che accompagnava il tribuno e gli domandava se avesse qualche ordine da dare le fece sembrare felice il matrimonio della sorella, portandola a sentirsi scontenta del suo, per quell'insana voglia per cui nessuno accetta di essere sorpassato dai propri parenti. 

Un giorno che lei era ancora tormentata per la recente offesa al suo orgoglio, il padre che la incontrò per caso le chiese se andasse tutto bene. Ma non ostante la ragazza cercasse di nascondere il vero motivo del proprio risentimento, considerandolo poco affettuoso nei confronti della sorella e non troppo onorevole verso il marito, il padre, insistendo con dolcezza, riuscì a farle confessare la causa del suo cruccio: essere unita a un uomo di condizione inferiore alla sua, e di essersi sposata in una casa dove non potevano entrare né gli onori né il prestigio. 

Cercando di consolare la figlia, Ambusto le consigliò di stare di buon animo, garantendole che di lì a poco avrebbe visto nella propria casa quegli stessi onori che vedeva dalla sorella. Da quel momento in poi cominciò a fare progetti con il genero, introducendo nelle loro riunioni anche Lucio Sestio, un giovane di valore le cui aspirazioni erano tarpate soltanto dalla mancanza di sangue patrizio.


XXXV

Un'occasione per un rivolgimento politico sembrava rappresentata dall'enorme carico di debiti, dal quale la plebe non poteva sperare di essere alleviata se non arrivando a collocare suoi rappresentanti nelle cariche di massimo prestigio. Era quindi necessario rivolgere i propri sforzi in quella direzione. Grazie ai continui sforzi e alle agitazioni, i plebei erano già arrivati così in alto che, se solo avessero continuato a impegnarsi, potevano raggiungere il vertice ed uguagliare i patrizi sul piano degli onori e del potere. 

Per il momento si decise di eleggere i tribuni della plebe, magistratura che avrebbe loro permesso di arrivare anche alle altre cariche. Vennero eletti Gaio Licinio e Lucio Sestio, i quali proposero solo leggi volte a contrastare l'influenza dei patrizi e a favorire gli interessi della plebe. Uno di questi provvedimenti aveva a che fare con il problema dei debiti e prescriveva che la somma pagata come interesse fosse scalata dal capitale di partenza e che il resto venisse saldato in tre rate annuali di uguale entità. 

Un'altra proposta riguardava la limitazione della proprietà terriera, e prevedeva che non si potessero possedere più di 500 iugeri pro capite. Una terza proponeva che non si eleggessero più tribuni militari e che uno dei due consoli fosse comunque eletto dalla plebe. Si trattava, in ciascuno dei casi, di questioni di estrema importanza e sarebbe stato difficile ottenere il passaggio di leggi del genere senza uno scontro durissimo. Siccome tutte le cose che gli esseri umani desiderano nella maniera più smodata - e cioè le proprietà terriere, il denaro e il successo politico - erano state messe simultaneamente in pericolo, i senatori erano allarmatissimi. 

E dato che nel corso di affannose riunioni pubbliche e private non si era arrivati a escogitare nessun altro rimedio al di fuori dell'esercizio del veto già sperimentato in molti altri scontri del passato, i senatori si assicurarono degli appoggi tra i tribuni, in maniera tale che opponessero il loro veto alle proposte dei colleghi. Quando questi ultimi videro che Licinio e Sestio chiamavano le tribù al voto, protetti dalle guardie del corpo dei patrizi, impedirono sia la lettura delle proposte sia lo svolgimento di qualunque altra formalità prevista per consultare il volere della plebe. 

E dopo una serie di inutili convocazioni dell'assemblea, essendo praticamente già state respinte le proposte avanzate, Sestio disse: «D'accordo. Visto che volete che il diritto di veto abbia così tanto potere, sarà proprio quella l'arma che noi useremo per difendere la plebe. Avanti, o senatori, bandite pure le elezioni per la nomina di tribuni militari: farò in modo che non sia motivo di gioia alcuna questa parola "veto" che ora vi dà così tanta soddisfazione ascoltare dal coro concorde dei nostri colleghi.» 

Queste sue minacce non furono vane: fatta eccezione per edili e tribuni della plebe, non si tenne alcuna elezione. Licinio e Sestio vennero rieletti tribuni della plebe e non permisero la nomina di alcun magistrato curule. Questa carenza di magistrati andò avanti per cinque anni, poiché la plebe continuava a rieleggere i due tribuni e questi ultimi a impedire l'elezione di tribuni militari. 


XXXVI

Fortunatamente non scoppiarono altre guerre. Ma i coloni di Velletri sempre più imbaldanziti ora che c'era la pace e non vi era alcun esercito romano, effettuarono qualche scorreria nel territorio di Roma, e si accinsero ad assediare Tuscolo. Questa circostanza colpì nel vivo non solo i patrizi ma anche la plebe, che non se la sentirono di respingere la richiesta d'aiuto presentata dai Tuscolani, loro alleati di antica data e da poco concittadini. Venuta quindi meno l'opposizione dei tribuni della plebe, un interrè presiedette le elezioni, a séguito delle quali risultarono nominati tribuni militari Lucio Furio, Aulo Manlio, Servio Sulpicio, Servio Cornelio, Publio e Gaio Valerio. 

Essi trovarono la plebe molto meno disponibile nei confronti della leva militare di quanto non fosse stata rispetto alle elezioni. Messo insieme un esercito con molte difficoltà, partiti da Roma non si limitarono ad allontanare i nemici da Tuscolo, ma li costrinsero addirittura a barricarsi all'interno delle proprie mura, e Velletri subì un assedio molto più duro di quello toccato a Tuscolo. Tuttavia la città non venne espugnata da quegli uomini che ne avevano cominciato l'assedio: furono prima eletti dei nuovi tribuni militari (e cioè Quinto Servilio, Gaio Veturio, Aulo e Marco Cornelio, Quinto Quinzio e Marco Fabio), i quali, a loro volta, non riuscirono a compiere nulla di memorabile intorno a Velletri. 

In città la situazione era più critica. Infatti, oltre a Sestio e Licinio che avevano avanzato le proposte di legge e che erano in carica per l'ottava volta, anche il tribuno militare Fabio, suocero di Stolone, sosteneva in maniera accanita quei provvedimenti di cui era stato promotore. E anche se all'inizio otto membri del collegio dei tribuni della plebe si erano opposti alle proposte di legge, ora erano rimasti soltanto in cinque. E questi ultimi, confusi e disorientati come di solito succede a chi abbandona la propria fazione, facendosi eco di voci altrui giustificavano il proprio veto solo con quanto gli era stato in privato imposto di dire: e cioè che gran parte della plebe era assente da Roma perché impegnata a Velletri con l'esercito, e che bisognava rinviare le assemblee al ritorno dei soldati, in maniera tale che tutta la plebe potesse votare in questioni che la riguardavano da vicino. 

Sesto e Licinio, insieme ad alcuni colleghi e al solo Fabio tra i tribuni militari, esperti com'erano - dopo tanti anni di pratica - nell'arte di manipolare gli animi della plebe, dopo aver chiamato in pubblico i membri più eminenti dell'aristocrazia, li assillavano con domande sulle singole proposte presentate al popolo: avevano il coraggio di pretendere, quando la terra veniva assegnata alla plebe in una proporzione di due iugeri a testa, l'autorizzazione a possederne loro stessi più di cinquecento, e che a uno solo di loro toccasse la terra di quasi trecento cittadini, mentre a un plebeo spettava un appezzamento in cui c'era spazio a malapena per la casa o per la tomba? 

Oppure volevano che i plebei, schiacciati dall'usura, abbandonassero i propri corpi alla prigione e alla tortura, invece di pagare il debito, e che ogni giorno frotte di debitori condannati alla schiavitù venissero trascinate via dal foro, riempiendo così di prigionieri in catene le case dei nobili, e trasformando in carcere privato ogni dimora patrizia? 


XXXVII

Dopo aver riprovato questi vergognosi e miserabili soprusi suscitando più indignazione in chi li ascoltava (preoccupato per la propria stessa sorte) di quanta non ne avessero provata loro parlando, affermavano che i patrizi non avrebbero mai smesso di appropriarsi della terra e di taglieggiare il popolo con l'usura, se la plebe non nominava un console plebeo, che ne tutelasse la libertà. Ormai i tribuni erano disprezzati perché con l'arma del veto indebolivano da sé medesimi il proprio potere. Non si poteva parlare di uguali diritti là dove gli altri detenevano il potere, mentre loro stessi avevano a disposizione soltanto la facoltà di opporsi. 

Fino a quando la plebe non prendeva parte al governo, non avrebbe mai goduto di alcun peso nella vita politica. E nessuno poteva ritenere sufficiente il fatto che i plebei fossero ammessi come candidati nelle elezioni consolari: nessuno di essi avrebbe mai ottenuto la nomina fino a quando non fosse stato stabilito per legge che uno dei due consoli dovesse comunque essere plebeo. O forse si erano già dimenticati che la nomina dei tribuni militari in luogo dei consoli era stata decisa proprio perché fosse accessibile anche ai plebei la più alta carica del paese, ma che per quarantaquattro anni nessun plebeo era mai stato eletto tribuno militare? 

Come potevano credere che, con due posti a disposizione, i patrizi avrebbero ora accettato volentieri di condividere quella carica con la plebe, quando, all'atto di eleggere i tribuni militari, essi avevano abitualmente preteso otto posti per volta? Come potevano credere che i patrizi avrebbero loro concesso via libera al consolato, quando avevano bloccato per così tanto tempo la strada del tribunato? Bisognava ottenere con la legge quello che non era possibile raggiungere nelle elezioni solo grazie al favore, e metter fuori discussione che una delle due cariche consolari venisse destinata alla plebe (perché, lasciandola nella competizione, avrebbe continuato a essere appannaggio del più potente). 

Né ormai si poteva più sostenere - come in passato i patrizi avevano avuto l'abitudine di fare - che tra i plebei non ci fossero uomini degni delle magistrature curuli. Forse che la gestione dello stato era stata più fiacca e trascurata dopo il tribunato di Publio Licinio Calvo (primo plebeo ad aver ottenuto quell'incarico), di quanto non fosse stata in tutti quegli anni nei quali tribuni militari erano stati soltanto dei patrizi? Invece ad avere riportato condanne dopo il tribunato erano stati parecchi patrizi, ma nemmeno un plebeo. 

Come i tribuni militari, anche i questori si era iniziato non molti anni prima a eleggerli tra i plebei, e di nessuno di essi il popolo romano si era dovuto pentire. Ai plebei mancava unicamente il consolato: ed era questa carica che rappresentava il baluardo della libertà, il suo sostegno. Se essi avessero raggiunto quell'obiettivo, solo allora il popolo romano avrebbe potuto convincersi di aver cacciato i re da Roma e trovato un sicuro fondamento per la propria libertà. Perché da quel giorno anche alla plebe sarebbero toccati tutti i vantaggi per cui ora i patrizi eccellevano: il potere e gli onori, la gloria in campo militare, il lignaggio della stirpe, beni grandi di cui beneficiare di persona, ma ancora più grandi da trasmettere ai propri figli. 

Rendendosi conto che discorsi di questo tenore venivano accolti con grande favore, essi presentarono una nuova proposta di legge, in base alla quale al posto dei duumviri responsabili dei riti sacri si sarebbero dovuti eleggere dei decemviri dei quali metà fossero plebei e metà patrizi. Il voto relativo a tutte queste proposte di legge venne però rimandato fino al ritorno dell'esercito impegnato nell'assedio di Velletri. 


XXXVIII

Passò un anno prima che le legioni venissero richiamate da Velletri. Di conseguenza la questione delle leggi rimasta in sospeso fu rimandata fino alla nomina di nuovi tribuni militari. Quanto poi ai tribuni della plebe, il popolo 153 rieleggeva sempre gli stessi uomini, e in ogni caso i due che avevano presentato i disegni di legge. Tribuni militari vennero eletti Tito Quinzio, Servio Cornelio, Servio Sulpicio, Spurio Servilio, Lucio Papirio e Lucio Veturio. Nei primi giorni dell'anno si arrivò subito a uno scontro decisivo sulla questione delle leggi. E dato che le tribù erano giù state chiamate a votare e il veto dei colleghi non ostacolava più i promotori delle leggi, i patrizi allarmati ricorsero ai due estremi rimedi: la più alta delle cariche e il cittadino al di sopra di ogni altro. 

Decisero di nominare un dittatore. La scelta cadde su Marco Furio Camillo, che scelse Lucio Emilio come maestro di cavalleria. In opposizione a questo atto di forza effettuato dagli avversari, anche gli stessi autori delle proposte sostennero la causa della plebe proteggendola con il loro grande coraggio, e dopo aver convocato un'assemblea della plebe chiamarono le tribù al voto. Quando il dittatore, scortato da un drappello di patrizi e carico di rabbia e minacce, prese posto, si incominciò la discussione con l'ormai abituale dibattito tra i tribuni che presentavano la legge e quelli che vi si opponevano esercitando il loro diritto di veto. 

E non ostante il veto valesse di più sul piano del diritto, esso stava soccombendo schiacciato dalla popolarità delle leggi e degli uomini che le avevano presentate, e le prime tribù chiamate al voto stavano dicendo: «come proponi». Allora Camillo disse: «O Quiriti, visto che adesso siete influenzati non dal potere dei tribuni ma dal loro sfrenato arbitrio e che vanificate il diritto di veto (conquistato in passato a séguito della secessione della plebe) con quella stessa violenza con la quale lo avete ottenuto, io, in qualità di dittatore, non tanto per l'interesse dello Stato quanto per il vostro bene, interverrò a favore del veto e tutelerò con la mia autorità questo sostegno che viene demolito. 

Perciò, se Gaio Licinio e Lucio Sestio si piegheranno al veto dei loro colleghi, non vi sarà la ben che minima intromissione di un magistrato patrizio all'interno di un'assemblea del popolo. Ma se invece tenteranno, calpestando il diritto di veto, di imporre le loro proposte come a un paese conquistato, io non permetterò che il potere tribunizio si distrugga con le sue stesse mani.» 

Poiché i tribuni, a dispetto di questi avvertimenti, continuavano imperterriti a procedere nell'azione intrapresa, allora Camillo, colmo d'ira, mandò i suoi littori a disperdere la plebe, minacciando di far prestare giuramento a tutti i giovani in età militare e di condurre súbito l'esercito fuori di Roma, nel caso di ulteriori resistenze. I plebei si spaventarono moltissimo: ma nei loro capi il discorso di Camillo accrebbe lo spirito combattivo invece di spegnerlo. 

Tuttavia, prima ancora che la contesa avesse designato un vincitore tra le due parti in causa, Camillo rinunciò al proprio incarico, sia perché - come hanno scritto alcuni autori - la sua elezione non era stata regolare, sia perché i tribuni della plebe proposero e la plebe si disse d'accordo che, qualora Marco Furio avesse preso qualche iniziativa in qualità di dittatore, gli sarebbe stata inflitta un'ammenda di 500.000 assi. Che delle sue dimissioni siano responsabili gli auspici più che un provvedimento privo di precedenti, me lo fa credere sia la natura stessa dell'uomo, sia il fatto che Publio Manlio venne immediatamente nominato dittatore al suo posto (che vantaggi avrebbe infatti portato questa nomina in una lotta nella quale era uscito sconfitto Marco Furio?). 

Ma anche perché l'anno successivo era di nuovo dittatore lo stesso Marco Furio, per il quale sarebbe certamente stata una vergogna il riassumere una carica che si era infranta l'anno precedente nella sua persona. Senza contare che, nel periodo in cui, a quanto si dice, venne avanzata la proposta di infliggergli un'ammenda, Camillo avrebbe potuto opporsi a una rogazione che palesemente lo privava di ogni suo potere, oppure non sarebbe stato nemmeno in grado di impedire l'approvazione delle leggi in difesa delle quali era stato escogitato il provvedimento di ammenda. E poi, a nostra memoria, gli scontri sono sempre avvenuti tra potere tribunizio e autorità consolare, ma la dittatura ne è rimasta al di sopra.

 

IXL

Nell'intervallo tra la rinuncia alla prima dittatura e l'inizio di quella di Manlio, i tribuni - come se si fosse trattato di un interregno - convocarono un'assemblea del popolo che mise in luce immediatamente quali delle misure proposte risultavano più gradite alla plebe e quali ai promotori. Infatti le tribù avevano intenzione di approvare i disegni di legge relativi ai debiti e alla terra, e di respingere quello concernente l'elezione di un console plebeo. Ed entrambe le questioni si sarebbero risolte così, se i tribuni non avessero dichiarato di voler consultare la plebe sull'intero pacchetto di proposte. 

Quando poi Publio Manlio divenne dittatore, impose alla questione una piega favorevole alla plebe perché nominò maestro di cavalleria Gaio Licinio che era stato tribuno militare ed era di origine plebea. Questa nomina - a quanto ho trovato - disturbò i patrizi, ma il dittatore si scusava abitualmente presso di loro adducendo come pretesto la propria parentela con Licinio, e insieme affermando che il potere del maestro di cavalleria non era superiore a quello di un tribuno consolare. Licinio e Sestio, quando vennero bandite le elezioni per la nomina dei tribuni della plebe, pur dichiarando di non voler essere rieletti, si comportarono in modo da accendere fieramente la plebe a offrir loro ciò che essi fingevano di non volere. 

Dicevano che ormai da nove anni continuavano a essere come in prima linea contro i patrizi, con grossi rischi personali e scarsi vantaggi per la comunità. E insieme a loro erano ormai invecchiate sia le proposte presentate che l'intera forza d'urto del tribunato stesso. In un primo tempo ci si era serviti del veto dei colleghi contro quelle leggi, poi della relegazione dei giovani al fronte di Velletri: infine, erano stati essi stessi minacciati dai fulmini del dittatore. Ma adesso non costituivano più un ostacolo né i colleghi, né la guerra né il dittatore, perché quest'ultimo, nominando maestro di cavalleria un plebeo, aveva fornito un presagio augurale per l'elezione di un console plebeo. No, era la plebe che adesso ostacolava se stessa e i suoi interessi. 

Se solo il popolo avesse voluto, avrebbe potuto avere immediatamente la città e il foro liberi dai creditori e le terre libere da abusi di proprietà. Ma quando mai i plebei avrebbero apprezzato tutti questi servizi con sufficiente gratitudine, se nel momento in cui approvavano le proposte volte a tutelare i loro interessi toglievano ogni speranza di riconoscimenti politici agli uomini che ne erano stati i promotori? Non era in linea con il senso di equità del popolo romano chiedere di essere alleviato dai debiti e reinsediato nelle terre ingiustamente possedute dai nobili, lasciando che i tribuni, grazie ai quali essi avevano ottenuto quegli obiettivi, invecchiassero non soltanto senza onori ma anche senza la speranza di riceverli. 

Perciò cominciassero con lo stabilire con fermezza quali fossero i loro desideri e quindi li rendessero noti in occasione dell'elezione dei tribuni. Se volevano che i disegni di legge presentati dai tribuni venissero votati nella loro integralità, allora c'erano delle buone ragioni per rieleggerli tribuni della plebe (permettendo così loro di far approvare le proposte che avevano avanzato); se invece volevano veder accettati soltanto quei provvedimenti che favorivano gli interessi privati dei singoli, allora non c'era nessun motivo valido per prolungare un incarico così inviso. In tal caso, essi avrebbero fatto a meno del tribunato e il popolo delle riforme proposte. 


XL

Sentendo i tribuni pronunciare questo discorso tanto risoluto, mentre il resto dei patrizi, indignati per quanto stava succedendo, era piombato da quel momento in un silenzio pieno di stupore, si racconta che Appio Claudio Crasso, nipote del decemviro, mosso più dallo sdegno e dalla rabbia che non dalla speranza, si fece avanti per dissuaderli e si rivolse loro più o meno in questi termini: 

«Non sarebbe né strano né sorprendente, o Quiriti, se anch'io ora dovessi udire quello che la demagogia dei tribuni ha sempre rimproverato alla mia famiglia, e cioè che la stirpe Claudia, sin dalle sue origini, nell'ordinamento dello Stato nulla ha ritenuto più importante dell'autorità dei patrizi, e si è sempre schierata contro gli interessi della plebe. Per quanto riguarda la prima delle accuse, io non nego né rifiuto di riconoscere che noi, fino dal momento in cui fummo accolti come cittadini e patrizi, per quello che era in nostro potere, abbiamo moltiplicato gli sforzi perché si potesse veramente affermare che l'autorità di quelle famiglie nel cui novero avete voluto inserirci venisse accresciuta piuttosto che diminuita attraverso il nostro operato. 

Quanto poi alla seconda accusa, parlando per me e per i miei antenati, a meno che uno sostenga che tutto il bene fatto per l'intero paese sia in netto contrasto con gli interessi della plebe (come se i suoi membri fossero gli abitanti di un'altra città), oserei affermare che noi non abbiamo mai fatto nulla, né da privati cittadini né da magistrati, che volontariamente danneggiasse la plebe, e che non si può citare nessuna nostra azione o nostra parola contraria al vostro vantaggio, anche se alcuni di essi andavano contro ai vostri desideri. Ma se io non fossi un membro della famiglia Claudia e non avessi sangue patrizio nelle vene, ma fossi uno qualsiasi dei Quiriti, che sappia soltanto di essere nato da due genitori liberi e di vivere in un paese libero, potrei passare sotto silenzio che questi vostri Lucio Sestio e Gaio Licinio, tribuni della plebe a vita (se così vogliono gli dèi), nei nove anni del loro regno si sono arrogati una licenza tale da affermare che non vi consentiranno di esercitare il vostro diritto di voto né in sede elettorale né nell'approvazione delle leggi? 

"Ci rieleggerete - dice uno di loro - tribuni per la decima volta, ma a un patto." Il che significa: "L'onore che gli altri cercano di raggiungere noi lo disdegniamo a tal punto che non lo accetteremo se non dietro una grossa ricompensa." Ma alla fin fine qual è il prezzo per continuare ad avervi come tribuni della plebe? "Che accettiate in blocco tutte le nostre proposte di legge, che vi piacciano o no, utili o dannose che siano." Vi scongiuro, voi tribuni della plebe, novelli Tarquini, fate conto che io sia un cittadino qualunque che gridi dal centro dell'assemblea "Permetteteci, con buona pace, di scegliere, all'interno delle proposte presentate, soltanto quelle che riteniamo vantaggiose per noi, e di respingere le altre." "Tu - risponderebbe uno di loro - vorresti approvare le misure che si riferiscono alla questione dei debiti e della terra e che riguardano voi tutti, e non vorresti invece che a Roma si verifichi la mostruosità di vedere consoli Lucio Sestio e il qui presente Gaio Licinio (cosa questa da te ritenuta indegna e abominevole). O accetti tutto, oppure io non presento nessuna proposta." 

Come se a un affamato qualcuno mettesse del veleno nel cibo e poi gli ordinasse di rinunciare a ciò che gli ridarebbe vita oppure di mescolare la parte letale a quella in grado di rimetterlo in forze. Perciò, se questa fosse una città libera, non ti avrebbero già gridato in tantissimi nel pieno dell'assemblea: "Vattene di qua coi tuoi tribunati e le tue proposte di legge?". Cosa? Se tu non proporrai ciò che il popolo ha interesse di accettare, non ci sarà nessun altro in grado di farlo? Se un qualche patrizio, se un qualche Claudio (cosa che a Sestio e Licinio risulterebbe essere ancora più sgradita) dovesse dire "O accettate tutto, oppure non proporrò nulla", chi di voi, o Quiriti, lo tollererebbe? 

Non vi deciderete mai a guardare alla sostanza piuttosto che alle persone, e accoglierete sempre con favore ciò che dice quel magistrato, e con prevenzione ciò che dice uno di noi? Ma, per Ercole, ecco un discorso indegno di un buon cittadino! E che tipo di proposta è quella per la quale si sdegnerebbero se voi la respingeste? Assomiglia moltissimo al discorso in questione, o Quiriti. "Propongo - dice uno di loro - che non vi sia lecito eleggere i consoli che preferite." 

E non chiede la stessa cosa chi pretende che uno dei due consoli sia comunque plebeo e non vi lascia la possibilità di scegliere due patrizi? Se oggi dovesse scoppiare una guerra del genere di quella combattuta contro gli Etruschi quando Porsenna si impadronì del Gianicolo, o di quella recente contro i Galli, durante la quale, salvo il Campidoglio e la rocca, tutto era in mano al nemico, e un Lucio Sestio si candidasse al consolato insieme al qui presente Marco Furio o a qualche altro patrizio, potreste tollerare che Lucio Sestio fosse, senza discussione, console, e che Marco Furio corresse il rischio di una sconfitta? È questo che voi chiamate avere gli onori in comune? Che cioè venga autorizzata l'elezione di due plebei, e vietata la scelta di due patrizi? 

Che uno dei due consoli debba per forza essere plebeo, e che sia possibile escludere da entrambi i posti il candidato patrizio? Che razza di comunanza, che razza di associazione è mai questa? È poco aver parte di un diritto dal quale eravate esclusi in precedenza, e chiedendo una parte volete avere tutto? "Ho paura - replicherebbe uno di loro - che, se sarà permesso eleggere due patrizi, voi non eleggerete nessun plebeo." Il che equivale a dire: "Dato che non eleggerete mai di vostra spontanea volontà individui che non siano all'altezza, io vi imporrò di eleggere i candidati che non sono di vostro gradimento." Cosa ne conseguirebbe, salvo il fatto che non avrà obblighi di riconoscenza nei confronti del popolo un plebeo che si candidi da solo insieme a due patrizi, e potrà dichiarare di essere stato eletto non a séguito del voto ma in base alla legge? 


XIL 

Cercano il modo non di ottenere, ma di estorcere le cariche. Così si sforzano di raggiungere le più alte in maniera tale da non avere il benché minimo dovere di riconoscenza per le minori. Preferiscono cioè inseguire le cariche basandosi sulle circostanze piuttosto che sui valori effettivi. C'è qualcuno che prova fastidio a essere tenuto sotto controllo e a subire una qualche valutazione, che ritiene giusto il fatto di essere il solo ad avere la sicurezza dell'elezione fra i vari in lizza per le cariche, che si sottrae al vostro giudizio, o ancora che rende il vostro voto da facoltativo a obbligatorio, trasformandolo da libero in servile. Non parlo di Licinio e di Sestio, i cui anni di continuo potere voi già contate come quelli dei re sul Campidoglio. 

Chi c'è oggi di così bassa condizione tra i cittadini al quale questa legge non conceda di accedere al consolato in maniera più agevole di quanto non offra a noi e ai nostri figli, se davvero non potrete eleggerci anche quando lo vorrete, mentre queste persone sarete costretti ad eleggerle anche se non lo desidererete? Dell'indegna bassezza di questa cosa si è detto abbastanza. Ma agli uomini si addice la dignità: che cosa dovrei dire dei riti religiosi e degli auspici, disprezzando i quali si offendono e si oltraggiano gli dèi immortali? Chi mai ignora che questa città è stata fondata in base a degli auspici e che in base a degli auspici si è sempre presa ogni decisione, in guerra e in pace, in patria e sul suolo di battaglia? Ebbene? A chi spettano gli auspici in base alla tradizione dei nostri padri? Ai patrizi, evidentemente. 

Infatti nessun magistrato plebeo viene eletto dopo aver preso gli auspici. E gli auspici ci appartengono in maniera così esclusiva che non solo i magistrati patrizi eletti dal popolo possono essere eletti solo dopo aver preso gli auspici, ma siamo sempre noi che, pur senza il voto del popolo, nominiamo l'interré in base agli auspici e anche in qualità di privati cittadini abbiamo il diritto di trarre gli auspici, dal quale costoro sono invece esclusi addirittura nella loro veste di magistrati. Di conseguenza, chi pretende di eleggere dei consoli plebei privando così degli auspici i patrizi che sono gli unici ad avere il diritto di trarli, che altro fa se non privarne l'intero paese? Se lo vogliono, adesso possono farsi beffe degli scrupoli religiosi e dire: "Che cosa importa se i polli non mangiano, se escono più lentamente dal pollaio o se un uccello emette un verso di malaugurio?". 

Ma queste sono cose da poco: eppure, è proprio perché i vostri antenati non hanno disprezzato cose da poco come queste se sono riusciti a fare grande questo paese. E ora noi, come se non avessimo più bisogno del favore degli dèi, stiamo profanando tutte le cerimonie. Allora lasciamo pure che pontefici, àuguri e re dei sacrifici vengano eletti a casaccio. Mettiamo pure sulla testa del primo venuto il copricapo del flamine Diale, purché si tratti di un uomo, affidiamo pure gli scudi sacri, i santuari, gli dèi e il loro culto a coloro cui non è lecito affidare tutto ciò. Lasciamo che le leggi vengano approvate e i magistrati eletti senza prima trarre gli auspici, e che tanto i comizi centuriati quanto quelli curiati non abbiano l'approvazione dei senatori. 

Lasciamo che Sestio e Licinio regnino a Roma come Romolo e Tazio, visto che vogliono regalare il denaro e le proprietà altrui. È dunque così forte la voglia di razziare i patrimoni degli altri? Non viene loro in mente che una delle leggi presentate, cacciando i padroni dalle terre di loro proprietà, creerà vasti deserti nelle campagne, e che l'altra eliminerà la fiducia nella parola data e insieme ad essa ogni possibile rapporto tra gli esseri umani? Per tutti questi motivi ritengo sia vostro dovere respingere queste proposte. E possano gli dèi rendere propizio ciò che farete.» 


XIIL

Il discorso di Appio riuscì soltanto a ritardare il passaggio delle proposte di legge. Eletti per la decima volta tribuni, Sestio e Licinio fecero approvare la legge sulla nomina dei decemviri preposti ai riti sacri da scegliersi in parte tra i plebei. Avendo nominato cinque patrizi e cinque plebei, il popolo ebbe l'impressione che con questo passo la via al consolato fosse ormai aperta. Soddisfatti per questo successo, i plebei, abbandonando per il momento la discussione relativa al problema del consolato, concessero ai patrizi di eleggere dei tribuni militari nelle persone di Aulo e Marco Cornelio (per la seconda volta), di Marco Geganio, di Publio Manlio, di Lucio Veturio e di Publio Valerio (per la sesta volta). 

Salvo l'assedio di Velletri - il cui esito favorevole, anche se assai ritardato nel tempo, non poteva essere messo in dubbio - all'estero la situazione era tranquilla, l'improvvisa notizia di una guerra da parte dei Galli portò il paese a eleggere per la quinta volta dittatore Marco Furio. Questi scelse come maestro di cavalleria Tito Quinzio Peno. Claudio riporta che nel corso di quell'anno si combatté coi Galli nei pressi del fiume Aniene, e che ci fu il famoso duello sul ponte, durante il quale Tito Manlio - sotto gli occhi dei due eserciti - uccise un Gallo che lo aveva sfidato a duello e ne spogliò il cadavere della collana. Ma io sono più propenso a credere, con la maggior parte delle fonti, che questo episodio ebbe luogo non meno di dieci anni più tardi, e che nell'anno del quale mi sto occupando il dittatore Marco Furio affrontò i Galli nel territorio albano. 

E nonostante l'enorme spavento ingenerato dai Galli e dal ricordo della vecchia disfatta, i Romani conquistarono una vittoria che non fu né difficile né mai in bilico. Molte migliaia di barbari vennero uccise nel corso della battaglia e molte altre dopo la presa dell'accampamento. I sopravvissuti, dispersi, ripararono soprattutto in Puglia, riuscendo a evitare i Romani sia per la grande distanza della fuga, sia per il fatto di essersi sparpagliati in preda al panico. Al dittatore venne concesso il trionfo per volontà unanime del senato e della plebe. Camillo aveva appena portato a termine quella guerra che in patria esplosero lotte più violente. Dopo aspri conflitti, senato e dittatore ebbero la peggio, così che le misure proposte dai tribuni furono approvate. 

Non ostante l'opposizione dei patrizi, si tennero elezioni consolari nelle quali Lucio Sestio fu il primo plebeo a essere eletto console. Ma neppure questa vittoria pose fine ai contrasti. I patrizi dichiararono che non avrebbero ratificato l'elezione e gli scontri intestini arrivarono molto vicino alla nuova secessione della plebe e a nuove terribili minacce, quando alla fine il dittatore riuscì a sedare i disordini con una soluzione di compromesso: i patrizi diedero via libera alla plebe sulla questione del console plebeo, mentre i plebei concessero ai patrizi di nominare pretore un loro membro col cómpito di amministrare la giustizia in città. 

Tornata così finalmente la concordia tra le classi dopo tutti quegli anni di ira, il senato ritenne che quell'evento fosse un'occasione appropriata per onorare gli dèi - cui spettava di pieno diritto in quel frangente, se mai altre volte lo era stato - con la celebrazione dei Ludi Massimi e l'aggiunta di un giorno ai tre previsti dalla tradizione. Dato che gli edili della plebe rifiutarono quel cómpito, i giovani patrizi dichiararono che se ne sarebbero occupati loro di buon grado per onorare gli dèi immortali. Siccome tutta la popolazione dimostrò gratitudine nei loro confronti, il senato emise un decreto in base al quale il dittatore avrebbe dovuto chiedere al popolo l'elezione di due edili patrizi e i senatori ratificare tutte le elezioni di quell'anno.



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