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IL LEGNO ROMANO


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STATUINA DI LEGNO - ERCOLANO

Nella preistoria il legno fu usato per costruire rifugi, fortificazioni, palafitte, barche, utensili domestici d'ogni tipo, armi e fusti di armi. I romani continuarono l'uso impiegando il legno nella costruzione delle case, ma fu vastissimo ovunque l'impiego del legno in tutte le costruzioni civili e militari del mondo antico.

Degli edifici romani abbiamo le prime notizie verso la metà dell'VIII sec. a.c., quando gli aristocratici romani trasformano le loro capanne (casae) in domus. Queste possedevano più ambienti, tra cui una grande sala, che affacciavano tutti su una corte. I suoi muri erano in argilla bagnata e pressata su rami di legno stagionati, mentre il tetto era di rami di legno più grossi ricoperti di paglia.

Durante l'impero si costruirono insule e domus che si avvalsero ancora del legno non solo per i travi,  ma di graticci in legno con cui creavano separazioni tra i balconi di appartamenti diversi. Nelle domus era buon uso dipingere i travi dei soffitti a volte decorati, e di legno è ovviamente la porta d'ingresso costituita da un alto portone in legno a due battenti con grosse borchie in bronzo. 

Questi portoni, detti ianua, potevano essere massicci o di assi di legno incollate, e col tempo ornati con decori in bronzo o in ottone, avorio e tartaruga. Frequenti gli anelli, le corone di alloro, o i tralci di alloro, le teste di leone o le teste di lupo, cioè di lupa, per allusione alla balia di Romolo e Remo.

ZAMPA IN LEGNO DI UN MOBILE ROMANO


LA FALEGNAMERIA

Il lavoro di falegnameria, per costruire i mobili dell'arredamento della casa, metteva in opera varie qualità di legno sia locali che esotiche. I Romani importarono in gran quantità legni pregiati per i mobili di lusso delle loro case. I mobili venivano impiegati massici oppure impiallacciati, cioè lamine di legni pregiati, come l'ebano, la tuia, venivano incollate su legni più economici; si facevano in questo modo letti, tavoli e stipi. 

Il vantaggio era di far apparire il legno più pregiato, ma soprattutto che le diverse composizioni dei due legni incollati tra loro donassero alle tavole di legno una maggiore resistenza e soprattutto meno capacità di deformarsi, comportandosi cioè come legno stagionato. Il legno stagionato ha avuto sempre alti costi perchè occorreva dedicargli un ampio magazzino dove il legno doveva giacere almeno per due anni onde perdere una certa quantità di acqua che avrebbe altrimenti deformato il legno incurvandolo in vari modi.

Molti mobili pregiati venivano fatti con la tuia che è un arbusto originario dell’Alaska e della regione dei Grandi Laghi americani, ma una specie arrivava a Roma dall’oriente, dal Giappone e dalla Cina, probabilmente attraverso l'India, ed esclusivamente in tuia si fecero a Roma tavoli massicci a prezzi esorbitanti. Si usava la tecnica ad intarsio, con tartaruga e avorio; i mobili di lusso erano finemente lavorati al tornio.

DECORAZIONI IN LEGNO

Per costruire mobili preziosi si usavano intarsi o applicazioni di immagini intagliate nel legno, vere e proprie sculture, ma a volte si eseguiva una vera e propria statuaria. Già i Greci, prima dei Romani, conoscevano l'arte della scultura su legno. I Romani avevano appreso dai greci tutti gli strumenti per scolpire e lavorare il legno nel modo più raffinato.

Il mitico artefice del cavallo di Troia sarebbe stato Epeios (Paus., ii, 19, 6; v. epeios), artefice anche di uno xòanon di Hermes ad Argo. Scrive Plinio che: "L'arte di lavorare il legno la trovò Dedalo e, in essa, la sega, l'ascia, il filo a piombo, la trivella (terebram), il glutine, la colla di pesce; Theodoros di Saino la squadra (normam), la livella (libellam), il tornio e la chiave (clavem)...". (Naturalia historia, Fragmentas)

Poi i romani alla falegnameria aggiunsero la fabbricazione di numerosi utensili domestici, oltre a oggetti da toletta, giochi per bambini, tavolette per scrivere e per dipingere, impugnature per attrezzi ed armi, bastoni, lance e giavellotti, strumenti per campagna, casse, cofani, vasi per trasporto di vini. 

Ma erano ancora in legno le ciotole e i piatti fondi a ciotola per le zuppe, e i crateri per cui venivano però usati legni speciali spalmati con cera d'api internamente, e fruttiere, e cucchiai, e centri tavola, ma pure strumenti musicali, spesso di legno guarniti in ottone che imitava il colore e la lucentezza dell'oro.

LEGNO SCOLPITO

Per rendere più belli i diversi legni si usavano varî mezzi di lucidatura e verniciatura. Il lavoro a tornio usato più o meno, a seconda del pregio dell'oggetto, era noto fin dai tempi omerici. Poche notizie restano sulla precisa esecuzione di questo lavoro, ma dalle pitture si evince quanto fosse progredita la tecnica romana anche in questo campo.

A seconda dell'uso a cui i varî legni erano destinati, i tronchi venivano tagliati e preparati in diversi modi, venivano impiegati ancor umidi, oppure dopo esser stati asciugati o tenuti al fuoco per essere piegati. Quindi venivano piallati, stondati se occorreva e ripassati con oli vari se l'oggetto era pregiato, prima di dargli l'opportuna lucidatura.

Qualche mese fa, in Inghilterra, è stato scoperto un fossato romano. Mentre alcuni operai erano al lavoro per costruire la linea ferroviaria HS2, qualcuno ha avvistato una cavità difensiva, ricca di reperti. Fra questi, anche una statuetta di sessantasette centimetri, tutta in legno.

All’inizio si credeva fosse un pezzo di legno marcio. Ma giunti gli specialisti di Infra Archaeology si capì che doveva trattarsi di qualcosa di più importante. Una testimonianza unica della prima colonizzazione romana del Sud Est della Britannia.

LEGNO SCOLPITO
Ci troviamo in un tratto di territorio su cui sorgerà  la linea ferroviaria ad alta velocità britannica che collegherà Londra, Birmingham, East Midlands, Leeds, Sheffield e Manchester. 

Per la precisione, il ritrovamento è avvenuto a Twyford, nel Buckinghamshire, ossia nel Sud Est del Regno, laddove i conservatori dell’arte avevano l’anno scorso rintracciato un antico fossato scavato dai Romani.

Quel fossato era allagato, ma la figura scultorea appariva comunque ben conservata, specie nella sezione del busto e nel capo. La zona di scavo è chiamata Three Bridge Mill. 

Nei mesi scorsi, il fossato aveva già offerto vasi, ceramiche in frammenti, teste di statue, monete. Ma tutta l’attenzione è oggi tributata a una figura antropomorfa, ricavata da un unico pezzo di legno, molto antica. 

Un’opera alta 67 centimetri e larga 18. La statua lignea risalente alla prima colonizzazione romana in Britannia. L’opera dovrebbe risalire all’epoca dei primi insediamenti dei coloni romani, cioè agli anni di Bruto. 

Lo deduciamo dall’intaglio molto sottile e dalla tunica. 
Nello stesso fossato, in cui sono stati scoperti anche altri frammenti di ceramica risalenti al 70 d.C., non si erano mai trovati reperti simili.

Sebbene gli archeologi non possano essere certi della funzione reale della figura scolpita, sospettano si tratti di una statua rituale, cioè di un manufatto in legno che veniva offerto in sacrificio agli dèi. 

Quindi potrebbe essere stata gettata deliberatamente nel fossato, in senso propiziatorio. Data la sua età e la sua sostanza lignea, sorprende il fatto che l’opera si sia conservata così bene in ambiente umido. 

Forse la mancanza di ossigeno dovuta alle pareti argillose del fossato ha contribuito a prevenire la decomposizione del legno, preservandolo per secoli.

ACERRA COFANETTO DI LEGNO
La scoperta è stata del tutto inaspettata. Per recuperarla, il team di archeologi ha rischiato manovre complicate. L’opera è raffinata: rivela intagli molto sottili, per riprodurre i capelli e le pieghe della tunica. 

Gli storici pensano che sia una testimonianza artistica rara. Un unicum per quanto riguarda il periodo della cultura romana in Gran Bretagna. La testa appare leggermente ruotata a sinistra, la tunica sul davanti è raccolta in vita fino al ginocchio. gambe, forma dei muscoli del polpaccio e braccia sono elementi ben definiti.

La figura è stata spostata e archiviata dal team di conservazione di York Archeology in un laboratorio specializzato dove verrà sottoposta a esami e a trattamenti di conservazione. I ricercatori vogliono capire l’età esatta del reperto. Se fosse confermata la sua origine repubblicana, la statuetta diventerebbe una delle opere romane più antiche mai scoperte nel Regno Unito!

Un piccolo frammento della statua, trovato spezzato nel fossato, è stato già usato per la datazione al radiocarbonio. In questo modo il reperto potrà fornire una data precisa per il legno. Sarà intrapresa anche un’analisi isotopica stabile, che potrebbe indicare l’origine del legno. I restauratori non potranno far nulla per le braccia e le gambe della figura, irrimediabilmente deteriorate.


GLI ARREDAMENTI DELLA DOMUS

LARARIO IN LEGNO

Ovviamente gli arredamenti della domus erano soprattutto in legno, sia come mobili che suppellettili, 
Per la decorazione dei mobili il legno veniva intagliato tipo bassorilievo o semplicemente inciso. 

A lavoro terminato il legno andava pulito con olio mescolato al limone, o con olio e aceto, poi, per mantenerlo al meglio, poteva essere ripassato oltre che con l'olio di oliva, con la cera d'api, per venire poi verniciato, in tutto o in parte, con colori brillanti, a volte cangianti e spesso sfumati, soprattutto nei letti.

Si è dato anche il caso di Larari in legno, che venivano incassati e appesi sotto il portico del giardino dove il legno era al sicuro dalle intemperie, ne è stato rinvenuto uno ad Ercolano foggiato a mo' di tempietto.

Si chiamava "acerra" il cofanetto, di forma quadrangolare o cilindrica, dove si conservava l’incenso da usare nei sacrifici; detto anche arca turaria, a volte intagliato nel legno, posto nel Larario per onorare quotidianamente i Lari e i Penati. 

Veniva posto nel larario un cofanetto di legno dove si custodivano gli incensi da bruciare ma pure le pinzette per lo stoppino della lampada o le candele per il breve e quotidiano rituale officiato dal "pater familias" con l'ausilio dello schiavo.

STATUA LIGNEA ROMANA DI BACCO

LA  STATUATUARIA  LIGNEA

In Sicilia, a Palma di Montechiaro, in una stipe votiva arcaica, tra vario materiale furono trovate tre statuette femminili di l., col pòlos in testa. Sono state identificate come xòana di divinità locali, forse Demetra e Kore, in connessione alla fonte sulfurea trovata vicino alla stipe.

Le eccezionali condizioni ambientali, un terreno fangoso costituito da argilla di materia organica decomposta entro cui si era disciolta la anidride solforosa hanno permesso la conservazione di questi manufatti. Uno (alto 16,7 cm) è in legno di pioppo e gli altri due (rispettivamente 18,8 cm e 17,2 cm) in cipresso. 

Le tre statuette, di aspetto dedalico, sono state datate alla fine del VII sec., ma forse discendono nel VI. La Gorgone dedicata dagli Agrigentini nel tempio di Atena a Lindo era in legno di cipresso con la faccia in pietra.

Lo stile dedalico (dallo scultore Dedalo) si sviluppa nel corso del VII secolo a.c. in seguito ai nuovi contatti della Grecia con il Vicino Oriente e l'Egitto (età orientalizzante). Consta di sculture prima lignee, poi lignee e in pietra, poi solo in pietra di grandezza naturale e più grandi del naturale.
Gli elementi stilistici derivano dagli avori scolpiti siriaci e fenici del IX e dell'VIII secolo a.c., la cui presenza è diffusa, e testimoniata dai ritrovamenti, in tutta la Grecia e soprattutto a Creta. 

La figura umana dedalica è frontale, i corpi hanno vita stretta e busti triangolari, la parte superiore della testa è piatta, la fronte è bassa con la linea dei capelli dritta, il viso è un triangolo con grandi occhi, incorniciato dai capelli che cadono in massa sulle spalle con divisioni orizzontali o in sottili trecce, secondo uno schema per lo più egizio.


Lo Xoana

Lo xoanon, o xoana, era un'arcaica immagine culturale in legno della Grecia antica. Molte di tali immagini, spesso attribuite a Dedalo, furono conservate in tempi storici, sebbene nessuna sia sopravvissuta fino ad oggi, eccetto quelle copiate nella pietra o nel marmo.

Queste figure furono spesso vestite con vero materiale tessile, come il peplo il quale era tessuto e cerimonialmente consegnato ad Atena, sull'Acropoli di Atene. 
Ad Atene, nell'Eretteo, si conservava un antico legno d'olivo, effigie di Atena (il Palladion), che gli ateniesi credevano fosse caduto dal cielo, come un dono ad Atene; c'era ancora nel II secolo ed era era un simulacro ligneo che, secondo le credenze dell'antichità, aveva il potere di difendere un'intera città.

Il più famoso era custodito nella città di Troia, a cui garantiva l'immunità: la città fu distrutta infatti solo dopo che Ulisse e Diomede riuscirono a rubarlo. Un'altra versione del mito dice che il Palladio era custodito a Roma, dove giunse portato da Enea. Era una statua di legno (più precisamente uno xoanon), alta tre cubiti, che ritraeva Pallade Atena, con una lancia nella mano destra e una rocca e un fuso nella sinistra e con il petto coperto dall'egida.

STATUA DI ERCOLANO


LE STATUE LIGNEE ROMANE

Il legno ebbe un ruolo di primo piano nella scultura antica, tuttavia di grande deperibilità, per cui con scarsissima documentazione, ma con varia testimonianza delle fonti, e in parte riscontrabili dalle tracce in negativo lasciate su materiali più duraturi che insieme al legno venivano assemblati. 

Gli ex voto gallo-romani sono prodotti semplici ed essenziali, che nascono a scopo cultuale più che da esigenze artistiche; alcuni esemplari dimostrano abilità tecnico-espressive, altri appaiono appena sbozzati e grossolani. Erano più economici degli ex-voto in pietra ma più resistenti di quelli in argilla, del resto non si pretendeva una lunga durata; i legni impiegati erano quercia, faggio, abete, frassino, betulla e castagno.

Un caso a parte, di grande interesse, è costituito da alcuni busti lignei di antenati rinvenuti nelle città vesuviane. Due torsi provengono dalla casa del Graticcio di Ercolano e raggiungono dimensioni vicine al vero; quello femminile, meglio conservato, presenta tratti ritrattistici e capelli resi con solchi paralleli, raccolti in una crocchia sulla nuca. 

Acanto a questi altri busti-ritratto lignei attestati a Pompei dall'impronta cava lasciata nella lava al momento dell'eruzione: emersi nella Casa del Menandro, essi occupavano una nicchia che si apriva sulla parete di fondo del peristilio e che costituiva con tutta probabilità un larario, data la contestuale presenza di una statuetta bronzea di lar domesticus. 

Sia il tipo di materiale impiegato, sia il contesto di rinvenimento distinguono queste sculture dalle tradizionali imagines maiorum, che erano in cera, si collocavano nell'atrio e avevano una funzione essenzialmente celebrativa; è piuttosto possibile ipotizzare un vero e proprio culto familiare, riconoscendo nei ritratti i capostipiti dei proprietari delle rispettive domus o alcuni antenati di particolare rilievo.

ATHENA CRISOELEFANTINA


SCULTURE AD ANIMA LIGNEA

Frequentemente il legno costituiva soltanto la struttura portante, lo scheletro interno di statue che si completavano con rivestimenti in stoffa o metallo e realizzandone in altri materiali gli ”akra”, le estremità in vista: testa, braccia e piedi. In questi casi è attestata la definizione di "statue con nucleo ligneo" in quanto il legno veniva dissimulato all'interno del prodotto finito, rivestendosi di funzioni prevalentemente strutturali.

A seconda che le parti in vista fossero realizzate in avorio o marmo/pietra, si parla generalmente di statue acroelefantine (o criselefantine) e acrolitiche; in alcuni casi, seppur meno documentati, un'anima lignea poteva essere abbinata ad estremità in terracotta. 

La scelta di uno o dell'altro materiale dipendeva essenzialmente dalle possibilità economiche del committente: statue di questo tipo vanno infatti dai moduli inferiori al vero di alcuni ex-voto, agli oltre 10 m dei grandi simulacri di culto fidiaci, l'Atena Parthenos e lo Zeus di Olimpia; è comunque fra i simulacri colossali che ne è documentato il massimo impiego. 

Queste particolari statue erano solitamente realizzate con le estremità (testa, mani e piedi) in marmo o pietra e in qualche caso in avorio, mentre il resto del corpo era di legno o di un altro materiale comunque “povero”, poi dipinto o rivestito in oro e quasi sempre ricoperto di abiti, per celare la struttura portante della statua. 

ACROLITICO LUDOVISI

Per gli antichi infatti, il Dio in persona abitava all’interno di questi idoli sacri, a cui venivano riservati trattamenti da veri e propri “esseri viventi” che come tali, venivano lavati, vestiti, “nutriti” con le offerte e adorati. Gli acroliti venivano utilizzati dagli antichi soprattutto per realizzare le statue di divinità destinate ad essere esposte nei templi e, in alcuni casi, potevano anche ritrarre alcuni imperatori divinizzati.

Se per gli esemplari inferiori al vero un singolo tronco era sufficiente allo scopo, più ardite costruzioni erano realizzate man mano che le sculture assumevano dimensioni ragguardevoli. In alcuni casi sul nucleo ligneo era integralmente intagliato l'abito della figura, e la differenza di materiale veniva dissimulata dipingendo le vesti o dorandole.

Spesso, tuttavia il corpo risultava solo genericamente sbozzato, o costituito da una intelaiatura più o meno ampia e complessa, a seconda dell'immagine da riprodurre. In questi casi la conformazione della statua era affidata al suo rivestimento, costituito da lamine d'oro nelle statue criselefantine, da lamine metalliche o abiti in stoffa negli acroliti.

Negli esemplari più antichi il nucleo ligneo interno occupava buona parte della figura, che veniva di conseguenza quasi interamente coperta da ampie vesti. Nel caso di statue sedute, esso si impostava direttamente sul sedile di sostegno; se si trattava invece di statue stanti, lo scheletro veniva realizzato a partire da un palo portante. La faccia del nume veniva integrata con braccia, piedi e maschera facciale in avorio, e completata con le vesti in oro


Al palo centrale dovevano connettersi ulteriori elementi lignei, orizzontali, verticali e/o obliqui, di dimensioni variabili, fino a comporre una complessa intelaiatura con chiodi in ferro,  incastri maschio-femmina e perni, abitualmente utilizzati nel collegamento fra il nucleo ligneo, il rivestimento esterno e le integrazioni lapidee. In alcuni acroliti di età romana è attestato l'uso di cavicchi lignei cuneiformi con sezione a doppia coda di rondine. 

L'insieme poteva essere completato da capelli e vesti in metallo dorato, nonché da gioielli: direttamente all'anima lignea di una delle Dee erano appuntati i pendenti aurei di una collana, conformati a protomi leonine, grazie a chiodi dalla capocchia argentata contestualmente rinvenuti. L'integrazione di ciglia e sopracciglia in metallo, e l'inserimento di occhi in pasta vitrea avveniva come come nelle grandi realizzazioni in oro e avorio di Fidia, l'Atena Parthenos e lo Zeus di Olimpia.

La statua della Dea dominava, con i suoi 12 m circa di altezza, la cella del Partenone; la sua sede originaria è segnalata da un ampio alloggiamento quadrangolare (cm 75,5x45x37) praticato nella pavimentazione dell'ambiente subito dopo la messa in opera: tale presenza lascia intendere che l'intera scultura, come di consueto, si reggesse su una grande trave portante, che doveva attraversare la base del simulacro per fissarsi all'interno dell'incasso. 

Evidentemente la trave centrale copriva quasi interamente la notevole altezza della statua e ne sostenesse l'intero scheletro ligneo. Per il simulacro di Zeus, Dione Crisostomoparla di «cipresso e thyon per il lavoro interno»: forse lo stesso legno impiegato ad Atene. 

Intorno al grande palo portante sorgeva la struttura lignea che sosteneva le vesti auree della Parthenos, Luciano parla di una struttura internamente cava: in un passo del Gallus, infatti, oppone il nitore esterno dei grandi colossi di Fidia al loro interno, dove sarebbe stato possibile vedere «un groviglio di sbarre, montanti, cavicchi».

VENERE MORGANTINA - I FORI PER INSERIRE LE PARTI LIGNEE


SCULTURE CRISOELEFANTINE

Fra il VI e il V secolo accanto agli acroliti sorgono le sculture criselefantine. E' una tecnica adoperata nell'antica Grecia, che consisteva nel ricoprire con un sottile strato di avorio una struttura di sostegno in legno che rimaneva invisibile: si utilizzava l'avorio per il volto, le braccia, le gambe di una statua, mentre il panneggio delle vesti e i capelli venivano realizzati con l'oro.

Per quanto costituiscano una versione più economica di una tecnica comune, anche gli acroliti erano prodotti di pregio, da riservare alle immagini cultuali delle divinità. I due simulacri seduti di Demetra e Persefone da Morgantina, nel Museo di Aidone (En), ne sono un esempio. Nell'età ellenistica e romana, abbondarono gli acroliti, soprattutto nelle sculture umane di altezza superiore a quella umana; insieme alle immagini di divinità, quelle dei sovrani, con intento celebrativo.

Una statua loricata di Domiziano da Efeso era assicurata alla sua base attraverso tralicci lignei a sezione quadrangolare che attraversavano polpacci e piedi per fissarsi nella base che sostenevano l'intero scheletro della scultura. La stabilità complessiva era garantita fissando le parti marmoree della figura, alta circa 7 m, direttamente alla parete di fondo della cella del tempio in cui era ubicata.

Più tardi con la tecnica acrolitica si realizzano immagini loricate, dove l'impiego del marmo si estende all'intera parte inferiore delle gambe, mentre la corazza veniva realisticamente resa in lamine metalliche. 

Nel colosso di Costantino a Roma, la parte lignea riguardava una porzione del bacino e delle gambe dell'imperatore seduto in trono, e spalla e braccio sinistri, interamente coperti da un mantello.  

In modo analogo era stata realizzata una statua di Asclepio ad Ostia e di Giove nel Capitolium di Brescia.

Nell'Atena Medici, conservata a Salonicco, era realizzata in marmo l'intera gamba destra, compreso il chitone che la copriva. Le congiunzioni del marmo col legno erano dotate di canali paralleli con sezione a coda di rondine.

La scelta di realizzare nel marmo una sola gamba, ricondotta all'originale di V sec., è motivata dalla volontà di enfatizzare la diversa compattezza del sottile chitone in lino che la copriva rispetto al tessuto più pesante del peplo e dell’himation che vestivano le restanti parti della figura. 

Degli antichi acroliti ci restano soprattutto le teste, che potevano essere a tutto tondo, prive della sola calotta cranica o di porzioni più o meno ampie della zona occipitale e del collo; quando non risultavano interamente scolpite, venivano generalmente alleggerite praticando da tergo un vero e proprio svuotamento della parte interna del blocco. 

Numerose sono le teste prive di porzioni più o meno ampie della parte posteriore e della calotta cranica; in molti casi completate con elmi o copricapo di vario genere, spesso realizzati in materiali leggeri, a partire dallo stucco. L’immagine doveva completarsi con un copricapo, verosimilmente una leontè: forse realizzata in legno: escluso il marmo per ragioni statiche, infatti, non vi sono tracce evidenti dell’impiego dello stucco o del bronzo. 

Vedi anche:


BIBLIO

- Plinio il Vecchio - Naturalis Historia -
- A. Jacob - in Dict. Ant., s. v. Materia - Ligna; Sculptura - Parigi - 1918 -
- V. Spinazzola - Le arti decorative in Pompei e nel Mus. Naz. di Napoli - Milano - 1928 -
- Ch. Picard, Manuel - La Sculpture - I - Parigi - 1935 -
- A. Maiuri - Ercolano - Itinerari dei Musei e Monumenti d'Italia -
- S. Augusti - Traitement de conservation de quelques objects de fouille en bois - in Conservation, (oggetti di Rocca S. Felice) IV - 1959 -
- Andrew Wilson - Machines, Power and the Ancient Economy - The Journal of Roman Studies - 2002 -


VETRO DORATO ROMANO


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La decorazione a vetro dorato è la tecnica molto antica di un'immagine o un motivo in foglia d'oro, vale a dire un foglio d'oro sottilissimo (l'oro è l'elemento più malleabile che esiste), con purezza di 22 carati (22 su 24), che viene fuso tra due strati di vetro trasparente.

La procedura prevedeva che il vetro, incolore o colorato, venisse soffiato in una sfera, da cui si ritagliava una lastrina piatta di 7/12 cm di diametro, detta foglia. Una di queste veniva poi fissata sul vetro con della gomma arabica (una gomma naturale estratta fin dai tempi antichi da due tipi di acacia subsahariana), e veniva poi grattata secondo un disegno già predisposto ricavandone una decorazione o un'immagine precisa.

Il contenitore in vetro a cui si applicava la decorazione doveva avere una parte piatta di dimensioni simili al disco decorato, e veniva a questo sovrapposto, in modo che si fondessero insieme. Il contenitore era poi riscaldato un'ultima volta per completare la fusione facendone un corpo unico.

Ma la storia della doratura inizia nell’antico Egitto (già nota alla metà del IV millennio) dove l’oro veniva utilizzato per decorare sculture e sarcofagi imperiali, ma si usava pure decorare il vetro, per poi essere esportata in Grecia, dove erano le corna dei bovini ad essere dorate assieme ad elementi architettonici, mobilio e armi e vetro, e poi a Roma dove venne applicata agli altri diversi materiali, tra cui il marmo delle sculture, ma anche lì non mancò la doratura del vetro..

SPECCHIO CON IMMAGINE DEL DEFUNTO


PERIODO ELLENISTICO

Il vetro dorato nasce per quel che sappiamo nel periodo ellenistico (334 a.c. - 31 a.c.), per estendersi poi alla vetreria romana del tardo Impero (284 - 476), quando i medaglioni decorati in oro di coppe e altri contenitori furono spesso rimossi dal vaso originale e inseriti nelle mura della catacombe di Roma come segni funerari distintivi delle piccole tombe là collocate. In questo modo sono stati reperiti circa 500 pezzi di vetri dorati utilizzati a scopo funerario, mentre sono molto più rari i contenitori integri.

Le coppe sono vasi da mensa frequenti anche nei corredi funerari. Il bellissimo esemplare realizzato in vetro a mosaico, definito in epoca moderna "millefiori", è un prodotto di lusso, destinato ad una clientela ricca e sicuramente aristocratica, appartenente ad un tipo di tradizione ellenistica che si diffonde in Occidente e in Italia a partire dall'epoca augustea.

La tecnica usata per realizzare questi preziosi recipienti prevedeva in primo luogo la preparazione di cilindretti di vetro di grosso diametro, ognuno di colore diverso, che venivano saldati insieme fino a ricavarne uno solo a più colori. 

Il bastoncino veniva poi sezionato in rondelle che, disposte su un piano entro un anello più grande che fungeva da bordo, venivano riscaldate fino a formare un unico disco. Una volta raffreddato, il disco veniva sospeso mediante dei sostegni su una forma a coppa capovolta e nuovamente scaldato. Appena si ammorbidiva, i sostegni erano tolti ed il disco si adagiava sulla forma. L'orlo e la parete interna del vaso venivano infine levigati, completando la realizzazione della coppa.

Nel periodo ellenistico vennero usati vasi in genere più grandi di quelli romani o coppe decorate nell'intera fascia laterale in vetro dorato, come quella conservata nel British Museum larga 19.3 cm e alta 11.4 cm, proveniente da una tomba a Canosa di Puglia (270 - 160 a.C.), decorata all'interno con motivi di loto e acanto.

La maggior parte di questi esemplari a coppa sono attribuiti a botteghe di Alessandria d'Egitto, di solito considerata il centro d'origine del vetro di lusso ellenistico. Altri frammenti sono stati trovati negli scavi di una fabbrica di vetro a Rodi.

MADRE CON FIGLIO

PERIODO ROMANO

Ben presto la tecnica del vetro romano si estese conquistando la manifattura e il commercio romani. Molti vetri dorati mostrano così immagini religiose, da quella pagana, a quella cristiana e giudaica. Altri medaglioni riportano i ritratti dei loro possessori, e i più fini sono «tra i più vividi ritratti che si siano conservati dalla prima epoca cristiana. Ci fissano con un'intensità straordinariamente severa e melanconica». E' lo sguardo malinconico di chi è stato orbato dalla vita o di chi è stato orbata dalla morte nei suoi affetti più profondi, come questa madre con figlio.

Dal I secolo questa tecnica si estese e fu anche utilizzata per i mosaici dorati, utilizzati per decorazioni parietali, specialmente negli emblemata o nei ninfei, usando ugualmente due strati sovrapposti e fusi con cui si realizzavano non solo le le tessere dorate, ma pure perline di vetro e altri preziosi oggetti da toeletta. 

Il vetro dorato sostituì in parte l'oro, in quanto ad esempio se in una collana d'oro se ne smarrivano delle sferette d'oro, venivano sostituite da quelle in vetro dorato. Ma la manifattura del vetro dorato era una tecnica raffinata e complessa per cui richiedeva manodopera specializzata dotata di grande abilità. Ciò la rendeva meno costosa dell'oro ma comunque abbastanza costosa.

Si possono distinguere i vetri semplicemente graffiti da quelli “pittorici”, cosiddetti per la presenza di alcuni colori sovrapposti alla foglia d’oro per sottolineare i particolari delle vesti o dei volti. Generalmente sono rese in rosso le fasce di porpora sugli orli delle tuniche, e in bianco, o con foglia d’argento, i drappeggi delle vesti, di cui si vuole sottolineare il candore. 

L’azzurro era spesso usato per le onde marine, mentre le imbarcazioni erano dipinte in verde. L’espressività dei volti, che si ritrova spesso sui vetri dorati, è affidata soprattutto agli occhi, realizzati con il nero, che ricordano i ritratti su tavoletta della necropoli greco-egizia del Fayum8
VASO MILLEFIORI

IL VETRO STAMPATO

Si ritiene che i contenitori più grandi di vetro ellenistico non siano stati soffiati ma piuttosto stampati, in quanto l'intero contenitore è doppio, anche se non è facile occultare le giunture degli stampi. Venivano infatti usati stampi di metà vaso per quelli più grandi.

Notevoli le raffinate coppe di fine III-II secolo a.c., realizzate in vetro dorato con motivi vegetali a foglia d'oro, di probabile produzione alessandrina, o derivati da quella, che si rifanno ai prototipi in oro o in argento dell'epoca. La gente più colta e raffinata preferiva comunque stupire gli ospiti non tanto per la quantità degli ori e argenti che poteva mostrare nella sua tavola, quanto per la bellezza dei decori e la raffinatezza delle tecniche usate.

COPPA IN VETRO A BANDE DORATE

TECNICA A BANDA DORATA

Quella del vetro a banda dorata è una tecnica ellenistica e pure romana simile al vetro dorato: strisce di foglia d'oro venivano disposte tra due strati di vetro trasparente, e usate per un effetto di marmorizzazione nel vetro d'onice. Questa raffinatissima tecnica venne per lo più applicata a piccoli unguentari.



I PIGMENTI COLORATI

VETRO SIRIANO III O IV SECOLO
Alcuni dei medaglioni più pregiati, dal bordo liscio, contengono altri pigmenti oltre all'oro e sfruttano il vetro come supporto per ritratti in miniatura, realizzati per essere visti nelle scollature delle matrone, o incastonati in elementi di gioielleria, ma pure a scopo funebre, usando spesso del vetro blu come base.



LE TESSERE DI MOSAICO

Oltre ai medaglioni con immagini figurative, la tecnica dei due strati sovrapposti e fusi fu utilizzata anche per le tessere dorate dei mosaici, oltre che per le perline di vetro e altri oggetti simili. Le tessere erano realizzate in blocchi e poi tagliate in cubetti, che sono relativamente larghi nel caso degli sfondi in oro. Gli sfondi in oro erano poi disposti su di un supporto rosso o giallo-ocra, che ne esaltava l'effetto dorato con una tonalità più calda.



LA COPPA PER BERE

La tipologia di contenitore più frequente tra i reperti romani tardo-imperiali è la coppa per bere o la vaschetta, che si ritiene fossero originariamente doni di famiglia per matrimoni, anniversari, celebrazioni dell'anno nuovo, e altre festività religiose, forse anche doni per la nascita di un figlio o il battesimo cristiano, che però all'epoca si faceva da adulti con immersione totale del soggetto..

Solitamente le coppe per bere romane erano molto ampie e basse, sebbene alcuni esemplari fossero alti e con le pareti dritte o che si allargano verso l'altro, ma sono una minoranza. Insomma esistevano già allora le forme a coppa di champagne o a forma di flute.



LE PERLINE DI VETRO

Le perline di vetro dorato romane erano realizzate con un bastoncino interno a cui era applicata la foglia d'oro; un tubo più largo scorreva attorno al primo e le perline venivano poi aggraffate (tenute dalle griffes). Di facile trasporto e molto attraenti, le perline di vetro dorato romane sono state ritrovate anche al di fuori dall'Impero, dalle rovine di Wari-Bateshwar a Bangladesh, a siti in Cina, Corea, Thailandia e Malesia, evidentemente frutto di lontani commerci con l'Impero Romano.

La pasta vitrea con doratura spesso sostituì dei gioielli con perline in oro tanto è vero che in alcune collane vennero alternate con palline d'oro e d'argento. Non era considerato un falso perchè già la pasta vitrea era cara, ma quella dorata era ancora più costosa e attraente per il suo aspetto lucente.

COPPA DI LITURGO

LA COPPA DI LICURGO

La coppa di Licurgo è un recipiente di vetro alto 16 cm, finemente molato e intagliato raffigurante un celebre episodio mitologico, sopra cui il museo adopera un riflettore mobile, capace di far splendere la luce sopra e poi di lato. Perché ogni volta che si compirà quel movimento di luce, il re di Tracia, imprigionato assieme ai suoi divini persecutori, cambierà colore dal rosso al verde, in modo stupefacente.

Nel 1958, Lord Victor Rothschild avrebbe deciso di vendere la coppa al British Museum per la notevole cifra di 20.000 sterline, dove si trova tutt’ora. Il prezioso reperto, proveniente da Roma o da Alessandria d’Egitto (la cosa è dibattuta), è nella categoria delle coppe diatrete, un tipo di suppellettile di gran lusso collocato tra la metà del III e l’inizio del IV secolo. Questi recipienti creati da uno o due blocchi di vetro saldati assieme, presentavano nella maggior parte dei casi uno strato esterno formato da una vera e propria “gabbia” geometrica. 

La coppa di Licurgo è l’unico oggetto della sua categoria con un soggetto figurativo ad essere giunto intatto fino a noi, probabilmente all’interno di collezioni private. Essa ha una particolare qualità cangiante, derivante dall’infinitesimale quantità di argento e d’oro contenuto all’interno del vetro con cui era stata fabbricata.
 

Esso consta di 330 parti per milione del primo e 40 del secondo, dissolte all’interno del vetro fuso in soluzione colloidale, capace di assumere per probabilità quantistica la forma di particelle non più grandi di singoli atomi isolati nel flusso, rinominato in funzione di ciò vetro dicroico (cioè bicolore). Granuli capaci quindi d’indurre, una volta completato il processo di solidificazione, un fenomeno di diffrazione della luce noto come "risonanza plasmonica di superficie", che produce ai nostri occhi una variazione cromatica dal verde al rosso.

La sua realizzazione resta misteriosa, benché si sospetti pure che la coppa possa essere stata creata per caso, magari per residui della lavorazione dell’argento con piccole tracce aurifere, a loro volta accidentali. Secondo altri, invece, la parte interna dell’oggetto sarebbe stata creata da una seconda officina specializzata rispetto a quella che si era occupata del bassorilievo intagliato, capace di creare l’impasto di vetro e metalli lavorando su ampie quantità, riuscendo quindi a diluire su multipli oggetti, oggi andati per lo più perduti, le infinitesimali quantità coinvolte.

Definita nel 1857 come “barbarica e debosciata” dallo storico dell’arte tedesco Gustav Friedrich Waagen (già combattente volontario contro Napoleone, nonchè accanito conservatore e rigido critico verso qualsiasi forma di libertà), la coppa costituisce un'importante documento sul gusto estetico connesso alla pratica dei baccanali ed a colui che volle distruggerla ad ogni costo, cioè Licurgo.



LICURGO

Licurgo (IX - VIII secolo a.c.), re di Tracia e secondo alcune interpretazioni della leggenda il principale creatore dell’ordine sociale di Sparta, sarebbe stato un grande oppositore del culto di Dioniso, dio dell’estasi, dell’ebrezza e delle piante. Arrivando persino a vietare e il consumo di vino, perseguitando attivamente le Menadi o Baccanti, sacerdotesse possedute dallo spirito del Dio.

Così il sovrano, nudo, aggredisce sessualmente o uccide Ambrosia, madre adottiva di Dioniso in forma umana, per ricevere la giusta punizione, un colpo della verga divina, seguìto dall’assalto di un fauno lanciatore di macigni, una pantera ruggente e i serpeggianti tentacoli di un rampicante, in cui verrà poi trasformato.

CONIUGI CON ISCRIZIONE "BEVI, CHE TU POSSA VIVERE" IV SECOLO


SEGNACOLI DI TOMBE

Si sono rinvenuti circa 500 frammenti di contenitore in vetro dorato la cui decorazione fu ritagliata e utilizzata per identificare i morti nelle catacombe, ma le numerose iscrizioni che invitano a bere ha fatto capire che i frammenti provenivano da coppe o bicchieri. 

Un mosaico dalle rovine della città romana di Dougga (Thugga) mostra due schiavi che versano vino dalle anfore in coppe basse rette da schiavi che servono a un banchetto. Le due anfore hanno le iscrizioni «ΠΙΕ» e «ΣΗϹΗϹ», che in lingua greca «pie zeses» significano: «bevi, che tu possa vivere», così frequente sul bicchieri romani, ed è stato suggerito che il mosaico mostri la forma completa di una coppa da cui si ritagliavano i medaglioni.

I DEFUNTI GEMELLI

Evidentemente alla morte del proprietario, il medaglione di vetro dorato della coppa veniva ritagliata e usata come segnacolo per il loculo del proprietario. O più probabilmente se la coppa si era rotta durante l'uso, il suo spesso fondo decorato era conservato per questa funzione. 

Si pensa che i medaglioni fungessero anche da sigillo della tomba, in quanto erano premuti all'interno della malta o dello stucco con cui si copriva la parete del loculus. Con l'avvento del cristianesimo, quando si diffondono le figure dei santi, sembra che i medaglioni fingessero anche come protezione contro il malocchio, visti i simboli cristiani apotropaici che vi vennero aggiunti.

Molti medaglioni di vetro dorato recano ritratti di coppie sposate, tra cui probabilmente il defunto, mentre altri vetri dorati rappresentano figure religiose, come santi, o simboli religiosi. Questa pratica era seguita da cristiani, ebrei (sono noti almeno 13 esempi chiaramente ebraici) e pagani.

Molte tessere di mosaico dorate furono utilizzate a Roma in ambito domestico a partire dal I secolo, usate poi per tutta l'epoca antica e medievale. Intorno al 400, si iniziò a utilizzare l'oro come sfondo per i mosaici religiosi cristiani, caratteristica costante dell'arte bizantina.

Gli esemplari tardoromani decorati sono in genere ascritti a Roma e dintorni, specialmente nei ritratti di coloro che vi vivevano, ma anche nei dintorni di Colonia e Augusta Treverorum, la moderna Treviri, che fu il centro di produzione di altri prodotti di vetro di lusso come le coppe diaretre.

MEDAGILONE DI GENNADIO


MEDAGLIONI ALESSANDRINI  

Anche Alessandria d'Egitto fu un notevole centro di produzione, e in base all'analisi linguistica delle iscrizioni sembra che gli stessi artisti e artigiani, si siano trasferiti da Alessandria a Roma e in Germania. Un numero ridotto di ritagli di basi di contenitori è stato ritrovato in Italia settentrionale, in Ungheria e in Croazia.

Il medaglione di Gennadio è un esempio di ritratto alessandrino su vetro blu, che utilizza una tecnica più elaborata degli esemplari romani, tra cui l'uso di dipingere sull'oro per creare delle ombreggiature, e con l'iscrizione che contiene delle caratteristiche del dialetto greco alessandrino. 


GALLA PLACIDIA E FIGLI

Uno dei più famosi medaglioni-ritratto in stile alessandrino, con un'iscrizione in greco egiziano, fu montato durante l'alto medioevo sulla Croce di Desiderio a Brescia, in quanto ritenuto, secondo alcuni erroneamente raffigurare l'imperatrice e devota cristiana Galla Placidia e i suoi figli, mentre il nodo sulla veste della figura centrale suggerisce una devota di Iside. 

Alcuni lo ritengono una raffigurazione di una famiglia alessandrina, inizio III secolo - metà V secolo, prima che giungesse in Italia per adornare una croce cristiana del VII secolo. 

Ma il nodo sulla veste era anche una moda come tante, come del resto si osserva in questo segnacolo funebre qui in alto. Pertanto è probabile che raffigurasse davvero galla Placidia con figli. I piccoli dettagli che compaiono qui come in altri medaglioni possono essere stati realizzati solo tramite l'uso di lenti.
COPPIA IN SIGNACOLO FUNEBRE

I medaglioni di tipologia «alessandrina» hanno una semplice linea sottile dorata che contorna il soggetto, mentre gli esempi romani hanno una varietà di cornici più spesse, e spesso utilizzano due bordi tondi, per suddividere gli esemplari tra differenti officine. Il livello del ritratto è rudimentale, con capigliature, vestiti e dettagli di stile stereotipato.

I primi studiosi di vetri dorati, a partire da Bosio 11, riferiscono che molti di questi materiali furono rinvenuti durante le esplorazioni, effettuate tra il XVII e il XVIII secolo, delle catacombe site intorno a Roma. Purtroppo, a parte rari casi, non viene mai esplicitato in quale cimitero sotterraneo sia stato ritrovato un determinato fondo oro.

La mancanza di dati certi non permette di analizzare puntualmente la distribuzione che questa classe di materiali doveva avere nella tarda antichità, sia all’interno della stessa Roma che nelle altre regioni dell’impero, poiché la realizzazione di vasi con fondo d’oro non era appannaggio esclusivo delle botteghe romane, ma trovava anche negli artigiani renani ottimi esecutori. 

Il gruppo renano differisce da quello romano perché la doratura è applicata sulla superficie vitrea senza un secondo strato protettivo, con il risultato che la decorazione è pochissimo conservata. Questa affermazione non è valida in assoluto, poiché la decorazione a foglia d’oro senza superficie di copertura è stata impiegata anche per realizzare vasi al di fuori del territorio di Colonia1

PIATTO DI ALESSANDRO


PIATTO DI ALESSANDRO

Il «piatto Alessandro con scena di caccia» al Cleveland Museum of Art è, se autentico, visto che alcuni l'hanno messo in dubbio, un esempio molto raro di contenitore completo decorato in vetro dorato, un oggetto di gran lusso. Si tratta di un piatto o di un vassoio poco profondo, 257 mm di diametro e 45 mm alto, decorato al suo centro da un medaglione piatto e circolare, grande i due terzi dell'intero diametro. 

Esso raffigura un cacciatore a cavallo armato di lancia, che insegue due cervi, mentre sotto il suo cavallo un cacciatore a piedi con un segugio al guinzaglio affronta un cinghiale: l'iscrizione latina «ALEXANDER HOMO FELIX PIE ZESES CVM TVIS» significa «Alessandro, uomo fortunato, bevi, che tu possa vivere con i tuoi». 


Si ritiene appartenesse ad un ignoto aristocratico, anziché Alessandro Magno o l'imperatore romano Alessandro Severo (che regnò tra il 232 e il 235): il piatto sarebbe stato prodotto poco dopo il suo regno ma anche durante il suo regno non sarebbe stato chiamato «uomo». 

La formula greca per il brindisi augurale, ZHCAIC significa «vivi!», «che tu possa vivere!», spesso utilizzata nei vetri dorati, e talvolta è l'unico elemento dell'iscrizione; è più frequente dell'equivalente termine latino, VIVAS, forse più raffinato. 

Due vetri dorati che includono la figura di Gesù hanno «ZESUS» invece di «ZESES», una sorta di gioco di parole tra il brindisi augurale e il nome della divinità cristiana, ma di dubbio gusto, visto la morte atroce anche se seguita da resurrezione. 


I RITRATTI 

I ritratti sui vetri dorati presentano alcune caratteristiche comuni nell'incorniciatura e lo sfondo, ma sono fortemente differenziati nella resa dei personaggi rappresentati, attraverso la decisa individualità dei tratti del volto. Fu del resto caratteristica romana e non greca la ritrattistica eseguita con crudo realismo anche se trattavasi di imperatori o gnerali.

Questa marcata ricerca della singola fisionomia si accorda bene con l’ipotesi che questi medaglioni e fondi di coppe o piatti siano stati inseriti nelle lastre di chiusura dei loculi non come semplice ornamento, ma come segnacolo per indicare la tomba del defunto ai suoi cari. 

Anche la primaria funzione di dono nelle più importanti ricorrenze private può spiegare la necessità dell’artigiano di rendere il più possibile unici questi vetri dorati, pur seguendo i canoni prestabiliti dal dedicante e dalla moda del tempo.



LE DEDICHE

Un'altra frase popolare fra le dediche è «DIGNITAS AMICORVM», « (sei) l'onore dei tuoi amici». Un esemplare che reca l'iscrizione «DIGNITAS AMICORVM PIE ZESES VIVAS» mostra l'unione tra le due dediche. Le dediche conviviali vennero usate anche nelle ben più lussuose coppe diatrete.

Vedi anche: IL VETRO ROMANO


BIBLIO

- Trentinella, Rosemarie - Roman Gold-Band Glass - Heilbrunn Timeline of Art History - New York: The Metropolitan Museum of Art - 2003 -
- A Catalogue of the Late Antique Gold Glass in the British Museum - Londra - British Museum - Arts and Humanities Research Council -
- John Boardman (a cura di) - The Oxford History of Classical Art - Oxford University Press - 1993 -
- John Beckwith - Early Christian and Byzantine Art - Penguin History of Art - 1979 -
- Lucy Grig, Portraits - Pontiffs and the Christianization of Fourth-Century Rome - Papers of the British School at Rome - 2004 - Oxford University Press - 2006 -
- K. L. Lutraan - Late Roman Gold-Glass: Images and Inscriptions - McMaster University - 2006 -
- Susan I. Rotroff - Silver, Glass, and Clay Evidence for the Dating of Hellenistic Luxury Tableware - Hesperia: The Journal of the American School of Classical Studies at Athens - vol. 51 - 1982 -


LE CARICATURE ROMANE


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NERONE

Come già nell'antica Grecia, anche a Roma il teatro costituisce l’occasione, lo spazio e l’ispirazione per la rappresentazione deformata della realtà. La caricatura raggiunge la massima espressività nelle maschere che gli attori di commedie e tragedie dovevano indossare per l’impossibilità di utilizzare la mimica facciale nei grandi spazi, anfiteatri e teatri nei quali si soleva rappresentare i drammi. 

Ma dal teatro emerge un’altra figura, quella del buffone scemo, che costituisce di per sé una caricatura. I Romani amavano il dileggio, da quello leggero e forbito di Orazio, a quello più caustico di marziale, a quello popolare che non guarda in faccia nessuno, nemmeno eroi o imperatori.
DA POMPEI CARICATURA DI UNO STUDIO DI PITTORI


LA REPUBBLICA

"Le caricature ai tempi degli antichi romani: anche disegni osceni tra i graffiti scoperti in Britannia.

Quattro nuovi graffiti, risalenti ai tempi dell'impero romano, sono stati scoperti dagli archeologi della Newcastle University."


CARICATURA DI UN LEGIONARIO

"Gli studiosi, in collaborazione con l'agenzia governativa Historic England, erano impegnati in questi mesi nella mappatura 3D delle iscrizioni già scoperte in passato in una cava di Gelt Wood, nota agli studiosi sin dal XVIII secolo per i graffiti che i legionari dell'epoca lasciarono sulla roccia.

Un passatempo irresistibile allora come oggi. Fra le tracce appena scoperte e finora rimaste nascoste a causa della difficile accessibilità alla cava, c'è la caricatura di quello che probabilmente era il responsabile dei lavori nei quali i legionari erano impegnati. E c'è pure un disegno osceno, che all'epoca era ritenuto di buon augurio.

Dopo le numerose incursioni dal nord degli anni precedenti, nel 207 d.c. circa, si era reso necessario ristrutturare - e in alcuni casi ricostruire - alcune parti del Vallo di Adriano, la fortificazione costruita in Britannia nella prima metà del II secolo d.c. che segnava il confine della provincia romana. Per fare questo i soldati di stanza nell'isola estrassero grandi blocchi di arenaria proprio dalla cava di Gelt Wood."

(Giornale la Repubblica)

TRATTO DA UN AFFRESCO DI UN NEGOZIO DI POMPEI


SUCCESSO = CARICATURA

Tra gli antichi romani la caricatura era d'obbligo, e tanto più il personaggio era insigne e illustre tanto più c'era gusto a farne la caricatura che tuttavia non veniva fatta solo sui muri occasionali, ma addirittura si effigiavano sulle monete, di modo che anche il soggetto ne fosse sicuramente informato.

Nemmeno l'imperatore sfuggiva all'ironia, anzi era il bersaglio preferito dei caricaturisti. Occorre tener conto che l'animo del popolo romano dell'antichità era decisamente democratico, molto lontano dalla monarchia assoluta delle terre orientali, dove il popolo non contava assolutamente nulla.

NERONE

Prova ne sia che nell'Impero Romano il senato continuò sempre a funzionare, con più o meno poteri, a seconda dell'imperatore in carica, ma senza che alcuno potesse abrogarlo. Il popolo romano era talmente democratico che la più grave accusa che si potesse fare a un cittadino era quella di avere ambizioni di farsi re.

CLAUDIO MARCELLO
Nella fig. 1 c'è la caricatura di Nerone su una moneta. Tra l'altro all'epoca di Nerone vigeva il reato di "Maiestatis" cioè di "Lesa maestà", eppure nemmeno l'imperatore poteva evitare questa berlina e imporre questo divieto di espressione al popolo, perchè a Roma l'S.P.Q.R. non era un modo di dire.

Questa è la caricatura di Claudio Mercello, vissuto nel III secolo a.c. e che combattè valorosamente durante le II Guerra Punica, accanto a lui il simbolo della Trinacria. La sua foto qua sotto fa già capire quanto i suoi tratti siano stati esagerati, anzitutto nella magrezza, nel volto allungato, nella grandezza esagerata delle labbra e nel naso lungo e gibboso.

Non  che Claudio Marcello fosse bellissimo, ma certamente il volto qua sopra gli rende un po' più giustizia. Ma Claudio Marcello venne eletto Console per cinque volte, la folla lo adorava e lo chiamava "La spada di Roma", a fargli la caricatura c'era un gran gusto, un gusto dolce amaro che gli abitanti di Roma hanno sempre conservato.

SCIPIONE L'AFRICANO CON ELMO


CORNELIO SCIPIONE AFRICANO MAGGIORE

La moneta che raffigura Scipione Africano Maggiore, in grande eroe che sconfisse Annibale dopo tanti anni di paure e sofferenze, più che una caricatura è un oltraggio, ma un oltraggio sorridente. A calcare la mano su cotale eroe che aveva salvato Roma da Cartagine e che tutti guardavano come un Dio c'era un gran gusto, almeno per ricordargli che era solo un uomo mortale.

GIULIO CESARE


GAIO GIULIO CESARE

Lo scotto che si pagava era quello dell'ironia derisoria, seppure benevola e quella di apparire in immagine caricaturale sulle monete. Ne fanno fede le canzoncine riservate a Giulio Cesare, adorato dai suoi soldati e pertanto preso di mira sui suoi punti deboli. Tipo:

"Uomini attenti, chiudete in casa le vostre donne perchè arriva il calvo!" gridavano i suoi legionari durante le sfilate dei suoi trionfi. Si sa che Cesare aveva una vera ossessione sulla sua incipiente calvizie si che si manovrava i capelli lasciandoli crescere portandoli a coprire la sua notevole stempiatura.

GIULIO CESARE VECCHIO E RUGOSO
Ma c'era di più. A Roma era giunto l'uso greco della pederastia, e cioè una forma omosessuale di adulti con maschi adolescenti e nessuno ci trovava nulla di riprovevole, al contrario di oggi in cui farebbe giustamente orrore. 

Ma c'era invece una vera condanna verso l'omosessualità tra adulti, su cui invece oggi non troveremmo nulla da ridire, perchè il sesso è da condannare solo quando c'è sopraffazione, dovuta al ruolo o alla differenza di età.

Ebbene Giulio Cesare era un fervido amante, sia di uomini che di donne, e si seppe che ebbe una lunga relazione con il re di Bitinia, cosa che fece scandalizzare alcuni, tra cui Catullo che lo definì pervertito e invertito.

Il giovane Giulio Cesare fu ambasciatore presso il re di Bitinia, incaricato dal propretore d'Asia di sollecitare Nicomede a inviare la promessa flotta ai romani per l'assedio del porto di Mitilene. Nicomede riconobbe subito il genio e la sicurezza del giovane ambasciatore e ne restò affascinato.

Dunque il re mostrò da subito un debole per il giovane ufficiale e gli concesse senza discutere la flotta, così Cesare, consegnate le navi, tornò immediatamente da Nicomede, e così si disse che Cesare avesse ottenuto così facilmente le navi per un rapporto amoroso col re, dosa estremamente probabile e di cui lui non mostrava alcuna vergogna, e venne pertanto chiamato "la regina di Bitinia”.

Cesare venne anche definito dai suoi nemici:
- “rivale della regina di Bitinia”, 
- “stalla di Nicomede”, 
- “bordello di Bitinia”. 

Bibulo, collega di Cesare nel consolato del 59, affermò: “Questa regina, una volta aveva voluto un re, ora vuole un regno”, ma bisogna capirlo, durante il consolato tutte le decisioni le aveva prese Cesare esautorando di fatto il consolato del collega. I legionari, il giorno del trionfo di Cesare sui Galli, seguendo il costume ironico e satirico, cantarono:

«Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem: ecce Caesar nunc triumphat qui subegit Gallias, Nicomedes non triumphat qui subegit Caesarem»
«Cesare ha sottomesso le Gallie, ma Nicomede ha messo sotto lui. Oggi trionfa Cesare che le Gallie ha sottomesso, non trionfa Nicomede che ha messo sotto lui

(Svetonio, Vita di Cesare.)

ANTONIO E OTTAVIANO


ANTONIO E OTTAVIANO  

I presunti eredi di Giulio Cesare, dove si mostra un adolescente Ottaviano che ancora si lascia crescere la barba. "Tutta la città, nel settembre del 39 a.c. venne informata del fatto che Ottaviano Augusto si era fatta la prima barba ". Dato che Ottaviano era nato il 63 a.c. ne deriva che si fece la prima barba a 24 anni, un'età molto tarda per l'epoca, dove i ragazzi dedicavano la prima barba a 16 - 17 anni.

Però una realtà ci doveva essere, perchè nel 43 a.c. Ottaviano siglò il II triunvirato con Marco Antonio, all'età di 20 anni, un giovane molto in gamba con la barba ancora intonsa, così come si vede nella moneta della fig. 13 qua sopra, un'immagine con evidenza caricaturale, dove Antonio appare con naso e mento incurvati e Ottaviano con la barba a riccioli.

MONETA CON IMMAGINE DI AUGUSTO NON CARICATURALE

L'immagine di cui sopra è il vero Ottaviano Augusto, con un viso piuttosto regolare come si vede nelle sue statue. Il successore di Cesare era dunque un bel ragazzo, iniziò la sua conquista come erede di Cesare a soli 18 anni. 

Fu un bel ragazzo e poi un bell'uomo, tanto è vero che in un banchetto privato che fece scandalo a Roma si vestì da Apollo, probabilmente in onore alla bellezza del Dio che sentiva, con una certa esaltazione, un po' simile alla sua.
AUGUSTO GIOVANE

Augusto fu una delle figure più amate, forse la più amata, visto che il di lui culto permase anche durante il cristianesimo che non osò pertanto demonizzarlo come aveva fatto per quasi tutti gli imperatori. Così ci investì sopra una storiella in cui l'imperatore avrebbe avuto una visione della Madonna col suo divino figliolo. Dunque non cristiano ma quasi.

Molte delle immagini del giovanissimo Augusto però non brillano per somiglianza, gli danno un naso prominente, un collo troppo lungo e un'immagine a dir poco infantile. E' evidente l'intento caricaturale, ma come si è detto si faceva anche come gioco per una persona molto in vista.

CALIGOLA E AUGUSTO

La caricature che troviamo nelle sue monete possono essere infatti anche un segno affettivo, Augusto incontrava la simpatia del popolo, del senato e pure dell'esercito che vedeva in lui l'erede del grande Cesare. Sappiamo che lo stile romano del ritratto, al contrario di quello greco che era piuttosto idealizzato, era fedele all'originale fino ad essere impietoso, ma spesso sconfinava nel caricaturale.
Il ritratto di Caligola ed Augusto che sembra un po' si somigliassero non è qui espresso al meglio, ma con una vena di ironia.

CARICATURA DI MARCO ANTONIO


MARCO ANTONIO

Prima alleato di Ottaviano e poi nemico, si dice fosse un bellissimo uomo, tanto è vero che ancora oggi di un tipo in forma si dice che è "un pezzo di Marcantonio". In effetti fu molto amato dalle donne, a cominciare dalla sua prima moglie che allevò, seppure ripudiata, non solo i figli avuti con lui ma pure quelli da lui avuti con altre donne.

«Una dominatrice, una donna che non voleva solo comandare su un marito, ma un grande comandante di eserciti». Così lo storico greco Plutarco descrive Fulvia, la terza moglie di Marco Antonio, ma lei non lo dominò affatto perchè Antonio preferì a lei la seducente Cleopatra, ex amante di Cesare.

Da notare che Antonio di mogli ne ebbe quattro e non fu mai abbandonato, e tutte e quattro lo amarono, ma tutte furono abbandonate da lui,  meno l'ultima di esse, Cleopatra, che sapendolo morto si suicidò, sembra facendosi mordere il seno da un aspide.

LA COPPIA PERICOLOSA, MARCO ANTONIO E CLEOPATRA

Cleopatra fu amata sia da Cesare che da Antonio, ma Cesare, al contrario dell'altro, non perse la testa, se la portò a Roma per farne la sua amante ma giammai lasciò sua moglie per lei, sapeva che i romani non glielo avrebbero perdonato.

Per quanto simpatica. colta e alla moda, per i romani lei era una straniera, affascinante si e pure regina ma straniera e finchè Cesare la teneva in disparte il popolo non aveva nulla da ridire. Trovò invece molto da dire su Antonio che se la sposò ripudiando la moglie romana, Ottavia Minore sorella di Ottaviano.

TIBERIO


TIBERIO

Il popolo era costituito a Roma da una cifra di persone che oscillava dal milione al milione e mezzo e se solo un terzo scendeva in piazza era già un disastro. Ne fa testo l'episodio di Tiberio che non amava molto la popolazione si che abbandonò Roma e si recò a governare, si fa per dire, da Capri, ma che quando ancora era nella reggia romana osò togliere dai giardini pubblici dei romani una statua per portarla al suo palazzo. 

Il popolo indignato, ogni volta che l'imperatore compariva in un teatro o in una qualsiasi cerimonia ufficiale, gli urlava di rimettere la statua al suo posto, finché Tiberio dovette cedere e far riporre al suo posto il capolavoro. 

TIBERIO

Vero è che se Tiberio non amava il popolo, il popolo non amava Tiberio, ed ecco qua nella fig. 4 la caricatura di Tiberio con un naso decisamente esagerato. ma non si deve pensare che la caricatura fosse solo un moto di antipatia, perchè il romano era persona di spirito e ironizzava su tutto, anche sulle persone che amava, purché fossero un po' mitizzate, o potenti, o celebri, perchè la caricatura smitizza e se non c'è mito non c'è nulla da smitizzare.

Tale spirito burlesco si rivelava anche durante le solenni cerimonie dei "Trionfi". Tenuto conto che la cerimonia poteva dare alla testa il festeggiato, questi aveva dietro di sé un soldato che gli teneva alta sul capo la ghirlanda di lauro (da cui la parola laureato) e che gli diceva a voce alta (il chiasso e l'esaltazione era alle stelle):"Ricordati che sei solo un uomo".

TIBERIO

Ma soprattutto quello che poteva riportare con i piedi per terra il festeggiato, che naturalmente era un generale vittorioso (o un imperatore vittorioso), era il canto dei suoi stessi soldati che gli sfilavano dietro tra il plauso del pubblico, perchè i mercenari erano soliti prendere in giro i propri generali, chiunque fossero, imperatore compreso.

Da qui si capisce che questo spirito si estese anche alla raffigurazione delle monete, che erano il massimo della propaganda all'epoca, sia per gli imperatori sia per i generali o per gente famosa e ricca che aveva interesse o piacere di farsi pubblicità.

IMPERATORE CLAUDIO


IMPERATORE CLAUDIO

Non venne risparmiato nemmeno l'imperatore claudicante, che tuttavia non venne giudicato un cattivo imperatore. Ma gli fecero in questo caso un collo da toro, la fronte bassissima, il naso a punta, un sottogola prominente e due orecchie gigantesche.

NERONE

NERONE

Il massimo della satira venne raggiunta con Nerone, e non venne tralasciata nemmeno la bellissima Poppea che dalle monete non viene in evidenza la sua bellezza, anzi viene fuori una grassa contadinotta.
Nerone inoltre compare con la corona di Elios, che aveva posto sulla sua enorme statua chiamata il Colosso da cui poi il nome all'anfiteatro Flavio detto il Colosseo.

Con Nerone la caricatura era facile e forse anche per questo i coniatori di monete si accanirono. Il collo era enorme, il mento e il naso molto prominenti e pure le lebbra prominenti ma quasi ingoiate dalla sporgenza di naso e mento.

Per giunta Nerone lasciava incolti i capelli e la barba ad imitazione dei costumi greci, che egli amava in quanto estimatore della poesia e della musica greca, di cui si riteneva un ottimo rappresentante, pur essendo romano.

VESPASIANO


VESPASIANO E TITO

Fu un ottimo imperatore che risollevò le sorti dello stato, sia da Nerone che dall'anno di sangue dei quattro imperatori. Il popolo lo apprezzò e lo amò, e altrettanto il senato. Naturalmente la satira non lo risparmiò, non era un nobile e lo dimostrava nei suoi tratti piuttosto rozzi, ma era un ottimo generale, e per i romani era tutto.

I conii delle monete dell'epoca fecero a gara per mostrare i lineamenti che a prima vista potevano appartenere a un salumiere o ad un macellaio. Fortunatamente i romani non erano razzisti e le persone le valutavano per ciò che erano, ovvero per ciò che facevano per Roma.

TITO

Già di suo l'imperatore non era una bellezza, ma nelle monete lo caricaturarono al massimo, sia lui che suo figlio Tito, forse ancora più amato, tanto che venne definito in senato "delizia dell'umanità". In questa moneta è ancora più brutto di vespasiano, che è tutto dire.

La mano dei coniatori di monete ci andò pesante anche con Marco Aurelio, anche se è da tener conto che l'arte a Roma è già scivolata un po' in basso, il cristianesimo, la nuova religione emergente, non le giovò, il divertimento venne bandito e pure l'arte divenne un piacere non gradito al nuovo Dio unico e solo..

DOMIZIANO

DOMIZIANO

Ma anche Domiziano, il figlio di vespasiano, nonchè fratello di Tito, sfuggì alla caricatura. Fu un po' la pecora nera della famiglia, molto ambizioso ma poco capace e piuttosto crudele si che venne eliminato attraverso una congiura di palazzo, cosa non infrequente per gli imperatori romani.

MARCO AURELIO


MARCO AURELIO 

Marco Aurelio è il perfetto filosofo, pagano ma con un certo spirito cristiano, privo però di quell'esaltazione un po' masochista che animava la nuova religione. 

CARACALLA

CARACALLA

Visse tra la fine del II e l'inizio del III secolo. Che si tratti di una caricatura è molto probabile perchè l'uso ancora vigeva, ma qualche dubbio c'è visto che l'imperatore non era un Adone. Diciamo col volto più corto e schiacciato, ma più largo e tozzo di come fosse in realtà.

Poi la caricatura decadde, le effigi degli imperatori vennero impresse sulle monete con aspetti anche peggiori, ma non per caricature ma perchè l'arte del conio era andata perduta, insieme alla pittura e la scultura, si era ormai nell'evo oscuro. Gli Dei, come l'arguto e intelligente spirito romano erano morti per sempre.


BIBLIO

- Thomas Wright - A history of caricature and grotesque - London - Chatto and Windus - 1875 -
- W.G. Sayles - Ancient Coin Collecting III: The Roman World-Politics and Propaganda - Iola - 1997 -
- William Boyne - A Manual of Roman Coins: from the earliest period to the extinction of the empire - W. H. Johnston - 1865 -
- Cassio Dione Cocceiano - Storia romana - LV -
- Adriano Savio - Monete romane - 155 -
- Gian Guido Belloni - La moneta romana -
- Tulane University - Roman Currency of the Principate -
- Gian Guido Belloni - La moneta romana -


 

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