PLINIO IL GIOVANE - PLINIUS CAECILIUS



Nome: Gaius Plinius Caecilius Secundus
Nascita: 61 d.c., Novum Comum
Morte: 112 d.c., Bitinia, Turchia
Coniuge: Calpurnia (s. 100 d.c.)
Genitori: Lucio Cecilio Cilone e Plinia Marcella
Professione: Scrittore e senatore romano, (nipote di Plinio il Vecchio)



LE ORIGINI

Plinio nacque a Novum Comum (Como) nel 61 (o 62), col nome di "Gaius Plinius Caecilius Secundus" da una ricca famiglia di rango equestre (equites).

« E anche durante le elezioni dei tribuni, nel caso non ci fosse un numero sufficiente di candidati tra i senatori, [Augusto] li prese tra i cavalieri romani, tanto poi da permettere loro, una volta scaduto il mandato, di rimanere nell'ordine che volessero. » (Svetonio)

Sua madre Plinia era la sorella di Plinio il Vecchio. Suo padre Lucio Cecilio morì nel 70 d.c., per cui il bambino passò sotto la tutela dello zio materno Plinio il Vecchio alla cui morte nel 79, essendo stato da lui adottato per testamento, aggiunse i nomi di Gaio e Plinio.

Di intelligenza brillante e versatile d'ingegno, di grande cultura, letterato di un certo stile, anche se un po' artificioso.

Era uomo onestissimo, generoso e sensibile ma pure conformista. Privato del padre a soli 8 o 9 anni, coltivò come figura paterna prima Verginio Rufo e poi Plinio il Vecchio.

A quattordici anni compose una tragedia in lingua greca e a diciassette si trovava a Miseno quando avvenne la tragica eruzione del Vesuvio che nell'agosto del 79 d.c. distrusse Ercolano e Pompei e costò la vita anche allo zio, che era voluto accorrere sui luoghi del disastro.
La tragedia lo dovette segnare parecchio, perchè descrisse quegli avvenimenti solo molti anni dopo con due lettere a Tacito.

Sua sorella Cecilia era morta in giovane età e quando nell'83 morì anche la madre Plinia, egli, che aveva allora solo 22 anni, ereditò tutto il patrimonio di famiglia.



VERGINIO RUFO

Poiché era ancora minorenne, Plinio fu affidato all'amico di famiglia Verginio Rufo, senatore e militare romano, famoso per aver rifiutato l'impero prima e dopo la caduta di Nerone, il che ne descrive la grande onestà. Rufo già si era preso cura di lui subito dopo la morte del padre, per cui l'affidamento avvenne senza scosse.

Nel 97 d.c. Tacito, che scorgeva in Verginio il proprio ideale di eroe modesto e di boni mores, di lui compose e pronunciò ai suoi funerali l'elogio funebre. Sembra che Plinio abbia provato un grande affetto per lui come testimoniato nel commosso ricordo nelle Epistulae II.

VILLA DI PLINIO A CASTELFUSANO

GLI STUDI

Plinio fece i primi studi a Como ma, potendosi permettere studi più elevati, si trasferì a Roma dallo zio. In questo periodo, nel quale egli era « quasi ancora un fanciullo », fu già creato "patrono" titolo di deferenza a un patrizio ritenuto un protettore, della città di Tifernum (Città di Castello), dove i Plinii possedevano una villa.

A Roma studiò eloquenza alla scuola di Quintiliano,  un famoso oratore romano nonchè maestro di retorica della scuola pubblica, che lo educò allo stile sobrio e delicato, ma seguì pure il retore greco Nicete Sacerdote, che invece gl'insegnò l'eloquenza asiatica (greca dell'Asia Minore), molto ricercata e con una certa foga ampollosa. Ma da questi maestri il giovane Plinio trasse uno stile suo, « piuttosto neutro e anodino ». Studiò filosofia presso Gaio Musonio Rufo, filosofo neostoico, apprezzato da Vespasiano.



L'AVVOCATO

In una lettera indirizzata a Suetonio (Epistulae I, 18) Plinio narra che da adulescentulus si prese l'onere di una causa molto rischiosa, perchè rivolta contro uomini molto potenti e amici dell'imperatore Domiziano, che non era precisamente un uomo giusto. 
Plinio generosamente si battè per gli amici e contro le ingiustizie.
A diciannove anni infatti aveva iniziato la sua carriera di avvocato, vincendo nel 93, insieme a  Erennio Senecione, in un famoso processo contro Bebio Massa, proconsole della Betica, accusato di concussione.

Insieme all'amico Tacito, sostenne nell'anno 100 l'accusa di concussione e omicidio, avanzata dai provinciali d'Africa contro il proconsole Mario Prisco, governatore della provincia d'Africa, mentre sostenne la difesa di due governatori accusati di appropriazione indebita nel 103 d.c.

Poi fu accusatore nel processo contro Giulio Classico, governatore della Bitinia, imputato di concussione, mentre invece difese Giulio Basso, altro governatore della Bitinia, e il di lui avvocato, Vareno Rufo, anch'essi accusati di concussione.

Sotto Traiano, con la sua difesa e la sua arringa riabilitò Elvidio Prisco, mandato a morte da Domiziano nel 93, per aver scritto una satira sull'imperatore.



IL MATRIMONIO

Plinio si sposò tre volte e sempre per vedovanza. Perduta quando era ancora molto giovane la prima moglie, sposò la figlia della ricca Pompeia Celerina, proprietaria terriera dell'Italia centrale. E' stata ritrovata anche una lettera che Plinio indirizzò alla suocera Celerina:

"Quali tesori possiedi tra le ville a Ocriculum, a Narnia, a Carsola e a Perusia! Anche un luogo di balneazione a Narnia! Le mie lettere - per ora non c'è necessità per voi di scrivere - ti hanno dimostrato quanto io sia soddisfatto, o almeno la breve lettera che ti ho scritto tempo fa. Il fatto è che parte della proprietà è mia e parte è tua; l'unica differenza è che ho più completamente e attentamente fatto curare dai tuoi servi la tua che non la mia proprietà. 

Sarà probabilmente la stessa cosa se ​​vieni a soggiornare in una delle mie ville. Spero che, in primo luogo, si possa ottenere lo stesso piacere di ciò che appartiene a me come io ne ho da ciò che appartiene a te, e secondariamente che i miei lavoranti possano essere risvegliati un po' al senso del dovere. Li trovo piuttosto negligenti e carenti nel loro comportamento. Ma questo è il loro modo; se hanno un padrone premuroso, la loro paura verso di lui cala quando arrivano a conoscerlo, mentre un nuovo volto acuisce la loro attenzione e studiano per ottenere la buona opinione del loro padrone, non cercando tanto i suoi bisogni quanto quelli dei suoi ospiti. Stai bene".

Rimasto nuovamente vedovo verso il 97, dopo sei anni sposò Calpurnia, molto più giovane di lui e nipote di Calpurnio Fabato, un ricco cittadino di Como.

Gli storici raccontano che l’unione tra Plinio il Giovane e sua moglie Carpunia fosse un'unione felice infatti quando Plinio doveva partire la moglie ne sentiva tanto la mancanza che lo citava in ogni sua opera. Allo stesso modo Plinio sentiva la mancanza della moglie quando questa era lontano per cui rileggeva tutte le lettere che quest’ultima gli aveva scritto. Alcuni però smentiscano questi ipotesi e dicono che la loro unione era tutt’altro che soddisfacente. Infatti i due avevano un rapporto freddo e distaccato, Calpunia secondo alcuni amava soprattutto i propri scritti mentre Plinio cercava sempre la solitudine. Il loro matrimonio era perciò legato dal codice delle buone educazione anche se i due non dormivano neanche nella stessa camera, ma in camere separate. Queste ultime critiche però riguardarono solo autori cristiani, tesi spesso a mettere in cattiva luce gli autori pagani. Nulla peraltro lascia supporre che il matrimonio tra i due non fosse felice.

Da nessuna delle tre mogli Plinio ebbe figli, e ciò nonostante l'amico Traiano gli accordò, nel 98, lo ius trium liberorum (le agevolazioni nella carriera militare a cui avevano diritto gli uomini che avevano almeno tre figli).



LA CARRIERA

Il suo primo incarico pubblico fu quello di decemvir stlitibus iudicandis, ossia fu uno dei dieci presidenti del tribunale dei centumviri, che giudicavano in prima istanza cause la cui importanza le destinava al giudizio di altri tribunali.
Successivamente, iniziato il 13 settembre 81 il servizio militare, fu tribuno della III Legione gallica stanziata in Siria.

TRAIANO
Qui frequentò le lezioni di due filosofi stoici dei quali divenne amico e ritrovò poi a Roma, Eufrate e Artemidoro, genero di Musonio, che egli aiutò durante le persecuzioni di Domiziano.

Terminato il servizio militare, durante il quale gli furono affidati soprattutto compiti amministrativi, nel suo viaggio di ritorno a Roma fu costretto a fermarsi nell'isola greca di Icaria e vi compose «versi elegiaci in latino su quel mare e quell'isola ».

A Roma fu nominato Sevir equitum romanorum. I seviri avevano l'onere di offrire al popolo i relativi giochi sevirali, ma tale carica puramente onorifica e dispendiosa era indispensabile per una onorata carriera pubblica.
Intorno all'89 iniziò a percorrere tutte le tappe del cursus honorum, elencate nell'epigrafe commemorativa delle Terme di Como da lui donate per testamento. 
- Sotto Domiziano fu questore,
- alla fine dell'incarico divenne senatore, 
- poi fu tribuno della plebe, 
- pretore nel 93, 
- poi prefetto dell'erario militare,
- nel 98, sotto Traiano, fu prefetto dell'erario di Saturno, ossia soprintendente del tesoro, 
- poi presidente del collegio dei centumviri, 
- nel 100 divenne console suffetto per due o tre mesi, 
- poi augure,
- poi curatore dell'alveo del Tevere e delle rive delle cloache di Roma (curator alvei Tiberis et cloacarum Urbis), 
- nel 105 fu governatore della provincia del Ponto e della Bitinia come legatus Augusti pro praetore, una carica che gli fu confermata dal Senato essendo quella una provincia senatoria.
Era ancora governatore quando morì, nel 113 o 114, probabilmente in Bitinia, o almeno le sue lettere finiscono qui.



LE OPERE


L'epistolario

L'opera maggiore a noi pervenuta di Plinio il Giovane sono gli "Epistularum libri", una raccolta di epistole (247 suddivise in nove libri più 121 aggiunte in seguito in un decimo libro) scritte fra il 96 e il 109. Fra gli studiosi si è a lungo discusso sull'origine e sullo scopo di queste epistole; oggi si tende a credere che la maggior parte delle lettere non siano un artificio letterario, ma che si tratti di lettere realmente spedite, frutto di un carteggio con amici e colleghi, talvolta scritte per occasioni particolari (come notizie, raccomandazioni, ecc.), altre volte per ragioni sociali (inviti, scambi di opinione, etc.), oppure per ragioni descrittive (celeberrima è la cronaca dell'eruzione del Vesuvio del 79).

L'opera è dedicata all'amico Setticio Claro:
« Mi hai spesso esortato a raccogliere e pubblicare le lettere che io abbia scritto con un po' più di cura. Le ho raccolte non in ordine cronologico – infatti non stavo scrivendo un testo di storia – ma secondo che ciascuna mi sia capitata in mano. »

Plinio afferma di aver adempiuto alle richieste dell'amico che lo esortava a raccogliere le lettere scritte paulo curatius, con maggior cura. Si tratta dunque di un epistolario letterario, scritto nel preciso intento di pubblicarlo. Le epistole non saranno raccolte cronologicamente bensì ut quaeque in manus venerat, così come mi capitano sotto mano.

Oltre ai primi nove libri, ne esiste un altro che contiene il carteggio che Plinio tenne con l'imperatore Traiano durante il governo della Bitinia. Questa raccolta fu pubblicata postuma, forse per iniziativa di qualche amico di Plinio per proporre un manuale d'esempio di buona amministrazione. Il libro, che contiene anche le risposte dell'imperatore, è in ogni caso un documento eccezionale per la conoscenza dell'amministrazione provinciale in età imperiale. Ma pure per conoscere il carattere dei due interlocutori che hanno entrambi stima dell'altro.
In una celebre lettera a Tito (Epistulae X, 96) Plinio spiega che fino ad allora, non conoscendo la prassi in quei casi, egli ha adottato la politica di condannare chi, denunciato come cristiano, avesse persistito nel professare per tre volte la propria fede sotto la minaccia della pena capitale, se non altro per punire una simile manifestazione di inflexibilis obstinatio, ma ora chiedeva su come intervenire verso i molti nomi accusati da un libello anonimo. In risposta Traiano lo inviterà a procedere in caso di denunce circostanziate (ignorando le delazioni anonime) e di prove certe.

La risposta di Traiano (Epistulae X, 97) è non ricercare i cristiani e di non tenere conto delle denunce anonime, perchè ritenute indegne del suo amore per la giustizia, ma di punirli se, portati di fronte al tribunale, non abiuravano la loro religione.

Tertulliano si indigna dell'atteggiamento ossequiente di Plinio mentre considera contraddittoria e ridicola la risoluzione di Traiano in quanto non cerca i cristiani come fossero innocenti, ma li condanna se non abiurano. (Apologeticum II, 8) "O sententiam necessitate confusam! Negat inquirendos ut innocentes, et mandat puniendos ut nocentes.  Si damnas, cur non et inquiris? si non inquiris, cur non et absolvis? " che mise in luce la contraddizione insita nel fatto che i cristiani non dovevano essere ricercati, e quindi erano da ritenere innocenti, eppure, se denunciati e condotti personalmente in tribunale e se non apostati, dovevano essere condannati come colpevoli.
Ma Tertulliano non tenne conto che i cristiani non usarono la stessa cortesia ai pagani, che non poterono ottenere libertà di culto purchè onorassero Gesù, cosa che avrebbero fatto senza obiezioni, perchè non dovevano esistere altri Dei all'infuori di quello cristiano, pena la confisca dei beni alla famiglia e la morte del pagano.

Plinio non prese le difese dei Cristiani perchè onorare l'imperatore come divino era rispettare l'autorità dell'Impero, Plinio trova gli atti compiuti dai cristiani del tutto eccentrici se non folli e non aveva tutti torti. Adorare un Dio che esige il martirio dei suoi fedeli è adorare un Dio crudele e sadico e questo i razionalissimi romani non potevano concepirlo.
Da queste lettere emerge che i civilissimi romani tenevano regolari processi, oltre alle comuni pratiche di polizia (in questo caso, contro i Cristiani). Dato che Plinio era il propretore, spettava a lui far eseguire le procedure. Plinio tende a non infierire e chiede consiglio all'imperatore il quale a sua volta si mostra non troppo duro. Non saranno così i cristiani quando costringeranno con la forza intere generazioni a convertirsi, ricorrendo a punizioni gravissime in mancanza di ciò come la crocefissione di 30000 greci seguaci della Diana di Efeso. Ma questo sui libri di storia non c'è.
Riporta inoltre delle dichiarazioni dei cristiani, accusati da delatori, come quella di incontrarsi in un giorno stabilito-la domenica- prima dell'alba, di cantare inni a Cristo, quindi di dividersi, per incontrarsi in seguito per mangiare del cibo e giurare di non commettere alcun tipo di delitto.

Plinio non è spietato, perchè sa che i veri cristiani, quelli davvero pericolosi, non rinnegano la loro fede, e quindi lascia liberi coloro che, per paura, sono pronti a farlo. In effetti sono sempre i fanatici q fare guerre e persecuzioni in nome della religione.


Lettera di Plinio a Traiano, Epistularum, X, 96

"E’ per me un dovere, o signore, deferire a te tutte le questioni in merito alle quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere la mia titubanza o istruire la mia incompetenza? Non ho mai preso parte ad
istruttorie a carico dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino a qual punto si sia soliti punire o
inquisire.

Ho anche assai dubitato se si debba tener conto di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli
della più tenera età vadano trattati diversamente dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda grazia in seguito al pentimento, o se a colui che sia stato comunque cristiano non giovi affatto l’aver cessato di esserlo; se vada punito il nome di per se stesso, pur se esente da colpe, oppure le colpe connesse al nome.

Nel frattempo, con coloro che mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani. Se confessavano, li interrogavo una seconda e una terza volta, minacciandoli di pena capitale; quelli che perseveravano, li ho mandati a morte. Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero, dovesse essere punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri affetti dalla medesima follia, i quali, poiché erano cittadini romani, ordinai che fossero rimandati a Roma.

Ben presto, poiché si accrebbero le imputazioni, come avviene di solito per il fatto stesso di trattare tali questioni, mi capitarono innanzi diversi casi. Venne messo in circolazione un libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro che negavano di essere cristiani, o di esserlo stati, ritenni di doverli rimettere in libertà, quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo, invocavano gli dei e veneravano la tua immagine, che a questo scopo avevo fatto portare assieme ai simulacri dei numi, e quando imprecavano contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani.

Altri, denunciati da un delatore, dissero di essere cristiani, ma subito dopo lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti costoro venerarono la tua immagine e i simulacri degli dei, e imprecarono contro Cristo.
Affermavano inoltre che tutta la loro colpa o errore consisteva nell’esser soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a cori alterni un inno a Cristo come se fosse un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare qualche delitto, ma a non commettere né furti, né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola data e a non rifiutare la restituzione di un deposito, qualora ne fossero richiesti.

Fatto ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono di fare dopo il mio editto nel quale, secondo le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre, per sapere quale sfondo di verità ci fosse, ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato null’altro al di fuori di una superstizione balorda e smodata.

Perciò, differita l’istruttoria, mi sono affrettato a richiedere il tuo parere. Mi parve infatti cosa degna di consultazione, soprattutto per il numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo; molte persone di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi, vengono trascinati, e ancora lo saranno, in questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche i borghi e le campagne sono pervase dal contagio di questa superstizione; credo però che possa esser ancora fermata e riportata nella norma."


Risposta di Traiano a Plinio, Epistularum, X, 97

"Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido.

Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi."


Plinio IL Giovane, libro v, lettera 8, Capitone.

Mi consigli di scrivere la storia: non sei l'unico: molti altri mi hanno dato questo consiglio prima di te, ed è forte per il mio gusto. Non è che abbia la certezza di riuscire in questo modo, sarebbe molto presuntuoso prometterlo senza averlo provato. Ma non vedo nulla di più glorioso di quello di assicurare l'immortalità di coloro che meritano di vivere per sempre e di offuscare i nomi degli altri con i suoi.

Per me, nulla mi tocca tanto quanto un nome famoso; nulla mi sembra più degno di un uomo, specialmente di colui la cui coscienza è tranquilla, e che non ha paura dei giudizi dei posteri. Penso, quindi, notte e giorno, in che modo anche io potrei levarmi da terra: è sufficiente per me: per prendere il mio volo verso il cielo è quello che non appartiene ai miei desideri.

Si però... ma no: voglio accontentarmi di ciò che promette il genere storico; di ciò che promette quasi da solo: perché l'arringa e la poesia hanno poco fascino, meno di altre eccellenze: la storia piatta in qualunque modo sia scritta. Gli uomini sono naturalmente curiosi; la narrazione più semplice dei fatti ha fascino per loro, fino a quando non si divertono con le notizie più piccole e le storie più assurde.

Per me, un esempio domestico mi invita ancora a questo tipo di composizione. Mio zio materno, che è anche mio padre di adozione, ha scritto la storia con una religiosa fedele, e i saggi mi insegnano che niente è più bello che seguire le orme dei suoi antenati, quando hanno preso una buona strada. Chi mi sta fermando? Ecco quello che è. Ho sostenuto molte grandi cause.

Anche se mi prometto pochissima gloria, mi propongo di ritoccarli, perché, rifiutando loro quest'ultima cura, mi espongo a portare con me un lavoro che tanto ha a che fare con me; perché riguardo ai posteri, nulla che non è finito, è mai cominciato.


ALTRE OPERE

In uno scambio epistolare con Tacito, Plinio confessa di (Epistulae I, 20) di preferire l'eloquenza ciceroniana ampia e tonante al discorso conciso e secco dell'amico Tacito. In effetti l'eloquenza di Plinio è un po' ampollosa e autocompiacente, anche se di buon stile. Della sua oratoria ci resta solo il Panegirico di Traiano venne pubblicato nel X libro: era il discorso che Plinio pronunciò per ringraziare Traiano quando fu eletto console, discorso poi riveduto, corretto e ampliato, tanto da occupare, da solo, quasi la metà del X libro delle epistole. 
Questa è l'unica delle orazioni pervenuteci di Plinio il Giovane: in essa, Plinio raccomanda ai futuri imperatori di seguire l'esempio di Traiano per agire in concordia con il Senato e il ceto equestre per il bene dell'impero. Come comandante ne esalta generosità, l'affabilità e la modestia.Traiano infatti viene da Plinio definito "optimus princeps" poiché ad esempio reintrodusse la libertà di parola e di pensiero, e la dignitas e la securitas alle magistrature e al senato che al contrario Domiziano odiava.
Plinio fu, probabilmente, anche un poeta, ma la sua collezione di liriche non è arrivata sino a noi, ad eccezione di due frammenti pubblicati fra le epistole, forse poesie scritte in età giovanile.


I codici delle opere

- Del Panegirico esisteva a Magonza un codice scoperto da Giovanni Aurispa nel 1433 e poi scomparso. Da quello furono tratti i codici Upsaliensie ed Harleian 2480.
- Dell'epistolario esiste il codice Laurenziano, del X secolo, conservato nella Biblioteca Nazionale Marciana e comprendente cento lettere (I-V, 6);
- Ne esisteva anche un codice medievale conservato nella Capitolare di Verona e scomparso verso il XVI secolo, da cui furono tratte diverse copie comprendenti i libri I-VII e IX;
- Da un codice ignoto il tipografo Giovanni Schurener stampò a Roma nel 1474 i libri I-IX;
- Esisteva a Parigi un codice scoperto nel 1500 da fra' Giocondo da Verona, scomparso dopo essere stato utilizzato, nel 1508, per l'edizione completa (i nove libri e le lettere a Traiano) dell'epistolario di Plinio.



LE VILLE DI PLINIUS


Villa Laurentina

Plinio nelle Epistole (Epistulae II, 17 C. Pinio Gallo suo) esalta la bellezza della sua villa Laurentina sul litorale romano, situata nei pressi dell'antica via Severiana. Vi furono varie interpretazioni e scavi, specie nel 1713, per volere del Cavaliere Marcello Sacchetti, le quali portarono alla luce dei  resti architettonici che però non corrispondevano alla descrizione di Plinio, sia quelle volute sulle proprie tenute dai Chigi, nel luogo detto La Palombara.

Per molto tempo fu accreditata l'ipotesi che la villa di Plinio fosse quella indicata a La Palombara, grazie anche al ritrovamento nel 1874 del Vicus Augustanus Laurentinum, dal quale la villa di Plinio doveva distare solo un'altra villa, e alla fama dell'archeologo Lanciani che sosteneva l'identificazione con la villa della Palombara. Nuove prove a favore del sito si ebbero con l'apertura al pubblico della Pineta di Castel Fusano e con nuove indagini archeologiche del 1934.

Nel 1984, l'architetto Eugenia Salza Prina Ricotti spostò la ricerca della villa pliniana alla Villa Magna a Grotte di Piastra, nella Tenuta di Castel Porziano, che oggi resta l'ipotesi più accreditata.


Villa in Tuscis

In un'epistola scritta ad Apollinare si descrive l'ambiente circostante un'altra villa che possedeva in "Tuscis" (Valtiberina), individuata nell'area di Colle Plinio nel comune di San Giustino (all'epoca nel municipio romano di Città di Castello), che sembra essere stata la preferita di Plinio il Giovane.

« L'aspetto del paese è bellissimo: immagina un immenso anfiteatro quale soltanto la natura può crearlo. Benché vi sia abbondanza di acqua non vi sono paludi perché la terra in pendio e non assorbito... il terreno si innalza così dolcemente e con una pendenza quasi insensibile, che, mentre ti sembra di non essere salito sei già in cima. Alle spalle hai l'Appennino... Conosci ora perché io preferisco la mia villa in Tuscis a quella di Tuscolo, Tivoli e Preneste »

La Soprintendenza ha avviato scavi nel 1975 e sono venuti alla luce un impianto termale, porticati e cantine che hanno colpito per le notevoli dimensioni della villa.



I RAPPORTI CON PLINIUS SENIOR

Plinio il Giovane sembra avere una sconfinata ammirazione per lo zio, che rappresenta come un uomo molto tenace ma sensibile e altruista, dedito anima e corpo allo studio ed alla lettura, intento ad osservare i fenomeni naturali ed a prendere continuamente appunti, dedicando poco tempo al sonno ed alle distrazioni:
(libro o lettera 5, Macer):

 "Sono affascinato dal vedere che voi leggete attentamente i libri di mio zio, che voi vogliate leggerli tutti e possederli tutti. Io non mi contenterò di indicarveli, ma ne contrassegnerò l'ordine in cui furono eseguiti: si tratta di una conoscenza non priva di piacere per chi si prende cura per la letteratura. Come comandante della cavalleria, ha composto un libro sull'arte del lancio del giavellotto da cavallo. Ha scritto poi due libri sulla vita di Pomponio Secondo, che aveva molta amicizia per lui: ha pagato questo tributo di riconoscenza in sua memoria. Ci ha lasciato inoltre una ventina di libri sulla guerra della Germania, raccogliendo tutte le battaglie che abbiamo sostenuto contro i popoli di questo paese. 
C'è un sogno che lo spinse a intraprendere questo lavoro: serviva in questa provincia, quando gli apparve nel sonno Druso Nerone, Conquistatore della Germania, dove aveva trovato la morte. Questo principe gli raccomandò di salvare il suo nome dall'oblio. Abbiamo ancora di lui tre libri, intitolati Lo Studioso, diviso in sei volumi: egli prende l'oratore dalla culla e lo porta fino alla più alta perfezione. 
Otto libri sulle difficoltà della grammatica: composti negli ultimi anni della tirannia dell'impero Neroniano pericoloso in qualsiasi tipo di studio. Trentuno libri, per proseguire la storia che Auhdius Bassus aveva interrotto. Trentasette libri sulla Storia Naturale: Questo libro è un tempo di erudizione infinita quasi simile alla natura stessa. 
Non si può concepire come un uomo potesse scrivere tanti volumi, e trattare tanti differenti argomenti, i più spinosi e difficili: vi sarà più chiaro quando saprete che era solo al LVI anno quando morì, e che la sua vita passava nelle occupazioni e negli imbarazzi che danno i grandi impieghi e il favore dei principi, ma aveva uno spirito ardente, uno zelo instancabile, un estrema vigilanza.
Egli osservò attentamente i fenomeni dei vulcani, non per trarre presagi dall'osservazione delle stelle, ma per farne un libro: iniziava a studiare di notte; in inverno, alla VII ora, talvolta all'VIII, ma spesso alla VI. 
Non era possibile concedere di meno al sonno, che a volte lo prendeva accasciandolo sui libri.
All'alba egli si recava presso l'imperatore Vespasiano, che faceva un buon uso delle notti. Qui svolgeva le funzioni che gli erano state affidate. Svolti i suoi affari, tornava a casa e nel suo tempo rimanente si dedicava allo studio. 
Dopo un pasto, sempre molto semplice e leggero, secondo il costume dei nostri padri, per prendersi qualche momento di svago, si poneva sotto il sole leggendo un libro, prendendo appunti perché non ha mai letto nulla senza estrarre qualcosa, e diceva spesso che non esisteva un libro così brutto da cui non si potesse imparare. 
Dopo essersi ritirato dal sole, faceva in genere un bagno d'acqua fredda. poi mangiava qualcosa e dormiva qualche istante. Infine, come se un nuovo giorno fosse iniziato, riprendeva lo studio fino a cena. Mentre cenava, nuova lettura, nuovi estratti, ma di corsa. 
Ricordo che un giorno, un suo amico interruppe il lettore, che aveva pronunciato male qualche parola e gliela aveva fatte ripetere. 
- Ma avete capito? - disse mio zio. 
- Senza dubbio - rispose il suo amico. 
- E perché allora - gli rispose - me lo fate ripetere?  La vostra interruzione ci costa più di dieci righe. Vedete voi se non ci sia un modo migliore di amministrare il tempo -
Egli lasciava il tavolo prima di notte in inverno, tra la prima e seconda ora, con un silenzio forzato. E tutto questo nel mezzo delle occupazioni e del trambusto della città. Nei suoi ritiri, egli non aveva altro tempo che il bagno per interrompere il lavoro: voglio dire il tempo in silenzio nell'acqua perché mentre si faceva asciugare e massaggiare non mancava o leggere o dettare. 
Nei suoi viaggi, come si sottraeva da qualsiasi altra cura, si dedicava allo studio, e aveva con sè il suo libro, le sue tavolette, e il suo segretario, al quale faceva infilare i guanti d'inverno in modo che il rigore della stagione non potesse rubare un momento al lavoro. E' per questo motivo che non è mai stato in poltrona a Roma. Ricordo che un giorno mi portò invece che a passeggiare, dentro la stanza  - Si potrebbe, disse, mettere quelle ore in profitto, per aver perso il tempo che non abbiamo dedicato alla scienza. E ' per questa straordinaria applicazione che ha compiuto tante opere, e mi ha lasciato 160 volumi di suoi estratti, scritti sulla pagina e sul retro, in caratteri molto piccoli, il che rende la collezione ancora più voluminosa di quanto sembri. Ricordo spesso che quando era amministratore in Spagna,  egli non aveva ottenuto dalla vendita di Largius Licinio che 400.000 sesterzi e all'epoca quelle memorie non erano così estese. 
Quando si consideri questa lettura immensa, questi libri infiniti che ha composto, non credereste che lui non avesse mai avuto incarichi, nè il favore favore dei principi? Eppure, quando si sa come abbia trascorso il tempo in studio e lavoro, non pensate che avrebbe potuto leggere e scrivere di più? Perché da un lato, quali ostacoli pongono la carica e la Corte agli studi e, dall'altro, cosa non dovremmo aspettarci da una si costante applicazione? 
Inoltre, non posso fare a meno di scoppiare a ridere quando si parla della mia passione per lo studio, io che, al suo confronto, sono il più pigro degli uomini: mentre io do allo studio tutto quello che i doveri pubblici e quelli dell'amicizia mi lasciano di tempo. Eh! tra quegli stessi che dedicano la loro vita alla letteratura, qual'è quello che potrebbe sostenerne il paragone, e che non sembrerebbero, paragonati a lui, passare tutti i suoi giorni nel sonno e nella mollezza? 
Mi accorgo che l'argomento mi ha portato più lontano di quello che mi ero proposto, volevo solo dirvi quello che volevate sapere, quali opere mio zio abbia composto. Mi assicuro pertanto che  ciò che chiedete non vi faccia gustare con  meno piacere le opere stesse: ciò potrebbe non solo impegnarvi ancora di leggerli, ma anche di accendervi di generosa emulazione, e di un desiderio nobile di imitare l'autore. 
Addio. ".

Il racconto della sua morte, contenuto in una lettera del nipote Plinio il Giovane, ha contribuito all'immagine di Plinio come protomartire della scienza sperimentale (definizione di Italo Calvino), anche se, sempre secondo il resoconto del nipote, si espose al pericolo anche e soprattutto per recare soccorso ad alcuni cittadini in fuga dall'eruzione. Il presunto teschio di Plinio il Vecchio è conservato nella sala Flajani del Museo storico nazionale dell'arte sanitaria a Roma.

Il resoconto delle sue ultime ore è riferito in una lettera interessante che Plinio il giovane indirizza, 27 anni dopo l'accaduto, a Tacito (Ep., VI, 16). Invia anche, ad un altro corrispondente, una relazione sugli scritti ed il modo di vita di suo zio (III, 5):
« Iniziava a lavorare ben prima dell'alba… Non leggeva nulla senza fare riassunti; diceva anche che non esisteva nessun libro tanto inutile, cioè da non contenere qualche valore. Al paese, solo l'ora del bagno lo asteneva da studiare. In viaggio, era privo d'altri obblighi, si dedicava soltanto allo studio. In breve, considerava perso il tempo che non era dedicato allo studio. »
(Plinio il giovane)

L'ERUZIONE DEL VESUVIO


I RAPPORTI CON TITO VESPASIANO:

Caio Plinio Secondo Al Suo Amico Tito Vespasiano:

"Questo Trattato sulla Storia Naturale, un nuovo lavoro della letteratura romana, che ho giusto completato, mi sono preso la libertà di dedicarlo a te, il più grazioso imperatore, un nome particolarmente adatto a te, mentre, riguardo alla sua età, il titolo di "grande" è più appropriato a tuo padre".


"Fintanto Che Tu Non Disprezzerai Abbastanza Le Sciocchezze Che Scrivo"

"Se mi è concesso di scudarmi sotto l'esempio di Catullo, il mio connazionale, un termine militare, che tu comprenderai bene. Per lui, come si sa, quando i suoi tovaglioli erano stati cambiati, si espresse un po 'duramente, dalla sua ansia di mostrare la sua amicizia per i suoi cari e piccoli Veranio e Fabius.
Allo stesso tempo, questa mia inopportunità può farvi lamentare, se l'avessi fatto in un'altra mia epistola inoltrata, ma verrà registrato e lasciare che tutto il mondo sappia, con quello gentilezza tu eserciti la dignità imperiale.

Tu, che hai avuto l'onore di un trionfo, e della censura, che sei stato sei volte console, e che hai condiviso un tribunato, e, ciò che è ancora più onorevole, mentre voi esercitavate in concomitanza con il Padre tuo, hai anche presieduto l'ordine equestre, e sei stato il Prefetto dei pretoriani: tutto ciò che hai fatto per il servizio della Repubblica, e, allo stesso tempo, mi hai considerato come un compagno d'armi e un compagno di bravate.
L'estensione della tua ricchezza non ha né prodotto alcun cambiamento in te, se non che ti ha dato il potere di fare del bene al massimo dei tuoi desideri. E mentre tutte queste circostanze aumentano la venerazione che le altre persone provano per te, per quanto riguarda me stesso, mi hanno fatto così audace, come a voler diventare più familiare.

È necessario, quindi, porre questo sul tuo conto, e biasimare te stesso per qualsiasi colpa di questo genere che io possa commettere. Ma, anche se ho messo da parte il mio rossore, non ho ottenuto il mio scopo, perché tu ancora mi meravigli, e mi tengo a distanza, dalla maestosità della tua comprensione. In nessuno la forza di eloquenza e di oratoria tribunizia produce un fuoco più potente!

Con quale linguaggio incandescente hai decantato le lodi del tuo Padre! Come caramente ami tuo fratello! Quanto è mirabile il tuo talento per la poesia! Che fertilità da genio possiedi, in modo da consentirti di imitare tuo fratello!

Ma chi è lì che ha il coraggio di formare una stima su questi punti, se deve essere giudicato da voi, e, più in particolare, se si sono sfidati a farlo? Per il caso di coloro che si limitano a pubblicare le loro opere è molto diversa da quella di coloro che dedicano espressamente a voi. Nel primo caso potrei dire, l'imperatore! perché hai letto queste cose?

Sono scritti solo per la gente comune, per gli agricoltori o meccanici, o per coloro che hanno altro da fare; perché disturbarti per loro? In effetti, quando ho intrapreso questo lavoro, non mi aspettavo che mi avreste valutato, ho considerato la tua situazione troppo elevata per farti scendere ad un tale ufficio. Inoltre, possediamo il diritto di rifiutare apertamente l'opinione di uomini di apprendimento. M. Tullio se stesso, il cui genio è al di là di tutta la concorrenza, utilizza questo privilegio, e, notevole per quanto possa apparire, impiega un avvocato in sua difesa:
"Io non scrivo per la gente molto istruita, io non voglio che i miei lavori siano letti da Manio Persio, ma da Junius Congus."
E se Lucilio, che per primo ha introdotto lo stile satirico, applicato una tale osservazione a se stesso, e se Cicerone ha pensato proprio di prendere in prestito, e più in particolare nel suo trattato "De Republica", quanta ragione ho io a fare così, che ho tale giudice per difendermi! E da questa dedizione mi sono privato del beneficio di sfida, perché è una cosa molto diversa se ​​una persona ha un giudice gli ha dato a sorte, o se egli sceglie volontariamente uno, e siamo sempre fare di più la preparazione per un ospite invitato, rispetto a quello che viene fornito in modo imprevisto.

Quando i candidati per l'ufficio, durante il calore della tela, depositato il bene nelle mani di Catone, che si è opposto alla corruzione, gioendo come ha fatto nel suo essere stato respinto da ciò che considerava onori sciocchi, essi professavano nel fare questo per rispetto alla sua integrità, la gloria più grande che un uomo possa raggiungere.
Fu in questa occasione che Cicerone pronunciò la nobile orazione, "Quanto sei felice, Marco Porcio, di cui nessuno osa chiedere cosa è disonorevole!"

Quando L. Scipione Asiatico fece appello ai tribuni, tra cui c'era Gracco, espresse piena fiducia di dover ottenere una assoluzione, anche da un giudice che era il suo nemico. Ne segue, che colui che nomina il suo giudice deve assolutamente presentare alla decisione, questa scelta è quindi definito un appello. So bene, che, collocato come siete nella postazione più alta, e dotato della più splendida eloquenza e la mente più compiuta, anche coloro che vengono a rendere omaggio a voi, lo fanno con una specie di venerazione: su questo conto che dovresti stare attento che ciò che è dedicato a te dovrebbe essere degno di te.

Ma la gente di campagna, e, anzi, alcune intere nazioni offrono il latte agli Dei, e quelli che non possono procurarsi incenso lo sostituiscono con torte salate, per gli Dei non insoddisfatti quando sono adorati da tutti al meglio delle sue capacità. Ma la mia temerarietà apparirà la maggiore dalla considerazione, che questi volumi, che dedico a te, sono di tale importanza inferiore. Per essi non ammettono la visualizzazione di genio, né, del resto, è una miniera di primissimo ordine, ammettono di non escursioni, né orazioni, né discussioni, né di qualsiasi meravigliose avventure, né qualsiasi varietà di transazioni, né, da l'aridità della materia, di qualcosa di particolarmente piacevole nella narrazione, o piacevole per il lettore.

La natura delle cose, e la vita come esiste in realtà, sono descritti in loro, e spesso la più bassa reparto di essa, in modo che, in moltissimi casi, sono costretto a usare maleducato e stranieri, o anche termini barbari, e questi spesso richiedono di essere introdotto da una sorta di prefazione. E, oltre a questo, la mia strada non è una pista battuta, né una che la mente è molto più disposto a percorrere. Non c'è nessuno di noi che abbia mai tentato di farlo, né vi è alcun individuo uno tra i greci che ha trattato di tutti gli argomenti.

La maggior parte di noi non cercano niente se non il divertimento nei nostri studi, mentre altri sono appassionati di argomenti di eccessiva sottigliezza, e avvolti nell'oscurità. Il mio scopo è quello di trattare di tutte quelle cose che i Greci includono nell'Encyclopædia, che, tuttavia, non sono generalmente noti o sono resi dubbi dai nostri ingegnosi concetti.
E ci sono altre questioni che molti scrittori hanno dato così tanto dettagliato da farceli abbastanza detestare. E ', infatti, compito non facile innovare ciò che è vecchio, e dare autorità a ciò che è nuovo; luminosità a ciò che è diventato appannato, e la luce a ciò che è oscuro; per rendere ciò che è disprezzato accettabile, e ciò che è dubbio degno della nostra fiducia; per dare a tutti un modo naturale, e ad ognuno di essi la sua peculiare natura.

E ' sufficientemente onorevole e glorioso essere stato reso disponibile a fare il tentativo, anche se potrebbe rivelarsi infruttuoso. E, in effetti penso che gli studi di coloro che sono più particolarmente degni della nostra materia, che, dopo aver superato tutte le difficoltà, preferiscono l'ufficio utile di aiutare gli altri per la mera gratificazione di dare piacere; e questo è quello che ho già fatto in alcuni dei miei precedenti lavori. Confesso che mi sorprende che T. Livio , un autore così tanto celebrato, in uno dei libri della storia della città dalle origini, dovesse iniziare con questa osservazione, " ora ho ottenuto una reputazione sufficiente, così che potrei mettere fine al mio lavoro, non chiedendo la mia mente inquieta di essere sostenuta dal lavoro. "
Certamente egli avrebbe dovuto composto questo lavoro non per la propria gloria, ma per quella del buon nome romano, e le persone che erano i conquistatori di tutte le altre nazioni. Sarebbe stato più meritorio di aver perseverato nel suo lavoro dal suo amore per il lavoro, che dalla gratificazione che lui stesso offriva, e di averlo compiuto, non per se stesso, ma per il popolo romano.

Ho incluso in trentasei libri di 20.000 soggetti , tutti degni di attenzione, (perché, come dice Domizio Piso, dobbiamo fare non soltanto libri, ma preziose collezioni), acquisita dalla lettura di circa 2000 volumi, di cui alcuni solo sono nelle mani dello studioso, a causa della oscurità dei soggetti, procurati dalla attenta lettura di 100 autori selezionati; e a queste cose ho compiuto notevoli altre aggiunte, che non erano conosciute ai miei predecessori, o che sono state recentemente scoperte. 
Né posso dubitare che rimangono ancora molte cose che ho omesso; perché io sono un semplice mortale, e uno che ha molte occupazioni. Sono quindi stato costretto a comporre questo lavoro negli intervalli, anzi durante la notte , in modo che vi accorgerete che non sono stato inattivo anche durante questo periodo. Il giorno dedico a te, porzionando esattamente il mio sonno alla necessità della mia salute, e accontentandomi con questo premio, che mentre stiamo meditando su questi argomenti (secondo il commento di Varrone), stiamo aggiungendo lunghezza della nostra vita; poichè la vita consiste propriamente nell'essere sveglio.

In considerazione di queste circostanze e queste difficoltà, non oserei promettere nulla; ma tu mi hai fatto il servizio più grande nell'avermi permesso di dedicare il mio lavoro a te. Questo non solo non lo sanzione, ma determina il suo valore; le cose sono spesso concepite per essere di grande valore, solo perché sono consacrate nei templi.

Ho dato un resoconto completo di tutta la famiglia: vostro padre, voi stessi e vostro fratello, in una storia dei nostri tempi, a cominciare dove Aufidio Basso conclude. Vi chiederete, Dove si trova? Da tempo è stato completato e accuratamente confermato; ma ho deciso di commettere il carico di esso ai miei eredi, perché non sarei stato sospettato, durante la mia vita, di essere stato indebitamente influenzato da ambizione. In questo modo io conferisco l'obbligo per coloro che occupano la stessa terra che occupo io; e anche sui posteri, che, ne sono consapevole, si contenderanno con me, come ho fatto io con i miei predecessori.

Si può giudicare il mio gusto dal mio aver inserito, all'inizio del mio libro, i nomi degli autori che ho consultato. Io ritengo di essere cortesi e per indicare una modestia genuina, di riconoscere le fonti da cui si è ricavato assistenza, e non agire come la maggior parte di coloro che ho esaminato. Per cui devo informarti, che nel confronto dei vari autori l'uno con l'altro, ho scoperto che alcuni dei più gravi e più recenti scrittori hanno trascritto, parola per parola, da ex opere, senza alcun riconoscimento; non dichiaratamente li rivaleggiare, alla maniera di Virgilio, o con il candore di Cicerone, il quale, nel suo trattato " De Republica ", professa in concomitanza a giudizio con Platone, e nel suo Saggio sul Consolazione per sua figlia, dice che egli segue Crantore, e, nei suoi uffici, Panæcius; volumi, che, come ben sapete, dovrebbe non solo essere sempre nelle nostre mani, ma per essere imparato a memoria.

PLINIO E L'ERUZIONE A POMPEI

Perché è davvero il segno di una mente perversa e un cattivo carattere, a preferire di essere catturati in un furto che restituire quello che abbiamo preso in prestito, soprattutto quando abbiamo acquisito il capitale da interessi usurari.

I greci erano meravigliosamente felici nei loro titoli. Un lavoro hanno chiamato κηρίον, il che significa che era dolce come un favo di miele ; un altro κέραςαμαλθείας, o Cornu copiae, in modo che ci si potrebbe aspettare di ottenere anche una bozza di latte di piccione da esso. Poi hanno i loro fiori, le loro muse, Riviste, Manuali, giardini, immagini e schizzi, tutti titoli per cui un uomo potrebbe essere tentato persino di rinunciare la sua cauzione. Ma quando si entra sulle opere, O voi dei e dee! quanto piene di vuoto! I nostri connazionali più opaco hanno soltanto la loro antichità, o loro contesto, o le loro arti. 

Penso che uno dei più umoristici di loro ha i suoi studi notturni, un termine impiegato da Bibaculus; un nome che ha ampiamente meritato . Varrone , infatti , non è molto dietro di lui, quando chiama una delle sue satire "Un trucco e mezzo", e un altro "Tavole Girevoli". Diodoro fu il primo tra i Greci che hanno messo da parte questa maniera futile e chiamato la sua storia "La Biblioteca". 
Apione, il grammatico, infatti, colui che Tiberio Cesare chiamò il trombettista del mondo, ma sembra piuttosto essere la Campana del banditore, suppone che ognuno a cui egli iscritto qualsiasi lavoro avrebbe quindi acquisito l'immortalità . Non mi pento di non aver dato il mio lavoro un titolo più fantasiosa.

Potendo, tuttavia, sembrare io avverso ai Greci, vorrei essere considerato come quegli inventori delle arti della pittura e della scultura, dei quali troverete un conto in questi volumi, le cui opere, anche se sono così perfetti che non siamo mai soddisfatti ammirandoli, sono iscritti con un titolo temporaneo, ad esempio " Apelle, o Policleto, stava facendo questo "; il che implica che il lavoro è stato solo avviato ed ancora imperfetto, e che l'artista possa trarre beneficio dalle critiche su di esso e modificare qualsiasi parte che sia stato richiesto, se non fosse stato impedito dalla morte.

E ' anche un grande segno della loro modestia, che essi inscrivano le loro opere come se dovessero essere ancora eseguite, e come le avessero ancora in mano al momento della loro morte. Penso che tre opere d'arte che sono iscritte positivamente con le parole " un tale eseguì questo "; di questi darò conto nel posto giusto. In questi casi sembra che l'artista sentisse la soddisfazione più perfetta per il suo lavoro, e quindi, questi pezzi hanno suscitato l'invidia di tutti.

Io, anzi, ammetto, che molto può essere aggiunto alle mie opere; non solo a questa, ma per tutte quelle che ho pubblicato. Con questa ammissione spero di fuggire dalla critica lamentosa, e ho una ragione in più per dire questo, perché ho ​​sentito che ci sono alcuni Stoici e Logici, e anche Epicurei (dai Grammatici mi aspettavo tanto), che sono grandi con qualcosa contro il poco lavoro che ho pubblicato sulla Grammatica; e che hanno portato questi aborti per dieci anni insieme, una gravidanza più lunga di un elefante. Ma so bene, che anche una donna, una volta scrisse contro Teofrasto, un uomo così eminente per la sua eloquenza, che ha ottenuto il suo nome, che significa l'oratore Divino, e che da questa circostanza originò il proverbio di scegliere un albero a cui impiccarsi.

Non posso evitare di citare le parole di Catone il Censore, che sono così pertinenti a questo punto. Risulta da queste, che anche Catone, che ha scritto commentari sulla disciplina militare, e che avevano appreso l'arte militare sotto l'Africano, o piuttosto sotto Annibale (perché non poteva sopportare l'Africano, che, quando era il suo generale, gli aveva portato via il trionfo), che Catone, dico, era aperto agli attacchi di quelli che non avendo ottenuto reputazione per se stessi, danneggiavano i meriti degli altri. E cosa dice nel suo libro?
 "Lo so, che quando avrò pubblicare ciò che ho scritto, ci saranno molti che faranno il possibile a deprezzarmi, e, soprattutto, come sono essi stessi privi di ogni merito, ma lascio che le loro arringhe scivolino via da me. "
Né l'osservazione di Planco fu cattiva, quando Asinio Pollione venne detto stesse preparando un'orazione contro di lui, che doveva essere pubblicato da lui stesso o dai suoi figli, dopo la morte di Planco, in modo che egli potrebbe non essere in grado di rispondere: " Sono solo i fantasmi che combattono con i morti."

Questo dette un tale colpo all'orazione, che a parere dei dotti in generale, nulla è stato mai pensato più scandaloso di questo. Sentirmi, dunque, sicuro contro questi calunniatori vili, un nome elegante composto da Catone, per esprimere la loro disposizione diffamatoria e vile (per quale altro scopo hanno se non disputare e allevare litigi?), Procederò con il mio lavoro progettato.
E poiché il bene pubblico richiede che voi dovreste essere risparmiato il più possibile da tutti i guai, ho sottoposto in questa epistola il contenuto di ciascuna delle seguenti libri, e ho usato i miei migliori sforzi per evitare che siate obbligato a leggerli tutti. E questo, che è stato fatto per il vostro beneficio, servirà anche allo stesso scopo per gli altri, in modo che ognuno possa cercare ciò che vuole, e possa sapere dove trovarlo. Questo è stato già fatto in mezzo a noi da Valerio Sorano, nel suo lavoro che ha intitolato "sui Misteri"


Il I libro è la Prefazione all'Opera, dedicata a Tito Vespasiano Cesare.
Il II libro è sul Mondo, gli Elementi, e i Corpi Celesti.
I libri III, IV, V e VI sono sulla Geografia, in cui è contenuta una parte della situazione dei differenti paesi,  gli abitanti, i mari, città, boschi, montagne, fiumi,  e dimensioni, e le varie tribù, delle quali alcune ancora esistono ed altre sono sparite.   
Il VII è sull'Uomo, e sulle Invenzioni dell'Uomo.
VIII le varie razze degli Animali di Terra.
IX sugli Animali Acquatici.
IL X sulle varie specie di Uccelli.
L'XI sugli Insetti.
Il XII sulle Piante Odorifere.
Il XIII sugli Alberi Esotici.
Il XIV sui Vini.
Il XV sugli Alberi da Frutto.
Il XVI sugli Alberi delle Foreste.
Il XVII sulle Piante che nascono nelle Serre o nei Giardini.
Il XVIII sulla natura dei Frutti e dei Cereali, e sulle conseguenti attività dell'uomo.
Il XIX su Lino, Saggina e Giardinaggio.
Il XX sulle Piante Coltivate per la cucina o per la medicina.
Il XXI sui Fiori e le Piante usati per fare Ghirlande.
Il XXII sulle Ghirlande, e le Medicine estratte dalle Piante.
Il XXIII sulle Medicine estratte dal Vino e dagli Alberi Coltivati.
Il XXIV sulle Medicine estratte dagli Alberi delle Foreste.
Il XXV sulle Medicine estratte dalle Piante Selvatiche.
Il XXVIsulle Nuove Malattie, e i Medicinali estratti, per certe malattie, dalle Piante.
Il XXVII su alcune altre Piante e Medicine.
Il XXVIII sulle Medicine procurate dall'uomo e dai grandi Animali.
Il XXIX sugli Autori Medici, e sulle Medicine dagli altri Animali.
Il XXX sulla Magia, e delle medicine su certe Parti del Corpo.
Il XXXI sulle Medicine dagli Animali Acquatici.
Il XXXII sulle altre proprietà degli animali acquatici.
Il XXXIII su Oro e Argento.
Il XXXIV su Rame e Piombo, e sui lavoratori del Rame.
Il XXXV on Painting, Colours, and Painters.
Il XXXVI su Marmi e Pietre.
Il XXXVII sulle Gemme.


L'ERUZIONE DEL VESUVIO DEL 79 d.c.


PLINIO IL VECCHIO
E' l'eruzione pliniana più famosa, non solo del Vesuvio, ma di tutta la storia della vulcanologia. Essa venne descritta in due lettere di Plinio il Giovane a  Tacito. 

Nell'eruzione, Pompei ed Ercolano furono completamente distrutte e molte altre città furono fortemente danneggiate fra cui Oplonti e Stabia, dove probabilmente morì Plinio il Vecchio all'età di 56 anni.

Diversi anni dopo l'eruzione del 79 d.c. lo storico Tacito, amico intimo di Plinio il Giovane, dovendo scrivere un racconto storico di quegli anni chiese all'amico di fornirgli notizie relative alla morte di suo zio Caio Plinio Secondo (Plinio il Vecchio) comandante della flotta romana di stanza a Miseno, uno dei porti più importanti dell'impero, ed autore della Historia Naturalis, un'enorme enciclopedia di 37 volumi. 

Al tempo dell'eruzione il diciottenne Plinio il Giovane, segretario imperiale di Traiano, viveva con la madre presso lo zio, in quanto orfano di padre. Tacito fu talmente interessato alla prima lettera, che riscrisse a Plinio il Giovane per richiedergli una seconda lettera che lo ragguagliasse sulla sorte sua e di sua madre, dopo la morte dello zio. Le lettere furono scritte quindi su richiesta di Tacito e descrivono i danni subiti da Plinio il Giovane e della morte dello zio Plinio il Vecchio. 

E' probabile però, che lo zio sia morto per cause cardiache e non come descrive Plinio il Giovane.

PLINIO IL GIOVANE
Le lettere descrivono, inoltre il susseguirsi dei fenomeni eruttivi ed i loro effetti quali le scosse sismiche che preludono all'eruzione, la grande colonna di cenere e gas a forma di pino, le ricadute di ceneri e di pomici che seppelliscono gli edifici, gravando sui tetti e ostruendo le vie respiratorie degli abitanti e la totale oscurità.

Secondo le lettere di Plinio il Giovane l'eruzione sarebbe iniziata a mezzogiorno del 24 agosto e terminata intorno alle 6 del pomeriggio del 25. E' da rilevare che a quell'epoca il Vesuvio non era considerato un vulcano attivo e sulle sue pendici sorgevano diverse floridi città.

L'eruzione fu preceduta da una serie di terremoti come testimoniato dalle tracce di lavori di riparazione provvisori effettuati poco prima dell'evento eruttivo e rinvenuti in molte case distrutte dall'eruzione e riportate alla luce dagli scavi archeologici. Il terremoto più grave avvenne nell'anno 62 o 63 d.c. e fu avvertito anche a Napoli e a Nocera, dove si verificarono alcuni danni.



LA MORTE DELLO ZIO PLINIO

Lettera di Plinio il giovane a Tacito sull'eruzione del Vesuvio del 79 d.c.:

"Mi chiedi che io ti esponga la morte di mio zio, per poterla tramandare con una maggiore obiettività ai posteri. Te ne ringrazio, in quanto sono sicuro che, se sarà celebrata da te, la sua morte sarà destinata ad una gloria immortale.

Era a Miseno e teneva direttamente il comando della flotta. Il 24 agosto, verso l'una del pomeriggio, mia madre lo informa che spuntava una nube fuori dell'ordinario sia per grandezza che per aspetto. Egli dopo aver preso un bagno di sole e poi un altro nell'acqua fredda, aveva fatto uno spuntino stando nella sua brandina da lavoro ed attendeva allo studio; si fa portare i sandali e sale in una località che offriva le migliori condizioni per contemplare quel prodigio.

Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna (si seppe poi in seguito che era il Vesuvio): nessun'altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la figura e la forma. Infatti slanciatasi in su come se si sorreggesse su di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare dei rami; credo che il motivo risiedesse nel fatto che, innalzata dal turbine subito dopo l'esplosione e poi privata del suo appoggio quando quello andò esaurendosi, o anche vinta dal suo stesso peso, si dissolveva allargandosi: talora era bianchissima, talora sporca e macchiata, a seconda che aveva trascinato con sé terra o cenere.

Nella sua profonda passione per la scienza, stimò che si trattasse di un fenomeno molto importante e meritevole di essere studiato più da vicino. Ordina che gli si prepari una liburna e mi offre la possibilità di andare con lui se lo desiderassi. Gli risposi che preferivo attendere ai miei studi e, per caso, proprio lui mi aveva assegnato un lavoro da svolgere per iscritto.

Mentre usciva di casa, gli viene consegnata una lettera da parte dì Rettina, moglie di Casco, la quale, terrorizzata dal pericolo incombente (infatti la sua villa era posta lungo la spiaggia della zona minacciata e l'unica via di scampo era rappresentata dalle navi), lo pregava che la strappasse da quel frangente così spaventoso. Egli allora cambia progetto e ciò che aveva incominciato per un interesse scientifico lo affronta per l'impulso della sua eroica coscienza.

Fa uscire in mare delle quadriremi e vi sale egli stesso, per venire in soccorso non solo a Rettina ma a molta gente, poiché quel litorale, in grazia della sua bellezza era fittamente abitato. Si affretta colà donde gli altri fuggono e punta la rotta ed il timone proprio nel cuore del pericolo, così immune dalla paura da dettare e da annotare tutte le evoluzioni e tutte le configurazioni di quel cataclisma, come riusciva a coglierle successivamente con lo sguardo.

Ormai, quanto più si avvicinavano, la cenere cadeva sulle navi sempre più calda e più densa, vi cadevano ormai anche pomici e pietre nere, corrose e spezzate dal fuoco, ormai si era creato un bassofondo improvviso ed una frana della montagna impediva di accostarsi al litorale. Dopo una breve esitazione se dovesse ripiegare all'indietro, al pilota che gli suggeriva quest'alternativa tosto replicò: «La fortuna aiuta i prodi; dirigiti sulla dimora di Pomponiano".

Questi si trovava a Stabia, dalla parte opposta del golfo (giacché il mare si inoltra nella dolce insenatura formata dalle coste arcuate a semicerchio); colà quantunque il pericolo non fosse ancora vicino, siccome però lo si poteva scorgere bene e ci si rendeva conto che, nel suo espandersi, era ormai imminente, Pomponiano aveva trasportato su delle navi le sue masserizie, determinato a fuggire non appena si fosse calmato il vento contrario. Per mio zio invece questo era allora pienamente favorevole, così che vi giunge, lo abbraccia tutto spaventato com'era, lo conforta, gli fa animo e, per smorzare la sua paura con la propria serenità, si fa calare nel bagno: terminata la pulizia, prende posto a tavola e consuma la sua cena con un fare gioviale o, cosa che presuppone una grandezza non inferiore, recitando la parte dell'uomo gioviale.

Nel frattempo dal Vesuvio risplendevano in parecchi luoghi delle larghissime strisce di fuoco e degli incendi che emettevano alte vampate, i cui bagliori e la cui luce erano messi in risalto dal buio della notte. Egli, per sedare lo sgomento, insisteva nel dire che si trattava di fuochi lasciati accesi dai contadini nell'affanno di mettersi in salvo e di ville abbandonate che bruciavano nella campagna. Poi si prese un po' di riposo e riposò di un sonno certamente genuino. Infatti il suo respiro, che, a causa della sua corpulenza, era piuttosto profondo e rumoroso, veniva percepito da coloro che andavano avanti e indietro dinanzi alla sua soglia.

Senonché il cortile da cui si accedeva alla sua stanza, riempiendosi di cenere mista a pomici, aveva ormai innalzato tanto il suo livello che, se mio zio avesse ulteriormente indugiato nella sua camera, non avrebbe più avuto la possibilità di uscirne.

Svegliato, viene fuori e si ricongiunge al gruppo di Pomponiano e di tutti gli altri, i quali erano rimasti desti fino a quel momento. Insieme esaminano se sia preferibile starsene al coperto o andare alla ventura allo scoperto. Infatti, sotto l'azione di frequenti ed enormi scosse, i caseggiati traballavano e, come se fossero stati sbarbicati dalle loro fondamenta, lasciavano l'impressione di sbandare ora da una parte ora dell'altra e poi di ritornare in sesto. D'altronde all'aperto cielo c'era da temere la caduta di pomici, anche se erano leggere e corrose; tuttavia il confronto tra i due pericoli indusse a scegliere quest'ultimo. In mio zio una ragione predominò sull'altra, nei suoi compagni una paura s'impose sull'altra. Si pongono in testa dei cuscini e li fissano con dei capi di biancheria; questa era la loro difesa contro tutto ciò che cadeva dall'alto.

Altrove era già giorno, là invece era una notte più nera e più fitta di qualsiasi notte, quantunque fosse mitigata da numerose fiaccole e da luci di varia provenienza. Si trovò conveniente di recarsi sulla spiaggia ed osservare da vicino se fosse già possibile tentare il viaggio per mare; ma esso perdurava ancora sconvolto ed intransitabile. Colà, sdraiato su di un panno steso per terra, chiese a due riprese dell'acqua fresca e ne bevve. Poi delle fiamme ed un odore di zolfo che preannunciava le fiamme spingono gli altri in fuga e lo ridestano.

Sorreggendosi su due semplici schiavi riuscì a rimettersi in piedi, ma subito stramazzò: da quanto io posso arguire, l'atmosfera troppo pregna di ceneri gli soffocò la respirazione e gli otturò la gola, che era per costituzione malaticcia, gonfia e spesso infiammata.

Quando riapparve la luce del sole (era il terzo giorno da quello che aveva visto per ultimo) il suo cadavere fu trovato intatto, illeso e rivestito degli stessi abiti che aveva indossati: la maniera con cui il suo corpo si presentava faceva più pensare ad uno che dormisse che non ad un morto. Frattanto a Miseno io e mia madre... ma questo non interessa la storia e tu non hai espresso il desiderio dl essere informato di altro che della sua morte. Dunque terminerò.
Aggiungerò solo una parola: che ti ho esposto tutte cose alle quali ho partecipato o che mi sono state riferite immediatamente dopo, quando i ricordi conservano ancora la massima precisione
."


QUEL CHE AVVENNE DOPO - PLINIO IL GIOVANE

La seconda lettera di Plinio il Giovane a Tacito

Caro Tacito,

Tu dici che, mosso dalla lettera che io ti scrissi, a tua richiesta circa la morte di mio zio, desideri sapere (ciò che avevo cominciato e poi interrotto) non solo i timori, ma anche quali avvenimenti abbia io sofferto essendo rimasto a Miseno.
Benché l'animo inorridisca a ricordare, comincerò.

Partito lo zio, passai il restante tempo (perché ero rimasto per questo) a studiare, poi il bagno, la cena ed un sonno breve ed inquieto. Molti giorni prima si era sentita una scossa di terremoto; senza però che vi si desse molta importanza, perché in Campania è normale; ma in quella notte fu così forte che sembrò che non si scuotesse, ma che crollasse ogni cosa. La madre corse nella mia stanza, ed io pure mi alzavo per risvegliarla se mai dormisse. Ci sedemmo nel cortile della casa che la separava dal mare, per un breve tratto. Io non so se chiamarlo coraggio o imprudenza perché toccavo appena i 18 anni. 

Chiedo un volume di Tito Livio e così, per ozio, mi metto a leggere e continuavo anche a farne appunti. Quand'ecco un amico ed ospite dello zio, appena venuto dalla Spagna, alla vista mia e di mia madre seduti, ed io che per giunta leggevo, rimprovera lei per la propria indolenza e me di poco giudizio, ma non per questo io levai l'occhio dal libro. Già faceva giorno da un'ora e pur tuttavia la sua luce era incerta e quasi languente, già erano crollate le case intorno e benché fossimo in un luogo aperto ma angusto grande e certo era il timore di un crollo.

Allora, finalmente ci parve bene di uscire dalla città. Ci segue una folla sbigottita e ciò che nello spavento appare come prudenza, antepone il proprio parere all'altrui e in gran massa incalza e preme chi fugge. Usciti dall'abitato ci fermammo. Quivi assistiamo a molti fenomeni e molti pericoli. Infatti i carri che ci facemmo venire dietro sebbene il terreno fosse pianeggiante andavano indietro e neppure con il sostegno di pietre restavano nello stesso punto. Inoltre si vedeva il mare riassorbito in sé stesso e quasi respinto dal terremoto. Certamente il litorale si era allargato e molti pesci restavano a secco. Dal lato opposto una nera ed orrenda nube squarciata dal rapido volteggiare di un vento infuocato si apriva in lunghe lingue di fuoco; esse erano come lampi e più che lampi. 

Allora, quel medesimo amico venuto dalla Spagna, con più forza ed insistenza: "Se tuo fratello, disse, se tuo zio vive, vi vorrebbe salvi; se è morto vorrebbe che voi gli sopravviviate; perché dunque indugiate a scappare?" Al che rispondemmo: "Non abbiamo l'animo, incerti della sua salvezza, di provvedere alla nostra". Egli non esita oltre e se la dà a gambe e a gran corsa si sottrae al pericolo; né passò molto tempo che quella nube discese a terra e coprì il mare. Aveva avvolto e nascosto Capri e tolto dalla vista il promontorio di Miseno. Allora la madre cominciò a pregarmi, a scongiurarmi, a ordinarmi, che, in qualunque modo io fuggissi; lo facessi io perché giovane; ella, appesantita dall'età e dalle (stanche) membra sarebbe morta felice di non essere stata la mia causa di morte.

Ma io risposi di non volermi salvare che con lei; poi pigliandola per mano la costringo ad affrettare il passo; ella mi segue a stento e si lamenta perché mi rallenta (il cammino). Cadeva già della cenere, non però ancora fitta; mi volto e vedo sovrastarmi alle spalle una densa caligine che quale torrente spargendosi per terra ci incalzava. Deviamo, io dissi, finché ci si vede, per non essere travolti, una volta raggiunti, dalla folla che ci viene dietro. Appena fatta questa considerazione si fa notte, non di quelle nuvolose e senza luna, ma come quando ci si trova in un luogo chiuso, spente le luci.

Avresti udito i gemiti delle donne, le urla dei bambini, le grida dei mariti; gli uni cercavano a gran voce i padri; gli altri i figlioli; gli altri i consorti; chi commiserava la propria sorte; chi quella dei suoi. Vi erano di coloro che, per timore della morte, la invocavano. Molti supplicavano gli dei; molti ritenevano che non ve ne fossero più e che quella notte dovesse essere l'ultima notte del mondo. Né mancavano quelli che con immaginari e bugiardi spaventi accrescevano i veri pericoli. Vi erano di quelli che, bugiardi, ma creduti, dicevano di venire da Miseno e che esso era una rovina e (completamente) incendiato. 

Fece un po' di chiaro; né questo ci sembrava giorno, ma piuttosto la luce del fuoco che si avvicinava. Se non che il fuoco si arrestò più lontano; nuova oscurità e nuovo nembo di fitta cenere; noi ci alzavamo a tratti per toglierla di dosso; altrimenti ne saremmo stati se non coperti schiacciati. Potrei gloriarmi che in tante calamità non mi sia uscito un lamento, né una parola men che virile, se non avessi trovato gran conforto alla morte il credere che in quel momento con me periva tutto il mondo. Finalmente si attenuò quella caligine e svanì come in fumo e nebbia; quindi fece proprio giorno ed apparve anche il sole, ma scolorito come suol essere quando è in ecclisse. 

Agli occhi ancor tremanti tutto si mostrava cambiato e coperto da un monte di cenere, come se fosse nevicato. Ritornati a Miseno e ristorate alla meglio le membra si passò una notte affannosa ed incerta tra la speranza ed il timore. Ma il timore prevaleva. Intanto continuavano le scosse di terremoto e molti, fuori di senno, con le loro malaugurate predizioni si burlavano del proprio e del male altrui. Noi, però, benché salvi dai pericoli ed in attesa di nuovi, neppure allora pensammo di partire, finché non si avesse notizia dello zio. Queste cose, non degne certamente di storia, le leggerai senza servirtene per i tuoi scritti; né imputerai che a te stesso, che me le hai chieste, se non ti parranno degne neppure di una lettera. Addio.”


BIBLIO

- Plinio Gaio Secondo - Storia naturale - traduzioni e note di Umberto Capitani e Ivan Garofalo - Einaudi - Torino - 1986 - volumi I-IV -
- Plinio Gaio Secondo - Epistularum Libri Decem -
- Plinio Gaio Secondo - Panegyricus -
- La fortuna e l'opera di Plinio il Giovane - Atti del Convegno internazionale di studi - Città di Castello - San Giustino, 1987 -
- Carlo Riva - Plinio il giovane. L'uomo e lo scrittore - Como - Camera di commercio industria artigianato e agricoltura - 1968 -
- Luigi Rusca - Plinio il Giovane attraverso le sue lettere - Como - Cairoli - 1967 -
- Camillo Solimena - Plinio il Giovine e il diritto pubblico di Roma - Napoli - L. Pierro - 1905 -
- Aldo Spallicci - La medicina in Plinio il giovane - Milano - Scalcerle - 1941 -

1 commento:

  1. Possedeva una grande villa in Alto tevere/Valtiberina nei pressi di Tifernum Tiberinum (odierna Città di Castello in Umbria) dove fece anche erigere a sue spese un magnifico tempio dedicato alla dea fortuna.

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