LAUDATIO FUNEBRIS




Lo studioso Kierdorf (1980)  distingue tre fasi nello sviluppo della laudatio romana: 
- la più antica, esclusivamente romana e italica, che precede la retorica greca a Roma; 
- la media, che comprende i discorsi composti a partire dal I sec. a.c., quando si seguivano ampiamente le regole dell’elogio retorico; 
- la terza, infine, a cui appartengono le laudationes funebres dei vescovi cristiani nel IV e V secolo d.c.

Un'ulteriore distinzione:
- si chiamava epitaffio l'epigrafe posta sul luogo di sepoltura per l'elogia del defunto; 
- epicedio il brano poetico in elogio di un defunto, per piangerlo e commemorarne i pregi; 
- consolatio il brano poetico per consolare chi è in vita ed è addolorato.

La laudatio funebris era l'orazione che veniva proferita dai parenti o da un esperto oratore appositamente designato in memoria di un defunto durante la cerimonia funebre. Il rito del funerale era complesso, con riti vari tra cui un'offerta sacrificale e un'invocazione agli Dei Mani, nonchè una processione dove i familiari dell'insigne defunto portavano o indossavano le imagines dei loro antenati, che potevano essere statuette in cera o in marmo, oppure maschere, in cera o in legno, portate dagli stessi familiari o da attori designati.

C'erano poi le praeficae, l'usanza greca delle donne appositamente pagate (le cosiddette piagnone) che intonavano lamenti funebri detti neniae, da cui i termini nenia e ninna nanna. Le neniae avevano un numero sacro da rispettare, per cui venivano ripetute tre, sei o nove volte, a seconda dell'importanza e quindi pure della durata del funerale o della ricchezza della familia.

Alla fine della processione, quando il corteo raggiungeva il Foro, un membro della familia del defunto, esclusivamente maschile e in genere il più anziano o il più influente della familia stessa, saliva sui rostri e pronunciava la laudatio dalla tribuna. Nell'orazione narrava la vita del defunto nei suoi aspetti pubblici, cioè le cariche pubbliche, le vittorie in battaglia e i trionfi.

Vi si aggiungevano poi le sue virtù, quelle classiche, il buon padre di famiglia, l'essere pius, cioè l'osservanza dei culti agli Dei, la continenza nei costumi e la mancanza di ostentazione. Se si trattava di una defunta che fosse stata una brava matrona, attenta alla casa, all'educazione dei figli e una buona amministratrice.
Era sempre un maschio a fare la laudatio, se era morto il padre era il figlio più grande a scrivere e recitare la laudatio, altrimenti un parente prossimo maschio.

Soprattutto nella Roma imperiale si dava molto risalto all'aspetto oratorio dei personaggi: un buon romano doveva saper combattere, possibilmente con alta carica, doveva saper bene amministrare i territori occupati e doveva possedere una buona orazione per poter convincere le persone, fossero esse popolo o senato, se non in un tribunale.

Il compito della laudazio veniva risparmiato per legge ai giovanissimi, visto che aveva diritto a declamare la laudatio solo chi aveva diritto di parlare in pubblico, cioè quando aveva tagliato la prima barba, in genere sui 16 anni, eppure fu Ottaviano a soli 12 anni, a proferire l'orazione per sua nonna, evidentemente per concessione del senato, cosa che egli fece in modo lodevolissimo e che gli attirò le prime simpatie popolari.



LAUDATIO GRECA

Già nell’Atene del V e IV secolo a.c. veniva pronunciato un discorso, durante un solenne funerale pubblico, in onore dei soldati caduti per la salvezza della patria. Questa usanza, stabilita poi per legge dopo i caduti ateniesi contro i persiani, mirava a esaltare l'amore per la patria, stando vicino ai familiari in lutto, ma soprattutto elogiando chi per la patria aveva sacrificato la propria vita, immortalando fra l'altro il proprio nome.

La legislazione di Solone poi limitò sia il lusso degli apparati sia le manifestazioni eccessive quali sacrifici di buoi o l'uso di percuotersi la testa e il petto o di graffiarsi il volto o strapparsi i capelli; si vietava inoltre la partecipazione di donne che non appartenessero alla famiglia, cioè delle lamentatrici di professione che intonavano canti funebri.

Si riteneva che la celebrazione del rituale propiziasse il viaggio del defunto verso l'Ade e dunque le anime che non avessero ricevuto degni onori e sepoltura avrebbero girovagato come eterni fantasmi. Qui l'orazione funebre si limitava a citare dei testi letterari, come quello del figlio di Evagora I, (400 a c), che salì al trono alla morte del padre (374-3), quand'era ancora giovane, "in quell'età in cui i più per lo più errano".

Dell'assassinio del padre forse era complice ma gli rese splendidi onori funebri, e Isocrate ne scrisse il funebre elogio. Oppure quello del re spartano Agesilao composto da Senofonte:
"E infatti Agesilao andava fiero non tanto perchè dominava gli altri ma perchè dominava se stesso; non perchè era guida dei suoi concittadini contro i nemici, ma perchè li guidava verso ogni virtù"
Solo in epoca imperiale però l’elogio funebre diventò consuetudine ufficiale dei funerali greci.



LAUDATIO ROMANA

Elogio funebre di Agricola
"si quis piorum Manibus locus est; si, ut sapientibus placet, non cum corpore exstinguuntur magnae animae,placide quiescas, Agricola, nosque ab infirmo desiderio et muliebribus lamentis ad contemplationem virtutum tuarum voces."

A Roma la laudatio era un’usanza molto antica e già italica, istituita secondo la tradizione dal console Valerio Publicola in onore di Bruto, suo collega, nel 509 a.c. Ma in realtà fu preromana e pregreca, tanto è vero che destò l’interesse degli storici greci di Roma, Polibio e Dionigi di Alicarnasso.
Dionigi nota che la laudazio romana è più personalistica, perchè se la laudatio ateniese è un discorso collettivo, dedicato a tutti i morti della città, il discorso romano riguarda soprattutto una gens, dedicato ad una famiglia.

Se il discorso ateniese loda i soldati morti in guerra, il discorso romano loda i grandi personaggi che hanno servito lo stato durante la loro vita. Insomma i romani avevano quello strano connubio che nessun popolo ebbe come questo, di unire una forte individualità a un grande senso di organizzazione.

Il carattere encomiastico della laudatio aveva chiaramente l'intento di tessere l'elogio del defunto. Identico ruolo avevano le iscrizioni riportate sulle lapidi tombali, gli elogia. Da non dimenticare poi l'evergetismo, cioè l'usanza, da parte di nobili o ricchi di donare un edificio o il suo restauro o un suo abbellimento ponendovi poi un'epigrafe che rivelava il dono e che andava, alla morte del donatore, a far parte dell'elogio funebre, fra le virtù del defunto.

Questo accadde soprattutto sotto Augusto che molto caldeggiò l'evergetismo, tanto che non si poteva sperare di fare una carriera ad alti gradi senza poter dimostrare, oltre al servizio militare e la buona amministrazione, di aver elargito a favore degli edifici pubblici.




LAUDATIO PRIVATA

La laudatio romana risentì dell'influenza greca, a partire dal I sec. a.c., per l'arte della retorica, soprattutto in epoca imperiale. Qui intervenivano l'elocutio, cioè la formulazione linguistica delle idee trovate dalla fantasia nell’inventio e giustamente ordinate nella dispositio.

La materia dell’elocutio viene suddivisa in base alle ‘virtù’ (virtutes elocutionis) cui deve mirare l’oratore: puritas (correttezza lessicale e grammaticale), perspicuitas (comprensibilità, chiarezza), ornatus (bellezza, eleganza dell’espressione), aptum (armonia delle parti dell’orazione e pertinenza all’argomento, alla situazione, al pubblico).

Una sistematizzazione dell’aptum è costituita dalla dottrina degli stili (genera elocutionis), fondata sul rapporto fra stile del discorso e argomento: genus humile, genus mediocre, genus grave: cioè stile umile, medio e sublime. L’ornatus riguarda invece la classificazione dei tropi e delle figure retoriche di parola e di pensiero (figurae elocutionis, figurae sententiae). dove interessò non solo l’elocutio, ma anche l’inventio e la dispositio.

Infatti Cicerone nei trattati di retorica, si riferisce più volte alle laudationes funebres. Nel Brutus esse riguardano tutti i discorsi anteriori a Catone, che Cicerone sprezza apertamente dal punto di vista estetico.

L'elogio romano era una pratica radicata nel costume romano arcaico, indipendentemente da quello greco ed era riservata ai membri delle grandi famiglie patrizie. Del resto sembra che l'elogio funebre lo facessero anche gli etruschi, soprattutto nei teatri prima dei giochi dedicati al morto. Non a caso il teatro (etrusco e non romano) di Sutri nel Lazio sorge nel bel mezzo della necropoli, e lì dovevano avvenire i funerali con la celebrazione degli elogia e dei ludi funebri.

Al momento delle esequie, dopo un imponente corteo funebre, il figlio o il più stretto parente del defunto pronunciava una laudatio funebris in onore di costui includendovi tutta la sua familia, con tutte le imprese compiute dagli avi fino all'epoca presente. Questa elogia familiare che avveniva nel Foro, davanti al popolo riunito, era una grande pubblicità, non solo per la familia ma per il suo esponente, favorendo la sua votazione quando si fosse presentato a richiedere una carica pubblica. Questo perchè a Roma le cariche pubbliche erano elette dal basso, cioè dal popolo, e non dall'alto come avviene in alcune finte democrazie attuali.

Le orazioni venivano conservate e talvolta riutilizzate in più occasioni con le varie modifiche del caso. Quella da mantenere intatta era sempre la parte riservata alla laudatio della familia, che contava moltissimo nella considerazione del popolo nei confronti di un membro di essa. Una gens gloriosa era un ottimo biglietto di ingresso.

Per glorificare maggiormente la propria gens, o familia, si tendeva a volte ad esagerare, inserendo nella laudazio ascendenze e genealogie leggendarie, o ad alterare i dati storici con l'inserimento di magistrature che il defunto non aveva esercitato, o di vittorie mai ottenute,  o guerre non fatte, cosa che lamentò molto Cicerone. D'altronde sui propri avi era difficile la confutazione se si andava piuttosto indietro nel tempo, visto che in genere non esistevano documenti in merito.

Come primo esempio di oratoria latina, le laudationes funebres, oltre a formare un certo archivio storico, erano espressione della cultura gentilizia: le gentes glorificavano, attraverso le orazioni funebri, i propri defunti, esaltando le loro gloriose azioni e permettendo così che se ne perpetrasse la memoria, alimentate da elargizioni al popolo, in edifici pubblici o soldi.

Da considerare che al tempo, non avendo i mezzi di spettacolo moderni, ogni evento diventava spettacolo, per cui un funerale importante riempiva il Foro di persone curiose di vedere lo spettacolo e di udire l'orazione funebre commentandone poi gli effetti e i risultati, senza contare che a volte si elargivano cibi o doni ricordo agli astanti.

Quindi socialmente i funerali erano una dimostrazione della forza della familia o della gens. I successi degli antenati venivano celebrati insieme ai successi o alle qualità del defunto.


I Funerali

Il pretore romano prometteva a chi aveva provveduto e sostenuto le spese per i funerali l'actio funeraria, azione probabilmente di origine sacrale e pontificale in forza di una clausola edittale che così ci viene riferita da Ulpiano (Dig., XI, 7, de rel. et sumpt.fun., 12, 2):
"Quod funeris causa sumptus factus erit, eius reciperandi nomine in eum ad quem ea res pertinet, iudicium dabo".

È ignota la data di questo editto, che però è certamente tra i più antichi, come si rileva dalla sua forma diretta. È fatto obbligo, secondo i mores, ai prossimi congiunti del defunto di non partecipare a feste e a pubblici spettacoli, d'indossare vesti speciali; alle vedove di non contrarre nuovo matrimonio entro 10 mesi o un anno dalla morte del marito. Talvolta le donne sono obbligate da un decreto pubblico a portare il lutto per uomini benemeriti della patria. I parenti del morto indossavano la toga pulla, cioè la veste bruna.

La processione funeraria poi era pubblica ed elaborata, organizzata da "onoranti funebri professionisti", equivalenti delle odierne Pompe Funebri, che si preoccupavano di assoldare le prefiche (al contrario di quelle greche mai proibite dai romani) e gli attori che indossavano le maschere dei defunti, nonchè di scegliere o fornire gli arredi, dal palco funebre in legno dorato alle stoffe di seta dove poggiare il corpo del defunto, nonchè un prezioso cuscino magari in seta ricamata, nonchè le torce più preziose, i profumi, i rami di mirto, le ghirlande ecc..

Erano in genere gli attori a caricarsi sulle spalle il corpo del defunto deposto sul letto funebre, ma l'accompagnavano pure i suonatori e i danzatori, con gli strumenti musicali, e musiche e nenie adatte. I canti funebri, accompagnati dal suono dei tibicines, rievocherebbero il coro tragico greco, ma sicuramente sul suolo italico avevano origini agricole.

Svetonio e pure Cicerone citano lo svolgimento di ludi (CAES. 84).Dopo il funerale il corpo veniva spesso cremato, specie in epoca imperiale, ma da una minoranza veniva scelta l'inumazione, che prevedeva pochi oggetti cari al defunto seppelliti con lui, ma niente gioielli e soprattutto le ciotole o i vasi venivano spaccati in segno di lutto. Le ceneri invece venivano poste in un'urna e sepolte nei cosiddetti colombari oppure conservate nella domus, in genere nei larari.

I cimiteri romani, in latino coemeterium" ma più spesso "novo die" cioè "nuovo giorno" erano locati fuori del pomerium, il confine sacro dell'Urbe. Questi venivano visitati regolarmente con offerte di vino e cibo, nonchè con speciali osservanze e riti durante la festa dei morti, i cosiddetti "mundus patet".

I monumenti funerari si moltiplicarono durante l'impero romano, e le loro iscrizioni dettero importanti informazioni sia individuali che della storia di Roma. Un sarcofago romano poteva essere preziosamente elaborato, per il pregio dei marmi e scolpito a rilievo e decorato a pittura con scene allegoriche, mitologiche, o storiche, o con scene dal quotidiano.

Sebbene i funerali concernessero anzitutto la familia, di grande importanza nella società romana, essi vennero affidati a guide o veri e propri collegia che provvedevano a tutto il servizio funebre. Insomma le Pompe Funebri furono istituite dai romani. A partire dalla fine della Repubblica l’omaggio non fu più riservato agli uomini ma poté essere reso anche alle donne, cfr. Livio 5.50.7 e Plutarco, DE MUL. VIRT. 242f che loda questo costume.

Durante il principato, la laudatio funebris rimase frequente sia nella forma privata che in quella pubblica. Alla prima categoria, accanto agli elogi di Turia e di Murdia sotto Augusto, e di Matidia sotto Adriano, si possono ricondurre le composizioni di Plinio sul figlio del suo amico Spurinna e il luctuosus liber dedicato da Regolo a suo figlio.

- Filostrato (VS 1.26.544) racconta che Erode Attico compose l’elogio del suo maestro Polemone. 
- Nel romanzo di Achille Tazio (3.25.4), una fenice pronuncia l’elogio funebre del padre. 
 Anche l’Agricola è un’opera che presenta delle affinità con la laudatio funebris (in questo caso si tratta di una laudatio privata).

Molte laudationes furono invece pubblicate dopo la cerimonia funebre e gli esempi più antichi che noi conosciamo sono
- la laudatio di Q. Cecilio Metello in onore del padre Lucio (221 ac.), 
- quella di M. Claudio Marcello in onore del padre Quinto (208), 
- quella di Q. Fabio Massimo in onore del figlio Quinto (fra il 207 e il 203).



LAUDATIO PUBLICA

Quella dell’elogio funebre era una pratica radicata nel costume romano soprattutto ai membri delle grandi famiglie patrizie, ma talvolta anche presso i plebei che a volte erano molto ricchi e assurgevano pure alle cariche pubbliche.. Al momento delle esequie, dopo un imponente corteo funebre, il figlio o il più stretto parente del defunto pronunciava una laudatio funebris nel Foro, davanti al popolo riunito. Accanto a questa laudatio «privata», privata seppure davanti a un pubblico, si diffuse una laudatio «pubblica», che aveva luogo nelle medesime condizioni della precedente, ma era affidata ad un magistrato incaricato.

Questo si usava solo per personaggi particolari i cui funerali erano eccezionalmente a spese dello stato. Ottenere il funerale a spese dello stato era un grandissimo onore che veniva citato nelle laudatio future, perchè significava che un membro della familia aveva servito Roma in modo lodevolissimo.

Durante l'impero, la laudatio funebris rimase frequente sia nella forma privata che in quella pubblica. 
La categoria delle laudationes publicae è rappresentata soprattutto dagli elogi degli imperatori e dei membri della famiglia imperiale, per esempio Polibio nel 30 a.c. assistè alle laudatio di Marcello e poi di Agrippa pronunciate dall'imperatore Ottaviano, per non parlare di quelle in onore di Druso I ed Augusto fino ad Antonino, lodato da Marco Aurelio e Vero, e Pertinace, lodato da Settimio Severo.

Tacito, in qualità di console, pronunciò una laudatio publica di Virginio Rufo (Plin., EP. 3.1.6).
 - Due storici greci, Appiano e Cassio Dione, trasmettono esempi di laudationes romane: Appiano con l'elogio di Marco Antonio per Cesare: 2.20.143 ss. e Cassio Dione con l'elogio di Antonio per Cesare e di Tiberio per Augusto: 44.36-49 e 56.35-41.



LAUDATIO PRO COTIONE O ENTRE INTIMES

Una lista delle laudationes attestate o conservate è riportata da KIERDORF 1980 pp. 137-149. DURRY 1942 pp. 105-106 che distingue tra:

1) laudatio privata pro contione, cioè riservata alla familia ma resa pubblica al popolo.
2) laudatio publica pro contione, cioè fatta da un magistrato pubblico a spese dell'erario di fronte al popolo, o perchè trattavasi di personaggio di altissimo rango, imperatore ecc. o perchè il morto aveva reso grandi servigi allo stato.
3) laudatio «entre intimes», pronunciata da un membro della famiglia davanti al rogo o alla tomba. Questa doveva avvenire solo coi familiari senza il cospetto del popolo.
 Dion. Hal., 5.17.1 e Plutarco, PUBL. 9,7.




EPIGRAFI

Diverse laudationes le conosciamo attraverso le epigrafi;

 - laudatio Turiae: Corpus Inscriptionum Latinarum VI1527: Inscriptiones Latinae Selectae 8393; 
 laudatio «entre intimes». Turia, con sprezzo del pericolo, difese il marito durante le proscrizioni. Il suo elogio funebre, inciso alla fine del I a.c. su una lastra marmorea ancora parzialmente conservata, ne rammenta il coraggio e la partecipazione alle traversie del proprio coniuge:

 “Fornisti il più valido aiuto alla mia fuga con i tuoi gioielli: ti togliesti di dosso tutto l’oro e tutte le gemme perché li portassi con me e poi mi sostenesti durante la mia assenza inviandomi schiavi, denaro, rendite ed eludendo accortamente la vigilanza dei nemici… Quando Cesare Augusto, assente da Roma, mi reintegrò nei miei diritti, tu interpellasti Lepido riguardo alla mia reintegrazione e, prostrata ai suoi piedi, non solo rialzata, ma trascinata e afferrata come una schiava, col corpo coperto di lividure, lo informasti con atteggiamento fermissimo del decreto di Augusto contenente l’atto di grazia e, ricevute anche parole ingiuriose e crudeli ferite, le esibisti pubblicamente, perché il responsabile delle mie sventure fosse ben noto

(Laudatio Turiate, I, 2°-5°; II, 11-18, fine I a.C.).

 - laudatio Murdiae: Corpus Inscriptionum Latinarum VI 10230: Inscriptiones Latinae Selectae 8394;
 laudatio «entre intimes».  Dedicata a una matrona romana di cui si ha, in una lunga iscrizione su una tavola marmorea, l'elogio incompleto, fattole dal figlio del primo matrimonio; è probabilmente della seconda metà del sec. 1º d.c., posteriore all'elogio di Turia.

 - laudatio Matidiae: Corpus Inscriptionum Latinarum XIV 3579: laudatio publica.
 - Hic est illa sita Pia frugi casta pudica. "Qui giace Pia, frugale casta pudica"
 - Hic Seuera sita est Virusi nepotula cara. "Qui giace Severa la cara nipotina di Virusus"

- laudatio a Frontone di Marziale:
A te, padre Frontone, a te, Flaccilla genitrice,
affido questa bimba, boccuccia e mia delizia,
affinché la piccola Erotion non tema le nere ombre
e le mostruose bocche del cane degl'inferi.
Avrebbe appena completato i geli del sesto inverno,
se fosse vissuta non meno di altrettanti giorni.
Tra così antichi protettori possa la birbantella giocare
e il nome mio con la boccuccia blesa garrire.
Le delicate ossa sian protette da non dura zolla, e tu,
terra, non esserle pesante: lei non lo fu per te
.”

 - Laudatio di Catullo al fratello morto:
"Condotto attraverso molte genti e molti mari
giungo a questi infelici riti funebri, fratello,
per donarti l'ultimo omaggio di morte
e invano parlare alla muta cenere.
Giacché il destino mi condusse lontano da te.
Ohimé sfortunato fratello ingiustamente strappatomi,
pure nel frattempo, secondo l'antico uso dei padri
che tramandarono il triste tributo alle ombre,
ora accetta questo così bagnato dal fraterno pianto,
e per sempre, fratello, ti saluto e addio
.

- Laudatio di Marziale per Eròtion:
Qui riposa Erotion frettolosa ombra,
che il sesto inverno rapì per un crudel destino.
Chiunque tu sia, padrone dopo di me del mio campicello,
offri ogni anno il giusto ai piccoli Mani:
così, acceso il sacro focolare e al sicuro da turbamento,
possa questa pietra restar la sola bagnata di pianto nel tuo campo
.”

 -  Femina de multis uix una aut altera uisa
sedula. Seriola parua tam magna teneris
«Tra molte a stento una o due sembrò tanto operosa.                                                                                Tu, tanto grande, sei contenuta in una piccola urnetta». 

 - Dis Manib(us)
Alliae A(uli) L(ibertae) Potestatis
«Agli Dei Mani di Allia Potestas, liberta di Aulo».
Hic Perusina sita est, qua non pretiosior ulla
«Qui giace la Perugina, di cui nessuna donna fu più bella».

 - Le epigrafi spesso riguardavano il soggetto stesso che si rivolgeva ai passanti: come questa epigrafe del II secolo a.c.:
"Straniero, ciò che ho da dirti è poco: fermati e leggi.
Questo è il sepolcro non bello di una donna che fu bella.
I genitori la chiamarono Claudia. Amò il marito con tutto il cuore.
Mise al mondo due figli: uno lo lascia sulla terra,
l’altro l’ha deposto sotto terra. Amabile nel parlare,
onesta nel portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho finito, vai pure
"

 - Hic est illa sita dulcis Sallustia Rufa. "Qui giace la dolce Sallustia Rufa"
Hic sita est Amymone Marci optima et pulcherrima. "Qui giace Amymone di Marcio, buonissima e bellissima"
 - Hic sita est infans patri per saecula flenda. "Qui giace l'infante del padre afflitto per secoli."
 - Hic sita Reginae famula est cognomine Tyche. "Qui giace la cameriera di Regina che si chiamava Tyche"
 - Hic sita sum quae frugiferas cum coniuge terras. "Qui giaccio insieme al mio coniuge con cui fecondo la terra"
- Hic sita quae uixi duodetriginta per annos. "Qui giaccio e vissi 28 anni"
- Hic iacet ille situs Marcus formonsior ullo;
"Qui giace quel Marco che fu il più bello di tutti"
 - Hic Perusina sita est, qua non pretiosior ulla
femina de multis, uix una aut altera uisa;
"Qui giace Perusina, non più bella di altre,
femmina di molti, vista una volta o due".

- Itala me rapuit crudeli funere tellus
dum foueo assidua sedulitate uirum;
deinde, ubi suppositus cinerem me fecerit ardor,
accipiat Manis paruula testa meos;
hos duo testa tegit coniecta in un[um
crudelis, quia deseruere patr[em,
mea sunt hic ossua in olla consita;

Non hic olla meos cineres aut continet arca,
set passim mater terra texit positos;
magna hominis hic ossa tegit saxus;
(Iu)lia amata sacerdos magna;
magnis moribus femina;

"La terra italiana mi rapì crudelmente con un funerale
pur coltivando una costante attenzione
poi dove il fuoco mi ridurrà in cenere
accolgano i Mani il mio piccolo guscio;
questi due nascosti in un unico guscio
che il padre abbandonò,
Non questa olla nè un'arca contengono le mie ceneri,
ma sono custodita dalla madre terra,
qui la roccia nasconde le ossa di grandi uomini;
Iulia amata, grande sacerdotessa, 
femmina di grandi valori morali."

- Magnarum rerum parua sepulcrauides;
Visuntur magni parua sepulcra Iouis
uita subit caelum, corpus tellure tenetur.
"Piccoli sepolcri celano grandi cose
piccoli e grandi appaiono a Giove i sepolcri
perchè la vita torna al cielo, il corpo torna alla terra".

«Crudelis fati rector duraque Persiphone,
quid bona diripitis exuperantque mala?»
«O crudele signore della morte e tu dura Persefone, 
perché rapite le cose buone e le malvagie restano?».



LAUDATIO PRO IULIA e PRO CORNELIA

Nel 69 a.c. Cesare pronunciò dai Rostri del Foro, gli elogi funebri per la zia Giulia, vedova di Gaio Mario, e per la moglie Cornelia, figlia di Lucio Cornelio Cinna. Nel farlo, mostrò per la prima volta in pubblico dal periodo sillano le immagini di Gaio Mario e del figlio Gaio Mario il giovane, e il popolo le accolse plaudente. Nell'elogio per Giulia, Cesare esaltava la discendenza della zia per parte di madre da Anco Marzio, evidenziando come negli esponenti della gensIulia scorresse ora anche il sangue regale accanto a quello divino.

« Da parte di madre mia zia Giulia discende dai re; da parte di padre si ricollega con gli dei immortali. Infatti i Marzii Re, alla cui famiglia apparteneva sua madre, discendono da Anco Marzio, ma i Giuli discendono da Venere, e la mia famiglia è un ramo di quella gente. Confluiscono, quindi, nella nostra stirpe, il carattere sacro dei re, che hanno il potere supremo tra gli uomini, e la santità degli dei, da cui gli stessi re dipendono. »
(Svetonio, Cesare, 6, traduzione di Felice Dessì)

L'elogio di Cornelia era insolito, perché non si usava pronunciare discorsi in memoria di donne morte giovani, ma fu apprezzato dal popolo, in quanto celebrava una figura femminile ben lontana da quella della classica matrona romana.



LAUDATIO PRO CORNELIO SCIPIO BARBATO

“Lucio Cornelio Scipione Barbato, generato dal padre Gneo, uomo forte e sapiente, il cui aspetto fu in tutto pari al valore, fu console, censore, edile presso di voi. Prese Taurasia, Cisauna e Sannio, assoggettò tutta la Lucania e ne portò via ostaggi”.


LAUDATIO PER LA MORTE DI CESARE

"nec vero habeo quemquam antiquiorem, cuius quidem scripta proferenda putem, nisi quem Appi
Caeci oratio haec ipsa de Pyrrho et nonnullae mortuorum laudationes forte delectant
."

Dopo la morte violenta di Cesare tutti sono sbigottiti, senato compreso che non sa da che parte schierarsi, temendo per se stessi e per una guerra civile che sarebbe disastrosa per Roma. Tutti tacciono ma non si può seppellire Cesare senza una orazione funebre. Qui Antonio è l'unica voce che si leva in onore del defunto. Era amico di Cesare, suo luogotenente con speranze di ereditarne un giorno il trono tramite adozione. Ora che è morto potrebbe ottenere quel trono per acclamazione del popolo, ma non sa ancora che fare, è durante la laudatio che gli vengono delle idee.




CICERONE

Nel De oratore di Cicerone, II libro, uno dei protagonisti del dialogo, Antonio, si interroga sulla necessità di fornire precetti per le laudationes:
"nostrae laudationes, quibus in foro utimur, aut testimoni brevitatem habent nudam atque inornatam aut scribuntur ad funebrem contionem, quae ad orationis laudem minime accommodata est. Sed tamen, quoniam est utendum aliquando, non numquam etiam scribendum, vel ut Q. Tuberoni Africanum avunculum laudanti scripsit C. Laelius, vel ut nosmet ipsi ornandi causa Graecorum more, si quos velimus, laudare possimus, sit a nobis quoque tractatus hic locus"
La laudatio funebris, spiega Antonio, è pronunciata in occasioni in cui non occorre fare particolare sfoggio di abilità retorica. Cionondimeno, l’ornatus è presente nei discorsi funebri pronunciati o scritti per altri da valenti oratori come Lelio e si rivela necessario per quanti vogliano comporre elogi more Graecorum. 
Lo stesso Antonio aveva già in precedenza espresso parole di lode per l’orazione funebre di Quinto Lutazio Catulo in onore della madre Popilia, dalla quale egli stesso e i presenti avevano tratto grandissimo piacere: "in eo quidem genere scio et me et omnes qui adfuerunt delectos esse vehementer, cum a te est Popilia mater vestra laudata".

Cicerone si occupa della laudatio funebris nella trattazione del tertium genus, l’epidittico, così come farà più tardi Quintiliano: se ne può dedurre che, per entrambi, le regole dell’elogio retorico sono applicabili anche ad essa.
Le laudatio sono associate ai discorsi anteriore a Catone, che Cicerone non stima dal lato estetico, distinguendo però la laudatio più antica, scarna e priva di eloquenza, dalla laudatio della generazione di Cicerone e di quella precedente, ormai conforme alle regole retoriche, e che è data dal modello greco (more Graecorum).

BRUT. 61. Sul giudizio severo di Cicerone nei confronti delle laudationes funebres pesano le falsificazioni spesso riscontrate: le famiglie aristocratiche si servivano delle orazioni funebri per tramandare la memoria delle glorie familiari e per dar lustro alla loro nobiltà. In quest’ottica, lamenta Cicerone, non si rinunciava ad inserire cose mai accadute: falsi trionfi, un numero esagerato di consolati, genealogie alterate etc. 

La stessa critica sarà ripresa da Livio, 8.40.4. D'altronde Giulio Cesare si vantò di discendere da uno dei re di Roma e da una Dea, e il popolo gli credette, un pò perchè il popolo è sempre credulone e un po' perchè Giulio Cesare era uomo tanto eccezionale che una provenienza eccezionale poteva anche averla.
Intanto Marco Antonio, nipote di Cicerone, venne chiamato a pronunciare la laudatio di Cesare, dinanzi al popolo romano riunito per rendere omaggio al dittatore assassinato. Ce lo raccontano Svetonio, Plutarco, Appiano e Cassio Dione, cui si aggiungono le critiche di Cicerone. Questi, nella Seconda Filippica, aveva definito l’orazione di Antonio:
"Tua illa pulchra laudatio, tua miseratio, tua cohortatio."

PHIL.2.90-91: 
"Etsi tum, cum optimum te putabant me quidem dissentiente, funeri tyranni, si illud funus fuit, sceleratissime praefuisti. Tua illa pulchra laudatio, tua miseratio, tua cohortatio; tu, tu, inquam, illas faces incendisti, et eas, quibus semustulatus ille est, et eas, quibus incensa L. Bellieni domus deflagravit." 

Cfr. ATT. 16.10: at ille etiam in foro combustus laudatusque miserabiliter in cui i termini laudatus e miserabiliter rievocano la laudatio e la miseratio del testo delle Filippiche. Il comportamento scellerato (praefuisti sceleratissime) consisterebbe nel tono patetico (miseratio) e nell’incitamento (cohortatio) all’odio nella folla, cosicchè anche la bellezza estetica riconosciuta alla laudatio diviene oggetto di condanna: Antonio avrebbe fatto ricorso all’abilità oratoria a fini personali e iniqui. Antonio non dimenticò e per questo fece uccidere Cicerone.



SVETONIO

Svetonio descrive così il giorno delle esequie: il tumulus è posto nel Campo Marzio, davanti alla tribuna viene edificata una cappella dorata al cui interno giace un letto di porpora e d’oro con gli abiti indossati da Cesare al momento dell’assassinio. Intorno un corteo di persone porta offerte e iniziano i giochi funebri, durante i quali s’intonano canti di pietà per il defunto e di odio contro i suoi assassini.
Come elogio funebre (laudationis loco), il console Antonio fa leggere da un araldo dapprima il senatoconsulto che aveva conferito a Cesare tutti gli onori divini e umani, poi il giuramento dei senatori impegnatisi a proteggere la vita dello stesso Cesare. Terminata la lettura Antonio si sarebbe limitato a  poche parole (quibus perpauca a se verba addidit). Pertanto non viene riportato il contenuto o almeno non lo stesso contenuto della laudatio riportata da Appiano e Cassio Dione.



PLUTARCO

Plutarco riferisce del funerale di Cesare in quattro luoghi delle Vite Parallele. Ma tace completamente il contenuto della laudatio.
- Portato nel foro il corpo di Cesare - si legge nella Vita di Bruto e nella Vita di Antonio - Antonio pronunciò l’elogio funebre secondo l’uso. Essendosi accorto che la folla si commuoveva al suo discorso, passò ad un tono di compassione, mescolando alle lodi compianto e orrore per il delitto; quindi prese le vesti insanguinate di Cesare e le spiegò per mostrare i tagli dei colpi e il gran numero di ferite. -


APPIANO

Il discorso ha uno statuto particolare, essendo al contempo una laudatio publica e privata: Antonio, come sottolinea Appiano (2.20.143), è stato scelto per tenere l’orazione funebre in quanto «console per un console, amico per un amico, parente per un parente». Così l’oratore inizia con una riflessione sul proprio ruolo. Il discorso funebre di un uomo della grandezza di Cesare non può essere affidato ad un solo uomo, ma deve essere pronunciato dalla patria intera:

CAES. 84: laudationis loco consul Antonius per praeconem pronuntiauit senatus consultum, quo omnia simul ei diuina atque humana decreuerat, item ius iurandum, quo se cuncti pro salute unius astrinxerant; quibus perpauca a se uerba addidit.

Nel racconto di Appiano si possono distinguere due parti: nella prima, Antonio legge i decreti del Senato, gli honores, e il giuramento del popolo romano di proteggere Cesare e di vendicarlo, accompagnando la lettura con parole di commento; nella seconda, loda Cesare come un Dio, ne elenca le imprese belliche, le res gestae, e infine lo rimpiange come amico perduto.

Le espressioni di pietà, di pianto e di lamento accompagnano la laudatio di Antonio per tutta la sua durata. Una simile commistione tra l’elogio e l’elemento patetico emozionale, spiega Menandro, mira ad eccitare il sentimento di pietà negli ascoltatori e a farli piangere. Quindi in Antonio ci sarebbe una precisa volontà di stimolare la pietà e il pianto negli ascoltatori, e magari anche la rabbia. La versione di Appiano si allontana un po' da quella di Svetonio secondo il quale, come si è già ricordato, la lettura degli honores fu affidata all’araldo. Appiano afferma di aver riportato solo una parte di un discorso che doveva essere ben più lungo: cfr. 2.20.146.15-16. 




CASSIO DIONE

L’immagine con cui l’Antonio Appianeo inaugura la laudatio, la voce unica della patria che si leva in onore del defunto, si ritrova in Cassio Dione. I due storici concordano anche nella parte finale del discorso di Antonio che determina un crescendo di pathos. L’amplificatio drammatica culmina nell’apostrofe diretta al defunto che anticipa il gesto drammatico di mostrare al popolo le vesti insanguinate di Cesare.

La laudatio che Cassio Dione mette sulla bocca di Antonio, pur con significative concordanze con quella di Appiano, è più elaborata e il proemio contiene l’annuncio degli aspetti della vita di Cesare su cui l’oratore si dilungherà.

La teoria dell’encomio prescrive di cominciare la lode menzionando le origini del laudandus e i suoi antenati. A questo precetto si adatta il discorso riportato da Cassio Dione: la prima sezione è dedicata infatti alla famiglia di Cesare e ai suoi antenati più antichi, di cui viene ricordata la discendenza regale e divina.  

Nella laudatio tradizionale la lode degli antenati e della gens era collocata al termine della lode del defunto, qui invece avviene i contrario, Nella seconda parte Antonio, nel racconto di Cassio Dione, rammenta che Cesare si è distinto per intelligenza, coraggio, filantropia, forza, insomma le virtù
secondo i precetti del genere epidittico. 

Basti citare il testo del De oratore ciceroniano: nam clementia, iustitia, benignitas, fides, fortitudo in periculis communibus iucunda est auditu in laudationibus. Inoltre, nel delineare il comportamento di Cesare, Antonio si sofferma a considerare dapprima come egli si sia comportato nella vita privata, evidenziando il trattamento riservato gli amici e ai nemici, poi ne ricorda il comportamento nella vita pubblica, in ogni ruolo o carica ricoperta.
Questo modo di procedere coincide perfettamente con quello suggerito dallo Pseudo-Dionigi.

Una testimonianza in prima persona, inserita dallo stesso Cassio Dione nella sua opera, offre una diversa chiave di lettura. Nel LXXIV libro delle Storie, egli racconta di aver assistito alle esequie di Pertincae e di aver ascoltato l’elogio pronunciato da Settimio Severo in onore del defunto imperatore. Alto ufficiale dell’Impero Romano nell’età dei Severi, Cassio Dione conosceva bene la pratica della laudatio romana, almeno nella forma dei sec. II e III.

Il discorso di Antonio per Cesare, come quello di Tiberio per Augusto, potrebbe allora riflettere struttura ed elementi propri della laudatio funebris di epoca imperiale. Se è così, alle due orazioni riportate da Cassio Dione va riconosciuto il valore di preziose testimonianze di una laudatio funebris molto lontana dall’originaria purezza romana, ormai simile a quella greca.

Nel discorso trasmesso da Cassio Dione c'è anche la posizione riservata agli honores, il cui elenco era una delle parti più attese dal pubblico, importanti e basilari  fin dai tempi antichi. Secondo l’ordine tradizionale, gli honores erano elencati all'inizio, seguiti subito dopo dall’illustrazione delle res gestae, cioè le imprese di guerra.  Appiano riporta la medesima sequenza. 

L’Antonio di Cassio Dione invece inizia con cariche e riconoscimenti tributati dal popolo romano a Cesare man mano che egli procedeva nelle imprese, secondo una disposizione cronologica. Forse la teoria retorica, che non prevedeva per l’elogio una separazione tra cariche e onori, ha fatto optare per questa soluzione: per cui il blocco isolato degli honores avrebbe turbato l'armonia del discorso.

Così, il discorso di Antonio occupa un intero capitolo e si conclude con la lamentazione. La reazione del popolo è prima di commozione e poi di rabbia. L'eccitazione del popolo romano, dovuta anche al gesto di esporre il corpo ancora sanguinante di Cesare e dal discorso in suo onore, è sottolineato come bello dal punto di vista estetico, ma pessimo dal punto di vista dell’opportunità politica e morale, perché  innesca disordini e scontri cruenti.


PSEUDO DIONIGI

Lo Pseudo-Dionigi consiglia, nel discorso funebre diretto ad un individuo, di considerare se gli antenati siano autoctoni o meno (RH. 279): in Cassio Dione, Antonio ricorda che Cesare discende da coloro che hanno fondato Roma (44.37.3-4) . In Appiano c’è solo un breve riferimento alla nascita divina di Cesare (2.20.146).


POLIBIO

Secondo quanto riferisce Polibio, le virtù e le azioni costituivano il nucleo principale della laudatio funebris romana.


LAUDATIO PRO MARCIA

Riguardò Marcia, cugina di Ottaviano, che sposò Paolo Fabio Massimo, console nell'71 a.c.; fu probabilmente lei la Giulia, sorella di Cesare, coinvolta come testimone e accusatrice, insieme alla madre Aurelia, nel caso del sacrilegio di Publio Clodio Pulcro nel 62 a.c.
Morì nel 51 a.c., l'anno successivo alla scomparsa del marito; la sua laudatio funebris fu pronunciata dal nipote Ottaviano, appena dodicenne.


LAUDATIO PRO MURDIA

La laudatio costituisce un'importante fonte storiografica perché riporta notizie e fatti relativi al defunto e al periodo a lui contemporaneo. La laudatio di Murdia è un'epigrafe, ma molto più breve della precedente; solo dall'ortografia e dalla grammatica si rileva che è dell'età augustea, perché nulla si può stabilire dal contesto.



LAUDATIO PRO TURIA

Tra le più famose laudationes è la Laudatio Turiae, ( 8-2 a.c. ), di cui è stata rinvenuta una estesa epigrafe, pronunciata in onore della moglie da un personaggio, già proscritto durante il secondo triumvirato e salvatosi appunto per merito di lei. Nella coppia molti studiosi, tra cui Mommsen, hanno ravvisato Q. Lucrezio Vespillone e sua moglie Turia (19 a.c.).

Il testo fornisce importanti particolari di carattere giuridico sul matrimonio, sul divorzio e sulle proprietà dei coniugi. Negli anni drammatici delle guerre civili, questa donna riuscì a nascondere e in seguito a far perdonare dai triumviri il marito, che poi rifiutò il divorzio spontaneamente proposto dalla moglie sterile. E quindi assegnata maggior importanza alla persona e al legame affettivo piuttosto che al matrimonio liberorum creandorum causa.

La laudatio di Turia è un'epigrafe, composta di sei parti, di cui tre si conservano ancora e l'ultimo fu scoperto e pubblicato da D. Vaglieri nel 1898. È mutila in principio, perciò non sappiamo né il nome della defunta, né quello del marito che fece incidere nel marmo l'elogio in suo onore. L'epigrafe fu scritta nell'età augustea e non prima del 27 a.c., perché Cesare Ottaviano aveva già il titolo di Augusto.

Questa epigrafe non è propriamente una laudatio, specialmente perché il marito non si rivolge ai Quiriti, com'era consuetudine di chi pronunziava un elogio funebre, ma alla moglie, e poi perché la laudatio si pronunziava nel giorno stesso delle esequie, e questa epigrafe come appare dal contesto fu composta qualche tempo dopo.



LAUDATIO CLAUDIAE

Interessante perchè oltre alle normali connotazioni affettive uxori dulcissimae, iucundissimae, è sintomatico il modello della laudatio di Claudia (CIL I2 1211 = VI 15346 = ILS 8403 = ILLRP 973), matrona che, vivendo la tradizionale dimensione domestica, domum servavit, lanam fecit. Dell’iscrizione metrica,
probabilmente di età graccana, qualcuno ha nesso in dubbio l’autenticità, perché, scoperta in epoca umanistica, è andata perduta; tuttavia rispecchia valori che furono rilanciati dalla propaganda augustea e continuarono per tutto l’impero.



LE LAUDATIO CRISTIANE

La laudatio viene adottata dagli autori cristiani come: 
- Gregorio di Nazianzo (elogio per Atanasio: OR. 21; per Basilio: OR. 43; e per i membri della sua famiglia, il padre OR. 18, il fratello Cesario OR. 7 e la sorella Gorgonia OR. 8). Nella sua Laudatio per Atanasio, vescovo Alessandrino, uno de’ principali santi e patroni della nazione greca, zelantissimo sostenitore della dottrina ortodossa, per cui ebbe a combattere contro gli ariani, lo definisce "Occhio luminoso del mondo, gran presidente e norma de’ sacerdoti, voce sublime, sostegno della fede, lucerna di Cristo, e secondo precursore."

- Gregorio di Nissa, con Epitafio per il vescovo di Costantinopoli Melezio, poi fatto santo, scomparso poco dopo la sua nomina, già Basiliano e guida della rivolta antiariana in oriente, dove ariani e cattolici si uccisero tra di loro;. Sempre Gregorio nel Discorso consolatorio per Pulcheria, la figlia morta di 7 - 9 anni di Teodosio, già piena di cristiane virtù (...?)  Infine per Epitafio per l’imperatrice Flacilla, religiosissima creatura che fortemente si oppose a che teodosio suo marito, anzichè perseguitare gli ariani facesse con loro un compromesso che ponesse fine alle ostilità e ai massacri.

- Santo Ambrogio (per il fratello Satiro: De excessu fratris; per gli imperatori Valentiniano e Teodosio: De obitu Valentiniani e De obitu Theodosii). Il santo, che aveva proibito a Teodosio di entrare in chiesa dopo il massacro di Tessalonica del 390, in cui l'imperatore aveva fatto uccidere più di settemila persone, tra cui molte donne e bambini, alla sua morte ne tesse una Laudatio Funebris elogiando le sue virtù e in particolare la sua pietà.

- Girolamo (EP. 108 Epitaphium Sanctae Paulae ed EP. 127 Ad principiam Virginem de Vitae Sanctae Marcellae).  Da Girolamo, apprendiamo che era stata la teoria retorica a prescrivere che la lode degli antenati, comprese le res gestae da essi compiute, fosse invece posta all’inizio della laudatio: "praecepta sunt rhetorum ut maiores eius qui laudandus est et eorum altius gesta reperantur, sicque ad ipsum per gradus sermo perveniat"
Ma Girolamo, il traduttore della Bibbia, flagellato a sua detta dallo stesso Gesù, molto arrabbiato per i suoi studi filosofici e retorici, a cui aveva promesso solennemente di non mettervi più mano, improvvisamente aveva dimenticato che la laudatio faceva parte della retorica e per di più pagana?

Eusebia religiosa magna ancella Dei. "Eusebia grande religiosa ancella di Dio"


BIBLIO

- Tito Livio - Ab Urbe condita libri - VIII -
- Svetonio - Cesare - VI - traduzione di Felice Dessì -
- Ferdinando Castagnoli - Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome - Rome - École Française de Rome - 1989 -
- Nadia Agnoli - L'archeologia delle pratiche funerarie - Mondo romano - Il Mondo dell'Archeologia - Enciclopedia Treccani - 2002 -
- Javier Arce - Funus Imperatorum: los funerales de los emperadores romanos - Alianza Editorial - 1990 -
- J. Bodel - Death on display: looking at Roman funerals - in The art of ancient spectacle - eds. B. Bergmann, C. Kondoleon - Washington - 1999 -




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